domenica 16 marzo 2025

RIABITARE L’ITALIA: PROVIAMOCI CON PIÙ LIBERTÀ, MENO REGOLE E APERTURA AL MERCATO

 Recensione del libro “Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi” 

di MICHELE LODIGIANI


Il libro che proponiamo per l’esordio di questa rubrica costituisce un importante tassello di un progetto ambizioso promosso dall’associazione “Riabitare l’Italia”  con il supporto editoriale di Donzelli Editore, che mette al centro dei propri interessi le aree interne del nostro paese. Si tratta in tutta evidenza di un intento nobile e necessario, considerando che soltanto il 23,2 % del territorio italiano è pianura e che la densità media di popolazione è rispettivamente (fonte ISTAT 2013) di 67 abitanti/km2 nelle aree a basso grado di urbanizzazione, di 376 abitanti/km2 in quelle a media urbanizzazione e di ben 1.390 abitanti/km2 nelle zone ad alto grado di urbanizzazione (www.spigolatureagronomiche.it).

Il titolo, volutamente provocatorio, non si riferisce ovviamente al significato storico ed etimologico del termine “borgo”, quanto all’accezione che esso ha assunto negli ultimi decenni al servizio di un marketing territoriale finalizzato soprattutto allo sviluppo turistico, che un luogo comune ormai affermato definisce “petrolio d’Italia”. Al termine “borgo” si può allora contrapporre il concetto di “paese”, che ricomprende la grande prevalenza dei centri abitati che non hanno necessariamente le caratteristiche proprie del borgo dal punto di vista urbanistico (un centro storico antico e ben conservato, magari una cinta muraria o tracce di fortificazione), che quindi non possono aspirare ad un’economia basata sul turismo (ammesso che essa sia auspicabile) e ai quali dunque occorre dare altre opzioni di sviluppo economico in grado di arrestare l’impoverimento sociale e demografico che si verifica senza soluzione di continuità da almeno 60 anni.

Il libro è costituito da una raccolta di articoli di autori vari, diversi dei quali - come gli stessi curatori - sono fra i promotori dell’associazione “Riabitare l’Italia”: prevalgono di gran lunga i docenti universitari di varie discipline (urbanisti, storici, antropologi, economisti, ecc.), ma non mancano altre figure professionali, accomunate tutte dall’interesse per la materia e in diversi casi da esperienze professionali o personali ad essa pertinenti. Il numero consistente di questi articoli, 23 ricomprendendo l’introduzione, ne impedisce qui una valutazione puntuale. Diversi di essi danno contenuto alla dicotomia lessicale fra borgo e paese che ha ispirato il titolo del libro; altri sviluppano una critica severa alle politiche (attive o omissive) riservate da sempre alle aree interne, ancora una volta ribadite nella destinazione dei fondi del PNRR; altri ancora affrontano l’argomento dal punto di vista storico/sociologico; uno, quello dell’antropologo Vito Teti, restituisce in alcune pagine dolenti e struggenti il destino di chi sceglie la “restanza”: “Dal mio paese, dalla mia stanza, non me ne sono mai andato, nemmeno quando pensavo di farlo, nemmeno quando l’ho fatto”. E ancora: “Quando, tra i 20 e i 40 anni, giravo il mondo, andavo all’università, nelle città, ai convegni, sentivo che tutti si domandavano, stupiti e compiangendomi, come in fondo avessi deciso di restare in paese. Nessun motivo pratico, familiare, di amore mi salvava da uno sguardo che in fondo mi liquidava come «paesano»: incapace di andarmene. Poi, negli ultimi decenni, il mio essere rimasto in paese è stato lentamente considerato un atto di eroismo, una scelta saggia, una vera e propria fortuna con il vivere in un ambiente sano, genuino, protetto, lento. E allora come oggi il modo di considerare il paese è ideologico, esterno, etnocentrico”. Parole disincantate, sincere, autobiografiche senza essere autoreferenziali, che descrivono con convincente partecipazione uno sguardo “dall’interno delle aree interne”, ben diverso da quello che caratterizza quasi tutti gli altri capitoli del libro, dove per correggere - con successo - la percezione distorta ed oleografica della realtà che il cittadino (in particolare quello metropolitano) si dà attraverso il filtro dei suoi occhiali rosa (o forse verdi, anzi green), si impiegano le lenti del microscopio: ne risulta uno visione dall’alto, accurata nel particolare ma sfuocata nell’insieme, illuminata da luce fredda e immersa in un’aria filtrata da laboratorio, priva degli odori (profumi e puzze) e dei sapori della realtà. 

In alcuni capitoli alla retorica semplicistica e sempliciotta del borgo come ritorno al bel tempo antico si finisce così per sostituirne un’altra, più colta, apparentemente più rispettosa delle specificità locali ma in ultima analisi assai astratta ed accademica, ben più efficace nel denunciare gli errori fatti che nel proporre soluzioni concrete, spesso sostenuta da ostentazioni gergali immaginifiche non meno che inconsistenti. Vale per tutti l’esempio del capitolo che ci è parso in questo senso il più estremo, proposto da Paolo Pileri, professore di Progettazione territoriale ed ambientale al Politecnico di Milano e intitolato “Borghi e sentieri assieme: la ricetta della rigenerazione più autentica e urgente”. Qui, dopo un’introduzione in cui con parole aspre si censurano le numerose iniziative ispirate appunto alla retorica del borgo, tutte viziate dalla finalità ultima - evidentemente ritenuta imperdonabile - di “far soldi”, si sostiene l’imprescindibile necessità di guardare al borgo “… dentro un antico sistema di relazioni, a scala territoriale, retto da fili leggeri che lo legavano agli altri borghi, alle campagne attorno, ai boschi, alle città più grandi. Questi fili sono i sentieri”. Da qui la necessità di ristabilire “la relazione simbiotica e mutualistica tra linea e luogo” (che supponiamo metafore per sentiero e borgo) per innescare una rigenerazione virtuosa, ben diversa da quella perniciosa indotta dai flussi turistici motorizzati che svilisce i borghi che così “… vengono curvati sulla forma dei capricci del cittadino-consumatore-globalmetropolitano”. Nell’auspicare - sacrosantamente e a tratti anche liricamente - un flusso culturale che scorra se mai al contrario e dia contezza al cittadino della realtà vera del borgo e non della macchiettistica rappresentazione che lo storytelling pubblicitario gli restituisce, il professor Pileri forse non si rende conto di quanto la sua stessa proposta sia calata dall’alto, tutta volta - mutuando l’efficace terminologia del nostro - a curvare il borgo sulla forma dei capricci del cittadino-diversamente-consumatore-globalmetropolitano-politicamente-corretto: dubitiamo infatti che se sottoposta a referendum in qualche borgo italiano essa sarebbe accolta trionfalmente, a meno di consistenti contributi pubblici (sempre per quella maledetta finalità ultima di “far soldi”!). 

Quanto agli altri ingredienti della “ricetta della rigenerazione più autentica e urgente” l’articolo di Pileri non ne fa cenno, ma anche il resto del volume è piuttosto reticente. Soltanto qualche vago riferimento viene fatto alla necessità di mantenere o riportare nelle aree interne alcuni presìdi essenziali, come l’ambulatorio medico, la scuola, il servizio postale, un’accettabile viabilità: è da sperare che questa necessità (forse un tantinello più autentica ed urgente rispetto a quella di riannodare il filo dei sentieri) sia sottaciuta in quanto ritenuta sottintesa! Si dice poco anche sulle possibilità offerte da internet, se non per sminuire le aspettative miracolistiche che ad esso a volte vengono attribuite, trascurando però del tutto gli esempi virtuosi anche in campo scolastico, come quello pionieristico più che ventennale del Comune di Bardi, nell’appennino parmense (qui). Un solo riferimento insignificante si fa ad esperienze interessanti come quella fatta a Riace da Mimmo Lucano: un tentativo ardito di trasformare in opportunità tanto il problema delle aree interne quanto quello dei migranti, che purtroppo non si è valutato per ciò che era o poteva essere avendone provocato le diverse tifoserie politiche l’aborto prematuro.Il dubbio, insomma, è che diversi dei saggi ospitati non si basino concretamente sulla realtà dei borghi (e tanto meno dei paesi), quanto su una narrazione non meno immaginaria di quella contestata a partire dal titolo, anche se di tutt’altro segno. 

Ed è proprio l’indifferenza alle dinamiche economiche che rivela i limiti del libro, laddove invece si dà maggior spazio a quelle naturalistiche, storiche, sociologiche ed ambientali, come se queste non dipendessero in misura significativa da quelle. Fatta salva la necessità di mantenere i presìdi essenziali di cui si è detto sopra - un prerequisito che non può che realizzarsi attraverso l’intervento della spesa pubblica – è infatti assai dubbio che vi siano “politiche” in grado di rivitalizzare alcunchè in assenza di un mercato dove l’offerta che le aree interne possono proporre incroci una domanda proveniente da quelle stesse aree nonché da tutte le altre, dal centro urbano più prossimo ai più remoti paesi esteri. E’ infatti probabile che ad arginare l’abbandono possa riuscire meglio la concreta speranza di “far soldi” che qualunque altra soluzione immaginata dagli accademici o dalla politica, perché essa è la condizione imprescindibile per intraprendere, anche se non ne costituisce quasi mai il fine unico. Così come il professor Pileri difficilmente si presterebbe ad insegnare al Politecnico se non ne avesse anche una gratificazione materiale, allo stesso modo il ristoratore, l’artigiano o l’agricoltore di paese aspirano ad una adeguata remunerazione per il proprio lavoro: è infatti attraverso di essa che l’attività può nascere e consolidarsi, generare nuova occupazione, ottenere la fiducia dei fornitori e l’apprezzamento dei clienti, aprire nuovi mercati e guadagnarsi la considerazione sociale e la gratitudine della comunità in cui viene esercitata. Le imprese sono di chi le gestisce, se ne assume i rischi … e riesce a “far soldi”, ma sono nel contempo un bene comune di quanti, anche indirettamente, beneficiano delle ricadute materiali e immateriali che esse generano. “In teoria, fra teoria e pratica non c'è nessuna differenza. In pratica, c'è”, insegna il noto aforisma di Yogi Berra (qui). Come, dunque, tradurre nel mondo reale delle aree interne quanto si è qui sopra sostenuto? La risposta a questa domanda richiederebbe competenze multidisciplinari ben maggiori di quelle di chi scrive. Essa dovrebbe tuttavia trovare la propria ispirazione nell’articolo 41 della nostra Costituzione, dove la sintesi essenziale non sacrifica (se mai enfatizza) la chiarezza e la limpida bellezza dell’enunciato: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all'ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Quanto questa libertà sia oggi limitata in Italia e in Europa dalla smania regolatoria e dalla pervasività della burocrazia è sotto gli occhi di tutti. Si guardi, a conferma di ciò, alla Politica Agricola Comunitaria e alla sua declinazione nazionale, caratterizzate da un delirante sistema di vincoli, incentivi, condizioni, casistiche, labirinti procedurali, eccezioni, premialità, penali, ecc. ecc., con risultati che in molti casi sono l’opposto delle finalità dichiarate. 

Proprio dall’agricoltura tuttavia proviene un’esperienza virtuosa alla quale ci si potrebbe e dovrebbe richiamare, estendendone i principi ispiratori liberali anche ad altri settori, magari proprio a partire dall’Italia dei paesi. Fino a qualche decennio fa l’agricoltore intenzionato a vendere direttamente i propri prodotti al consumatore finale, impiegare i propri mezzi al di fuori del perimetro aziendale, offrire servizi turistici o di altra natura o ancora produrre energia si trovava limitato da barriere normative invalicabili, che impedivano di fatto una migliore allocazione delle risorse aziendali nonché l’espressione delle sue capacità imprenditoriali. Il riconoscimento della multifunzionalità delle aziende agricole, agevolata da una normativa che ne ha esteso i campi di azione, ha inciso radicalmente sull’economia agricola, ha consentito la sopravvivenza ed anche il successo di aziende altrimenti destinate a sparire, ha creato occupazione, ha favorito la conservazione e la ristrutturazione di immobili spesso antichi e identitari arrestandone il degrado, ha migliorato il paesaggio. E’ bastato un ventennio ai “nuovi agricoltori” per voltare pagina, per aprirsi al mondo (e al mercato) assai più che in passato, per potersi dare un futuro e continuare a costituire un presidio territoriale insostituibile. Probabilmente anche nei paesi dell’Italia dimenticata vi sono ancora energie da liberare, mestieri nuovi da inventare e competenze antiche non del tutto esaurite: un sistema regolatorio più leggero e flessibile, l’abolizione di qualche vincolo, l’esenzione da regole insensate generate in aree e situazioni del tutto diverse potrebbero forse - assai più efficacemente delle elucubrazioni degli accademici - costituire il terreno di coltura atto a favorire una spontanea rigenerazione economica. Potremmo allora tornare davvero a “riabitare l’Italia” e a considerare le aree interne del nostro paese una risorsa anziché un problema.


Michele Lodigiani
Agronomo, è agricoltore a Piacenza da più di quarant’anni. Per curiosità intellettuale e vocazione imprenditoriale è stato spesso pioniere nell’adozione di innovazioni di prodotto e di processo, con alterne fortune. Ha un rapporto di fiducia con la Scienza, si commuove di fronte alle straordinarie affermazioni dell’intelligenza umana (quando è ben impiegata), osserva con infinito stupore la meravigliosa armonia che guida i fenomeni naturali. 

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