di ALBERTO GUIDORZI
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Figura 1 |
Se si vuole impostare bene il problema per capire il concetto occorre avere chiaro come funzionano i flussi di energia negli ecosistemi, che siano naturali o artefatti. La fonte è il Sole che ci dà energia luminosa ed è la fotosintesi dei vegetali che ce la trasforma in energia chimica, questa è l’origine della “produzione primaria”. Tutti gli altri organismi viventi non fotosintetizzanti sono obbligatoriamente dei consumatori primari (erbivori) o consumatori secondari (carnivori) che dall’energia solare non possono altro che ricavarne unicamente calore.
Si dice, infatti, che la produzione primaria netta (NPP si usa anche il sinonimo biomassa) rappresenta la quantità di energia immagazzinata annualmente nel materiale vegetale che è disponibile come fonte di cibo e fibre per il pianeta, compresi i suoi abitanti umani. Il tasso di produzione è legato al clima al territorio e fattori locali: es. una foresta pluviale può avere un indice di nove mentre un prato-pascolo un tasso di 3 ed un ecosistema desertico appena 0,5. È in funzione di questi tassi o indici che si può stabilire quanta vita di consumatori è supportata dai vari ambienti. Anche nei sistemi di coltivazione annuali, cioè in agricoltura, esistono questi indici di NPP e anch’essi sono variabili, ma l’uomo nel tempo ha messo in atto tutte le pratiche per far sì che essi siano superiori a quelli della vegetazione nativa. Si potrebbe obiettare, ma come?
Se io in agricoltura ho un indice superiore di NPP dovrei avere una quantità di vita superiore di consumatori, perché invece è il contrario? La risposta è semplicemente perché in agricoltura la maggior parte di quella biomassa, quell'energia immagazzinata viene raccolta (cosa che non capita negli ecosistemi naturali) ed esportata fuori dall'azienda agricola per sostenere la vita altrove. Il raccolto cambia tutto. Lo stesso identico discorso lo si può fare prendendo a parametro la sostanza organica del suolo; maggiore nei luoghi di vegetazione nativa minore nei luoghi di vegetazione coltivata. Insomma i due ecosistemi funzionano in modo diverso dal punto di vista del consumo.
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La figura sopra ci dice anche che noi esportando biomassa esportiamo anche nutrienti che erano presenti in quei suoli. Ed infatti non si può sfuggire dall'andamento del grafico sotto: |
Pertanto quando si parla di agricoltura biologica, agricoltura rigenerativa e agroecologia, cioè di sistemi agricoli che più si avvicinano al naturale, purtroppo si dimentica quanto detto sopra e non si tiene conto delle conseguenze. Il ritorno al naturale si è estrinsecato ad esempio con il tentativo di sviluppare dei cereali perenni, con l'uso più intenso della biodiversità per controllare i parassiti e con obiettivi di “rigenerazione”, ovvero il ripristino del suolo, solo che tutti questi tentativi hanno dato risultati contrastanti. Insomma il “ritorno alla natura” auspicato da molti vede solo certi risultati, ma colpevolmente ne ignora altri. Ammesso e non concesso che creassimo il frumento perenne produttivo, cosa capiterebbe? Sicuramente si coltiverebbero enormi superfici a monocoltura, ma così facendo il concetto iniziale verrebbe smentito perché comunque in una monocoltura che sia perenne o annuale la biodiversità calerebbe. L’agricoltura non è mai stata contraria al controllo naturale dei parassiti, infatti ha abolito le consociazioni per le complicazioni che ne conseguivano ed ha introdotto le rotazioni. Solo che ne ha verificato l’insufficienza man mano che crescevano i consumatori (numero di abitanti sulla terra) e quindi vi hanno associato gli antiparassitari, tra l’altro “obtorto collo” perché se avessero potuto farne senza lo avrebbero fatto da tempo, l’allelopatia non è una produzione di molecole chimiche diserbanti, solo che essa così come trovasi non dà risultati accettabili.
La conferma? Anche in biologico si usano antiparassitari e in quantità non indifferenti, ma i risultati non sono risolutivi. Prove pluriannuali in moltissimi ambienti hanno mostrato che la sostanza organica (S.O.) nei suoli delle coltivazioni annuali varia tra il 38 ed il 67% rispetto ai livelli precedenti l’agricoltura, mentre le pratiche di agricoltura rigenerativa possono al massimo riportare i tassi di sostanza organica ai livelli superiori della forchetta; se si vuole ripristinare il 100% occorre accettare cali di produzione non indifferenti. Ecco che nelle agricolture professionali si combina apporto di S.O. e nutrienti di sintesi per eliminare i cali e provocare aumenti di produzione. Non solo, ma Pawlson et altri nel 2022 sono arrivati a dire che “nella stragrande maggioranza delle situazioni nel mondo, è del tutto inappropriato fare di questo un obiettivo (cioè il ripristino al 100% di S.O.) per i terreni arabili [colture annuali] come parte di una strategia di mitigazione del cambiamento climatico basata sul sequestro del carbonio nel suolo, o qualsiasi altro obiettivo politico.» Quando confrontiamo la natura con l'agricoltura, stiamo confrontando sistemi diversi con risultati diversi e quindi dovremmo aspettarci che funzionino in modo diverso. Per produrre cibo la produzione vegetale deve funzionare in modo diverso dagli ecosistemi naturali, che non producono cibo. Non bisogna mai dimenticare questi comandamenti: - 1°Le colture annuali non sono perenni perché dedicano molta energia ai loro semi; - 2° le piante coltivate hanno accumulato meccanismi anti-erbivori (leggasi parassiti) e sfruttano meglio l’abbondanza di nutrienti. Le specie naturali invece conservano tutto ciò, ma forniscono molto meno cibo ai consumatori primari; 3°- Più la coltivazione si avvicina al naturale più diminuiscono i flussi di carbonio e di energia a causa del minor prodotto. Coloro che propagandano l'idea che possiamo far funzionare la produzione agricola come la natura accarezzano il desiderio utopico che è insito nelle “ narrazioni epiche ” dei campioni dell’imitazione della natura come Masanobu Fukuoka, Wes Jackson, Robert Rodale e Wendell Berry. 10 o 11 miliardi di persone non campano se non accettiamo la seconda valigia "figura 1".
ALBERTO GUIDORZI
Agronomo. Diplomato all'Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureato in Scienze Agrarie presso l'UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni per la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana
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