domenica 2 febbraio 2025

SIGNORI, QUESTA È LA PROSPETTIVA!

di ALBERTO QUIDORZI





Ho frequentato l’agricoltura francese operativamente per 40 anni e poi ne ho seguito l’evoluzione negli ultimi 20 anni. Parallelamente, per il mestiere che mi dava da vivere, frequentavo pure tutta l’agricoltura italiana. Durante i 40 anni operativi ne ho ricavato la convinzione, anzi la certezza che l’agricoltura professionale era praticata molto più in Francia che non in Italia. Certo le condizioni tra Italia e Francia erano e sono diverse, ma anche confrontando una pianura padana con l’agricoltura francese a nord della Loira, cioè le due zone agricole più progredite dei rispettivi paesi, notavo differenze notevoli. Certo le strutture fondiarie, le caratteristiche pedologiche, le condizioni climatiche favorivano di più gli agricoltori francesi, che non quelli italiani, tuttavia ho sempre notato un’aspirazione ed una volontà a migliorarsi (con il continuo aggiornamento) molto maggiore tra gli agricoltori francesi rispetto a quelli italiani. 
E un’idea me la sono fatta del perché. I fattori da prendere in considerazione sono diversi, ma concatenati e qui per spiegarmi devo partire dai tempi in cui esistevano le monete nazionali: allora i prezzi agricoli erano fissati in moneta virtuale (Ecu o moneta verde) e poi trasformati in moneta nazionale in funzione del tasso di cambio tra le varie divise. Solo che il meccanismo del Mercato agricolo europeo, in quanto appunto reso “comune”, non impediva che una moneta nazionale svalutasse, ma di pari passo imponeva che in contemporanea la “moneta verde” di quel paese si rivalutasse in ugual misura nei confronti dell’Ecu. La ragione di questo meccanismo è evidente: non si voleva che i prodotti agricoli della nazione svalutante diventassero più competitivi in ambito comunitario. In sintesi, se la lira italiana veniva svalutata del 15%, immediatamente la “lira verde”, che serviva per formare i prezzi agricoli interni alla nazione svalutante, si rivalutava di un 15%, in modo che i prodotti agricoli dell’Italia aumentassero di prezzo in egual misura e non potessero fare concorrenza agli uguali prodotti degli altri stati membri, appunto quelli della CEE del tempo. Tuttavia, analizzando cosa capitava in Italia, tutto ciò che abbiamo descritto per gli agricoltori nostrani si trasformava in maggior reddito perché si vendeva a prezzi più alti, ma ciò si rifletteva sui consumatori che spendevano di più per fare la spesa. Ora per un’economia agricola come quella italiana, che era deficitaria in prodotti agroalimentari e per nulla esportatrice di commodity, ciò costituiva un guadagno insperato per gli agricoltori che però si traduceva in un non incentivo ad ingegnarsi per diminuire i costi e aumentare le unità prodotte. Per contro il paese che non svalutava la propria moneta, ad esempio la Francia, che per giunta era un paese esportatore, per fare reddito e sostenere le esportazioni dovevano diminuire i costi e aumentare in continuazione le produzioni unitarie. Ecco ciò spiega perché le professionalità agricole tra Francia e Italia si posizionavano su livelli diversi. 
Un esempio chiarisce meglio il tutto: nel 1975 la Francia produceva 75 q/ha di zucchero, mentre l’Italia ne produceva 50 (il divario era dato molto dalla non vocazione climatica a produrre zucchero dell’Italia). Ebbene i bieticoltori francesi di fronte alla concorrenza dello zucchero di canna cercarono di diminuire i costi e aumentare la produttività e nello spazio di 25 anni arrivarono a produrre 130 q/ha di zucchero, mentre l’Italia da 50 q/ha e passata solo a 60, eppure se i francesi, a parità di clima, hanno guadagnato 55 q/ha in 25 anni significa che il tutto è da ascrivere al progresso tecnico-agronomico messo in atto. Perché noi in proporzione non abbiamo fatto lo stesso progresso tecnico agronomico? La spiegazione è semplice, le svalutazioni di cui sopra hanno fatto aumentare i prezzi al punto da mantenere comunque allettante il reddito della coltura, insomma, il reddito si faceva più mediante i prezzi maggiorati che con le unità prodotte e di conseguenza non ci si aggrappava al progresso attuato dalla scienza agronomica per acquisire concorrenza. Certo vi sono stati bieticoltori professionali che il progresso produttivo l’hanno realizzato, ma il numero è rimasto troppo esiguo. 
Lo stesso meccanismo ci spiega la maggiore professionalità espressa anche in altre coltivazioni comuni. Con l’avvento della moneta unica la “cuccagna” per noi è finita ed infatti non coltiviamo più bietola, le superfici a grano tenero e duro sono in continua diminuzione e pure il mais ha perso metà della superficie. Concomitante all’avvento della moneta unica in ambito europeo del 2003, vi sono stati poi ulteriori cambiamenti che purtroppo tutta l’Europa ha snobbato come gli OGM e le biotecnologie in generale o che invece l’Ue ha sposato ideologicamente, cioè ha promosso l’inverdimento della politica agricola comune propugnando la diminuzione delle intensificazioni colturali (colpevolizzazione dei concimi e dei prodotti di protezione).
Parallelamente, invece, i mercati divenivano più liberi e si mondializzavano tramite scambi bilaterali ed anche con minor presa in considerazione delle inadempienze (concorrenza sleale) in sede di Organizzazione Mondiale dei Mercati. A tutto ciò bisogna aggiungere che gli effetti del cambiamento climatico si stanno facendo sentire e l’inadeguatezza dei cicli fisiologici delle varietà di piante che coltiviamo e la loro maggiore sensibilità ai parassiti risulta chiaramente evidente.Per mostrare le prove di tutto questo si è scelto di usare ciò che ormai è evidente e quantificato in Francia.

  • 1° il trend di aumento della produttività bieticola francese da un decennio diventa molto più ballerino e aumentano le annate con produzioni totalmente insoddisfacenti. Es. nell’estate 2024 si prospettava una coltivazione bieticola quasi ottimale durante l’estate, ma poi a consuntivo non si produrrà più di 610 q/ha di radici a 16% di contenuto in zucchero, ossia 100 q/ha di zucchero (27% meno degli ultimi cinque anni). Attenzione sopra si era detto che si erano raggiunti i 130 q/ha di zucchero! Negli anni migliori del decennio si sono solo eguagliate le medie dei precedenti 20 anni. Vogliamo vedere come va la patata? La sua produzione in Francia quest’anno si è arrestata a 392 q/ha ossia la peggior produzione da 27 anni. Qualcuno certo può pensare: beh un’annata particolarmente negativa può capitare, ma non facciamone una regola! Ebbene il considerare tutto ciò un’eccezione è smentito dai dati.
  • Un esempio più articolato e completo ce lo offre il frumento tenero. Il diagramma sotto mostra l’andamento delle rese per ettaro di frumento dal 1815 al 2024 ed è stato elaborato dall’Accademia dell’Agricoltura di Francia.




Notiamo subito la catastrofica resa del 2024 (62 q/ha), ma nel contempo vediamo una stagnazione delle produzioni negli ultimi 20 anni e soprattutto che i “denti della sega” della spezzata si fanno molto più lunghi e frequenti verso il basso, mentre quando vanno verso l’alto raggiungono al massimo lo stesso livello del ventennio, mentre prima il trend, pur con andamento alterno, era sempre in aumento. Altra cosa da notare è che nei 100 anni trascorsi tra il 1850 ed il 1945 si sono guadagnati solamente 4 q di produzione media: da 8-10 q/ha di prima del 1850 si è passati ai 12-14 q/ha di prima del 1945. A chi assegnare questo seppure modesto progresso? La maggior parte è attribuibile alla meccanizzazione dei compiti, al miglioramento dei macchinari, all’introduzione di varietà selezionate, di fertilizzanti e di ammendanti minerali. Se diamo un’occhiata a ciò che è capitato in Italia osserviamo che le medie sono ancora più basse, prima del 1850 producevamo ancora come al tempo dei romani (5 q/ha) e solo dopo un secolo siamo arrivati ai 10 q. È bene far notare che nel secolo considerato i sistemi di coltivazione sono paragonabili a quello che si vorrebbero applicare oggi nel 25% dell’agricoltura europea se si passasse al biologico, A quel tempo, poi, si seminavano le “varietà antiche”, varietà che persone fuori dal mondo (compresi certi accademici) vorrebbero reintrodurre. Qualcuno obietterà che oggi in biologico non si producono solo 10 q/ha, bensì 30, ma l’obiezione dimentica che le 3 t di oggi si ottengono con varietà create recentemente e che non hanno nulla di biologico, cioè sono varietà che hanno accumulato tutti i geni (anche quelli mutati con induzione) introdotti nei genomi dopo il 1950.
Passando poi ad osservare l’andamento delle produzioni dal 1950 fino alla fine del secolo notiamo che da 15 q/ha si è giunti a 70 q/ha e questo notevole progresso lo possiamo accreditare alla genetica che beneficia dell'uso coerente di fertilizzanti, prodotti protettivi (erbicidi, fungicidi e regolatori in particolare) e del miglioramento dei metodi di lavorazione del terreno, semina o raccolta. 
Infine sopra abbiamo già evidenziato la rottura dell’andamento delle produzioni iniziata a fine secolo che è continuata con un aggravamento fino ai giorni nostri. A chi imputare le frequenti irregolarità produttive? Esse sembrano legate ad una certa deintensificazione derivante da: un’economia degli input (riduzione del 15-20% degli apporti di azoto, fungicidi, meno lavorazioni del terreno, ecc.) combinata con gli effetti dei cambiamenti climatici (alte temperature durante il riempimento del grano, scarsa illuminazione, precipitazioni eccessive, ecc.).  A proposito di questi ultimi è meglio subito mettere le mani avanti in quanto non si può certo pensare di attendere che il clima ritorni agli standard di un tempo prima di fare qualcosa, ammesso e non concesso che sia possibile far tornare quelle di prima le condizioni climatiche; ciò che occorre, invece, è darsi da fare da subito con la ricerca genetica ed usare senza remore sia il trasferimento di geni che l’editing genetico. I contrari? Mangeranno in funzione ed in proporzione del tasso di produzione dell’agricoltura biologica, visto che tanto ne decantano i benefici.
Infatti le conclusioni dell’Accademia francese per la loro nazione sono queste : " bisogna interrogarsi sull'impatto che l'abbandono delle varietà di grano moderne e dei prodotti di sintesi potrebbe avere sulla produttività, cosa che potrebbe portare il nostro Paese a diventare rapidamente dipendente dalle importazioni, situazione che prevaleva prima del 1950” . E noi italiani che conclusioni ne dovremmo trarre? Certo non abbiamo il rischio di cominciare a dipendere dalle importazioni perché già vi dipendiamo per il 62% del grano tenero (35% per il grano duro), ma abbiamo quello di vedere agricoltori che non hanno più interesse a coltivare molte delle superfici che attualmente coltivano. 


ALBERTO GUIDORZI

Agronomo. Diplomato all'Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureato in Scienze Agrarie presso l'UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni per la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.

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