di ALBERTO GUIDORZI
Lo zucchero come commodity si ricava da due piante: da millenni dalla canna da zucchero, la cui coltivazione negli ultimi 2000 anni ha fatto il periplo del pianeta, toccando tutti i climi tropico-equatoriali e solo da 250 anni la barbabietola da zucchero come pianta saccarifera dei climi temperati. La bietola da zucchero, infatti, è nata in conseguenza del contrasto sorto tra Inghilterra e Francia napoleonica di inizio 1800 che provocò il non attracco delle navi trasportanti dalle colonie di zucchero grezzo di canna alle raffinerie situate nei porti europei della costa atlantica. Tuttavia, sia per motivi sociali (schiavitù e poi manodopera a basso costo), che per caratteristiche botanico-agronomiche diverse e anche per processi estrattivi differenti, lo zucchero di canna è sempre stato più concorrenziale dello zucchero di bietola; è questo che spiega la maggiore protezione politica da sempre goduta dallo zucchero di bietola.
Tuttavia le due piante sono accomunate da caratteristiche particolari: infatti il prodotto finito zucchero ha delle proprietà opposte a quelle della materia prima agricola. Quest’ultima dura nel campo per sei mesi (bietola), ma anche 20 anni (canna), anche se attualmente il piantamento dei mozziconi dei fusti di canna avviene ogni 5 o 6 anni. La bietola, appunto per cercare di superare il gap con la canna è dovuta diventare quasi una coltura orticola e subire una vera e propria rivoluzione genetica, mentre la canna ha solo la raccolta che è rimasta comunque onerosa, ma la tecnica di coltivazione è rimasta pressoché immutata nel tempo. Inoltre, alla raccolta la produzione sia della canna che della bietola non può essere stoccata, anzi deve essere trasportata onerosamente, appunto per gli alti contenuti in acqua della materia prima, e lavorata in tempi molto ristretti, pena sua degradazione.
Gli zuccherifici devono quindi avere potenzialità di lavorazione molto superiori ai bisogni perché la lavorazione deve concentrarsi in poco tempo, dai 4 (bietola) ai sei mesi (canna) all’anno. In altri termini coltivazione e lavorazione sono operazioni molto energivore; per giunta la canna può utilizzare come combustibile i resti del fusto spremuto dai succhi zuccherini. La filiera dunque ha bisogno di una visione di lungo termine al fine di assicurare costanza di semina e di piantamenti e di conseguenza adeguata materia prima da trasformare negli zuccherifici. Per contro lo zucchero è una commodity per eccellenza in quanto l’80% della produzione non fa mercato, trattasi cioè di autoconsumo o di contratti pluriennali che poco seguono i prezzi di mercato. Dunque che crea mercato è solo un 20% dello zucchero ( circa 40 milioni di t) ed è in gran parte di origine tropicale, tanto è vero che il 65% dello zucchero che arriva sul mercato arriva dal centro-sud brasiliano. Su questa situazione di predominio brasiliano s’innesta poi il modo di fissare i prezzi internazionali: essi sono fissati in $ USA, ma i pagamenti avvengono in Real brasiliani e quindi la parità tra $ e Real ha un’influenza enorme a livello speculativo. Recentemente si è assistito a variazioni di prezzo da 1 a 4. E’ evidente che il prezzo della materia prima, bietola o canna che sia, è intimamente legato al prezzo di mercato dello zucchero formatosi nelle borse delle commodity, prezzo che subisce variazioni speculative durante tutto il tempo dell’anno. Solo che i due momenti (piantagioni) e formazioni del prezzo dello zucchero sono sfalsate nel tempo. Cioè all’atto della semina non si conosce il prezzo a cui verrà venduto lo zucchero ricavato, ma senza assicurazione preventiva di un prezzo adeguato nessun agricoltore seminerebbe, ma nello stesso tempo uno zuccherificio non può rischiare di pagare la materia prima troppo cara se rapportata al prezzo a cui venderà dopo circa sei mesi lo zucchero. Su questa sfasatura, come si diceva prima s’innesta il carattere speculativo della commodity zucchero, appunto per la limitata quantità che influenza il mercato.
Da queste considerazioni dunque discende l’esigenza di un inquadramento politico in atto da sempre delle due professioni, volto, appunto, a limitare i rischi di soprassalti dei prezzi nazionali dello zucchero (in caso di andamenti molto rialzisti) e contemporaneamente dare costanza ed i dovuti adeguamenti ai prezzi della materia prima pagata ai coltivatori per non rendere troppo ballerina l’offerta, cosa che metterebbe in crisi l’industria. Nell’UE sembra però che il tutto sia stato dimenticato ma sappiamo cosa capita quando ciò accade: ne abbiamo una riprova con Cuba, dove con l’abbandono di una politica saccarifera, appunto per il venir meno di un compratore esclusivo (l’URSS), abbiamo assistito che da una produzione da 8 milioni di t (esportate per il 30% in URSS) ci si è ridotti a produrne 1 Mt nel 2023. Nello stesso tempo assistiamo che con la disgregazione dell’URSS sono diventati paesi bieticoli con elevate potenzialità concorrenziali l’attuale Russia, l’Ucraina, la Bielorussia il Kazakistan. Inoltre i consumi di zucchero sono in continuo aumento, vuoi per motivi demografici, ma anche perché la domanda creata dalla demografia si sposta proprio laddove la popolazione del pianeta è più numerosa. 20 anni fa si consumavano 148 milioni di t di zucchero grezzo, mentre oggi se ne consumano 190 milioni. Inoltre il 63% dello zucchero è consumato dai primi 10 consumatori mondiali, solo che se escludiamo l’Egitto (compreso tra i primi 10) non vi è annoverato nessun altro paese africano.
Da ormai una quarantina d’anni le piante saccarifere hanno assunto sempre più la valenza di piante etanolifere e questo non tanto per l’alcol da bocca che è rimasto praticamente immutato come volumi di produzione, quanto come alcol biocarburante. La produzione totale mondiale di alcol ha raggiunto i 1350 milioni di ettolitri, mentre le esportazioni sono dell’ordine dei 160 milioni di ettolitri. Gli USA concorrono alla produzione per il 47%, e all’esportazione per il 53% (ma questo alcol proviene più dal mais), mentre il Brasile ne produce il 27% e concorre all’esportazione per il 25%. Nel paese sudamericano è la canna che la fa da padrone nella produzione di alcol. Ebbene il Brasile è un esempio che calza circa l’influenza che può avere l’alcol sulle speculazioni che avvengono sullo zucchero, infatti in Brasile una stessa superficie a canna può essere destinata a produrre alcol se i prezzi del petrolio s’impennano e se i prezzi dello zucchero sono poco allettanti, mentre può avvenire il contrario se le cose si invertono. Per inciso l’Europa concorre con un 6% alla produzione mondiale ed è importatrice netta. L’UE sullo zucchero sembra aver imboccato una posizione pericolosa, vediamo si delinearne l’evoluzione.
L’evoluzione del settore dall’inizio del XXI secolo nell’UE
- Sintetica cronistroria della produzione di zucchero europea e italiana
Partiamo innanzitutto dall’Italia, per comprendere il nostro passato, la situazione attuale e, parallelamente, cosa è successo in ambito EU. Per quanto ci riguarda ho avuto modo di raccontare la storia dell’industria bieticolo-saccarifera italiana su varie riviste e narro infatti che l’eccessiva protezione sia stata una delle cause, assieme alla nostra obiettiva scarsa vocazione produttiva, della sua dissoluzione avvenuta nel 2005. D’altronde ben altri molto più autorevoli e prima di me hanno intuito ciò che la filiera rischiava, uno di questi è stato Einaudi che nel dopoguerra in occasione della pretesa di applicare dazi allo zucchero di importazione ebbe a dire: “un’industria nata nell’800 non può pretendere la stessa protezione di quelle nuove, pertanto il diritto di confine sostiene solo un’industria invecchiata, ma che invecchiando si è rimbambita!”. Ernesto Rossi non fu da meno nel suo libro, edito nel 1952, dal titolo “Zucchero amaro, settimo non rubare”. La cosa può dirsi anche dell’industria saccarifera dello zucchero europea, nata per imposizione di Napoleone I e rimasta in piedi perché sempre protetta dalla concorrenza dello zucchero di canna.
Tuttavia vi è stata una differenza tra la bieticoltura mediterranea e quella delle medie latitudini europee in conseguenza della obiettiva importante protezione politica praticata fin dalla nascita della filiera. Ciò è avvenuto sia prima della nascita dell’Europa unita tramite imposizioni di dazi nazionali a livello delle varie nazioni europee, che successivamente nella CEE di allora con l’istituzione del MEC fondato su un Regolamento zucchero (uno dei primi messi in atto). Prima di tutto si protessero le filiere dei singoli paesi membri con l’assegnazione di quote nazionali di produzione di zucchero, poi con una fissazione preventiva di prezzi indicizzati della bietola e dello zucchero ed infine con meccanismi agrimonetari particolari in funzione della variazione della parità delle monete nazionali (questo finché non è stato istituito l’euro). In più si concesse ai paesi meno vocati alla produzione bieticola e anche nella trasformazione saccarifera di erogare aiuti nazionali a sostegno. Certo ciò protesse tutto il settore, ma molto più quelle nazioni che avendo una moneta debole erano obbligati a svalutazioni, in particolare ne godette l’Italia che dovendo svalutare la moneta si vedeva obbligata in contemporanea a rivalutare i prezzi agricoli nazionali. Ciò è comprensibile se si tiene conto che si operava in un mercato unico europeo e quindi una svalutazione non poteva trasformarsi in una maggiore concorrenzialità agricola verso un altro paese membro. Certo così facendo si obbligavano i consumatori, ad esempio italiani, a pagare più caro lo zucchero. Questo stato di cose produsse due effetti divergenti: - nei paesi mediterranei la protezione fu tale che comunque assicurava il reddito (in certi momenti un ottimo reddito, anzi “eccessivo”) agli agricoltori e pure agli zuccherifici, solo che tutto ciò non cancellò l’alea di un clima, quello mediterraneo, troppo incostante e che incidendo sulla produzione di materia prima e soprattutto sulla qualità della materia prima stessa, provocava comunque anni con penurie di materia prima e anni con esuberi associati a qualità infima. In un contesto del genere la parte industriale italiana in particolare, ma mediterranea in generale, vide i propri bilanci farsi insufficienti e spesso negativi. Insomma l’unica ricchezza di una società saccarifera fu il fatto di detenere una quota di produzione di zucchero che nessuno le poteva togliere, solo che bisognava farla e soprattutto farla in modo redditizio. Gli agricoltori avevano un grado di libertà superiore in quanto potevano produrre bietole se conveniva o altro se non conveniva. Insomma il reddito bieticolo derivava più dal prezzo che non dalla produzione, ma anche alla bieticoltura una tale situazione provocò danni in quanto non vi fu stimolo al miglioramento della produttività agricola ed al miglioramento qualitativo.
Nei paesi più vocati invece la situazione era invertita rispetto a quella mediterranea, e il miraggio di poter esportare zucchero, incentivò gli agricoltori a impegnarsi a fare reddito anche e soprattutto con gli aumenti di produzione. Per contro gli zuccherifici vista la sicurezza negli approvvigionamenti e nella migliore qualità industriale furono incentivati ad adeguare in potenzialità ed efficienza i sistemi di lavorazione per non arretrare ulteriormente la competitività con lo zucchero di canna. Tornando all’Italia, è con questa inerzia che man mano le società saccarifere accumularono bilanci negativi su bilanci negativi e che quindi ci presentammo in condizioni da dover portare i libri in tribunale quando in sede di Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) i paesi produttori di zucchero di canna l’ebbero vinta circa la proibizione di esportare dello zucchero prodotto in Europa (non certo quello italiano perché eravamo deficitari per i nostri consumi) troppo sostenuto da sussidi. Fu così che l’UE accettò di ridurre del 30% la sua produzione di zucchero in ambito degli accordi GATT e ciò perché allettata dalla promessa di una futura liberalizzazione del commercio mondiale in altri settori. Logica voleva che, visto che ogni paese membro dell’UE era assegnatario di quote di produzione di zucchero differentemente prezziate, appunto per far fronte ai consumi interni, si decurtasse di un 30% tutte le varie quote assegnate ai paesi membri.
Purtroppo i paesi europei aventi bieticolture e industrie più performanti e nel frattempo molto più progredite rispetto a noi, ebbero buon gioco a convincere la Commissione a formulare un piano di indennizzi molto sostanziosi, destinati ad agricoltori e zuccherifici, da offrire a quei paesi che volontariamente avessero rinunciato a produrre la loro quota nazionale di zucchero. Risulta evidente, per quanto detto prima, che in situazioni societarie di prefallimento, l’offerta era troppo allettante per non accettarla. Fu così che gli zuccherifici mediterranei e italiani in particolare, chiusero e gli agricoltori, indennizzati lautamente anche loro, non seminarono più bietola da zucchero. Si salvò solo l’unica società saccarifera cooperativa esistente in Italia e divenuta proprietaria di due zuccherifici. Solo che tra i 19 paesi che ancora coltivano bietole nell’UE l’Italia è ancora terzultima come resa ettariale ed anche i bilanci della società risentono dell’handicap climatico, che con l’evoluzione verso climi più caldi aggrava ulteriormente la situazione produttiva. Le cifre parlano chiaro, infatti, dal 2021 al 2024 a parità di fatturato la redditività operazionale (ebitda/CA) della società CoproB si è dimezzata (5%) e il risultato netto, pur positivo, è sceso da 3.1 M/€ a 1,4. La sua produzione di zucchero in 10 anni è passata da 750 mila t a 200 e in certi anni anche meno. Si è invocata la strada di mostrare ai consumatori lo sforzo di sostenibilità ambientale della coltura promuovendo lo zucchero biologico, senza però tenere in conto che di zucchero biologico, tra l’altro molto meno costoso, nel mondo ne esistevano quantità enormi e quindi l’eventuale mercato che si fosse creato sarebbe stato presto saturato da zucchero biologico d’importazione. Per una commodity come lo zucchero puro al 99,7% poco importa al mercato ed ad al consumo dove è stato prodotto. Se ne vuole la riprova? In ambito degli accordi Mercosur si è concesso al Paraguay di esportare in UE e senza dazi ben 10 mila t di zucchero biologico tra l’altro molto ma molto concorrenziale. Credo che al minimo ulteriore scossone (concomitanza di prezzi dello zucchero ai minimi e di produzioni insufficienti) difficilmente sopravvivrà la realtà saccarifera italiana. In questi quasi 20 anni di fine del regolamento zucchero e di evoluzioni socio-politiche enormi, possiamo dire che anche le filiere dei paesi dell’UE più performanti ne hanno risentito negativamente. In primis il riscaldamento climatico e le politiche ambientali hanno cominciato ad incidere anche sulle condizioni di coltivazione di questi ambienti che sopra abbiamo definito favoriti. Infatti la produzione bieticola francese, la più performante di sempre, non cresce più da più di un quinquennio e in ambito saccarifero le ristrutturazioni societarie sono alla porta (spostamento verso paesi non UE, come l’Ucraina) o in zone di coltivazione della canna. Qualcuno addirittura comincia ad abbandonare, è il caso di uno zuccherificio francese di proprietà di una famiglia saccarifera di antichissima data.
- Evoluzione dopo il 2003
Ciò che però lascia molto perplessi è che dopo la conferenza fondatrice del 2001 e dalla quale è scaturito l’accordo internazionale sullo zucchero di cui sopra, l’Organizzazione Mondiale del Commercio ha smesso di funzionare subito dopo aver attaccato il regolamento zucchero europeo nel 2003; per giunta non si realizzò nessuna liberalizzazione generale degli scambi e man mano si privilegiarono gli accordi bilaterali o tra gruppi di stati. Insomma cominciò a funzionare il “liberi tutti”. In altre parole se l’UE avesse tirato per le lunghe forse avrebbe potuto mettere in discussione il funzionamento dell’OMC e salvaguardare l’organizzazione comunitaria dello zucchero che si era data dopo la firma del trattato di Roma. Il mercato dello zucchero fu il primo mercato unico a funzionate in Europa. Una spiegazione di questo comportamento la si può trovare se si pensa che l’organizzazione dello zucchero era costosa e quindi la burocrazia di Bruxelles pensò bene di prendere la palla al balzo per dargli un bel colpo, infatti fu subito preventivata l’abolizione delle quote di produzione nazionali di zucchero, che appunto erano una salvaguardia per i settori bieticolo- saccariferi europei meno performanti. A supporto, basti pensare che l’Inghilterra era una dei maggiori sbocchi per lo zucchero europeo, ebbene dopo gli accordi “brexit” essa ha dimezzato le importazioni.
L’OMC dunque smise di fare da arbitro, anzi dal 2019 non funziona più l’organismo d’appello demandato a dirimere i contrasti. Il non funzionamento dipende dal fatto che gli USA si rifiutano di nominare un giudice nell’organismo d’appello, determinando con ciò che se vi era una violazione palese di qualche accordo, il violatore ha potuto continuare imperterrito il suo comportamento perché nessuna sanzione poteva essere comminata dall’organismo d’appello in quanto impedito di funzionare. Insomma fino al 2016 ognuno si comportò come voleva, solo nel 2016 fu chiesta una consultazione, depositando una denuncia per il comportamento anomalo della Tailandia, ma questa autonomamente modificò la sua politica saccarifera e quindi la denuncia decadde. Non così avvenne per la denuncia del 2018 fatta dal Brasile contro la Cina per la sua politica d’importazione, ma il dossier è rimasto lettera morta e la Cina ha continuato a fare ciò che faceva prima. Nel 2019 il Brasile e l’Australia e altri hanno denunciato il comportamento dell’India a proposito del sostegno interno data allo zucchero di canna (proprio quello che facevamo nell’UE fino al 2005 per la bietola). Ebbene si convenne che il comportamento indiano era contro le regole dell’OMC, al che l’India ricorse artatamente alla corte di appello, sapendo appunto che l’organismo era non funzionante, infatti, senza decisione definitiva essa poté continuare nella sua pratica scorretta. Il nuovo presidente dell’OMC insediatosi nel 2021, è conscio che senza riforma l’OMC sparirebbe, ma ogni suo tentativo è per ora andato a vuoto.
Come la mettiamo con l’Ucraina e con gli altri stati con i quali l’UE ha stretto accordi commerciali?
Diciamo subito che la guerra russo-ucraina ha scombussolato i parametri precedenti: ha fatto schizzare i prezzi del gas a 300€/MWh quando prima era a 20 €/MWh e ciò ha causato che i costi di trasformazione sono aumentati di 4 €/t e la filiera della polpa di bietola disidratata (prima componente non insignificante dei ricavi di uno zuccherificio) ha dimezzato l’attività. I costi dei fertilizzanti sono esplosi (+64% nel 2022 e +78% nel 2023) e ciò ha fatto passare il costo di produzione da 25 €/t a 35 €, costi sopportabili solo se non si scende sotto produzioni unitarie di 83 t/ha di radici a 16% di zucchero grezzo. Se non c’è stata una fiammata dei prezzi dello zucchero lo dobbiamo al fatto che in Europa è arrivato in massa lo zucchero dall’Ucraina senza pagare dazi doganali.
Infatti nel 2023 il prezzo dello zucchero in Europa era di 1000 €/t, mentre nel 2024 si è dimezzato. Le potenzialità agricole ucraine e in prospettiva russe sono da tenere in conto in quanto da un punto di vista bieticolo hanno possibilità produttive enormi. Tra l’altro il riscaldamento climatico li favorirebbe. Restiamo comunque all’Ucraina che aspira divenire tra l’altro un paese membro dell’UE e quest’ultima sembra non essere contraria: già ora comunque è un partner importante in quanto a causa dell’aggressione russa e per aiutarla le si è concesso di esportare nell’UE senza diritti di dogana, con le conseguenze che abbiamo visto sopra, ma occorre che si rifletta sulle strutture agricole ucraine la cui superficie agricola utilizzabile (SAU) è pari ad un ¼ del totale di quella dell’UE a 27. L’agricoltura ucraina rappresenta il 9% del suo PIL, il 14% del suo impiego di lavoro ed il 45% delle sue entrate in divise estere. Con l’eventuale l’entrata dell’Ucraina nell’UE il mercato agricolo attuale sarebbe letteralmente rivoluzionato sia in fatto di produzione di zucchero, di cereali a paglia e delle piante oleoproteaginose.
ALBERTO GUIDORZI
Agronomo. Diplomato all'Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureato in Scienze Agrarie presso l'UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni per la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana
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