- b. Il valore pluviometrico di picco nelle 24 ore è stato raggiunto a San Cassiano con 288 mm fra le 22 del 17 e le 21 del 18 e a Brisighella con 236.6 mm fra le 20 del 17 e le 19 del 18.
- c. la massima piovosità sull’intero evento è stata registrata dalle due stazioni di San Cassiano con 360.0 e Brisighella con 323.8 mm. I massimi pluviometrici si sono dunque verificati nella bassa collina (fra 150 e 250 m di quota) e non nell’alta valle del fiume Lamone.
- d. le intensità massime orarie raggiunte nell’evento del 2024 sono risultate sensibilmente superiori a quelle dei due eventi del 2023. La tabella 2 evidenzia un massimo assoluto orario di 16.6 mm per l’evento del 1-2 maggio 2023 di 23,1 mm per quello del 16-17 maggio 2023 e di 45.6 mm per quello del 17-19 settembre 2024.
In figura 2 si riporta la serie ricostruita da Arpa Emilia Romagna dei massimi pluviometrici annui di 2 giorni consecutivi per il bacino del Lamone chiuso a Reda (10 km a Nordest di Faenza) a confronto con le piogge massime registrate nei due eventi alluvionali del 2023 (1-2 maggio e 16-17 maggio) e del 2024 (17-18 settembre). In particolare il dato relativo all'evento del 2024 (232.2 mm) è una stima effettuata dagli scriventi¹ e che trova conferma nella stima di 236.6 mm riportata nel report speditivo ARPA (2024). Emerge che due dei tre eventi considerati e cioè quello del 16-17 maggio 2023 con 199 mm e quello del 17-18 settembre 2024 con 232 mm, sono rispettivamente superiori de 10% e del 33% rispetto al massimo assoluto precedente per piogge di 2 giorni che era di 174 mm ed era stato raggiunto nel 1939.
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Figura 2 - Diagramma dei valori medi per il bacino del Lamone delle piogge massime annue di due giorni. Dati della Commissione istituita dalla Regione Emilia Romagna (2023) aggiornati con il dato dell’evento del 2024.
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2. Aspetti circolatori e conseguenze a livello pluviometrico
La topografia media del livello barico di 850 hPa del 18 ottobre (figura 3) mostra la presenza di una cintura anticiclonica anormalmente collocata fra le Isole Britanniche e la Russia e che guida verso il centro del Mediterraneo masse d’aria fresca da est, le quali alimentano una depressione mediterranea centrata sul medio Tirreno e che influenza in modo più diretta le regioni centro – settentrionali. In particolare la Romagna è esposta a un flusso da Est – Nordest che ha dato luogo a effetti di intensificazione orografica sopravvento allo spartiacque dell’Appennino romagnolo. La depressione mediterranea all’origine dell’evento ha avuto una vita prolungata: generatasi il giorno 12 sul golfo ligure come minimo di cut-off da una saccatura protesa dalla Scandinavia verso il Golfo di Genova si è poi mossa verso Est portando il proprio centro sul Balcani dal giorno 14. In seguito la depressione ha mostrato un moto retrogrado che l'ha riportata verso l’areale tirrenico riattivandola. Fra i fattori che hanno portato alla riattivazione della depressione mediterranea l’ARPAE SIM nella sua analisi speditiva emessa il 23 settembre scorso (ARPAE Sim, 2024) segnala le elevate temperature della superficie dell’Alto Adriatico che fino al 15 settembre erano di almeno 3-4 gradi superiori alla media del periodo.
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Figura 3 - Topografia media del livello barico di 850 hPa per 17 e 8 settembre 2024. Si noti il minimo depressionario cetrato sul Tirreno e che è all’origine dell’evento alluvionale.
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Le aree alluvionate
Le foto in figura 6 e 7 illustrano le aree allagate a seguito dell’evento del 2023 e di quello del 2024. Balza all'occhio che la superficie inondata nel 2024 è molto inferiore rispetto a quella del 2023, nonostante la precipitazione del 17-19 settembre sia stata maggiore e con intensità orarie sensibilmente più elevate rispetto a quella dei due singoli eventi del 2023. Tutto sommato i danni sono stati largamente inferiori a quelli del 2024 e se non ci fosse stato il tappo di tronchi a Boncellino ed il crollo dell'argine a Traversara forse non saremmo qui a parlare dell'evento del 2024.
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Figura 6 - Carta delle zone alluvionate del 20 Maggio 2023.
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Figura 7 - Carta delle zone alluvionate del 19 settembre 2024. |
Ciò porta a due considerazioni:
- 1. nel 2023 il territorio ha evidentemente risentito della vicinanza dei due eventi di maggio e dunque del fatto che ad esempio i suoli erano stati saturati dal primo evento il che ha ridotto sensibilmente la loro capacità d’invaso
- 2. nel 2024 la minor superficie inondata potrebbe essere merito delle opere di difesa e di pulizia degli alvei effettuate nei 16 mesi intercorsi tra le due inondazioni, il che dovrebbe farci riflettere sull’importanza della prevenzione e delle opere di manutenzione del territorio.
3. Ulteriori spunti di riflessione
I dati pluviometrici dei 3 eventi del 2023 e 2024 sono impressionanti se considerati con riferimento al precedente massimo storico che è quello del 1939 (figura 2). Curioso è anche constatare che l’analisi visuale dei diagrammi dei diversi bacini romagnoli presentati nel Rapporto della regione Emilia Romagna (2023) evidenzia trend per lo più negativi nel periodo compreso fra il 1939 e il 2022. In sostanza ci domandiamo se il 2023 non possa aver segnato un cambio di fase brusco per quanto attiene alla la pluviometria del bacino del Lamone e vedremo se quanto osservato si protrarrà nei prossimi anni; in ogni caso questo dovrebbe ancor più spingerci a serie politiche di prevenzione, alias adattamento.
A nostro modestissimo avviso il messaggio che oggi sarebbe corretto dare alla popolazione è che il nostro è un territorio per sua natura costantemente esposto al rischio di piogge alluvionali per i seguenti motivi:
- Vicinanza di un mare caldo (il Mediterraneo) che è fonte di grandi masse di aria caldo-umida
- Presenza di una orografia imponente (Alpi, Appennini)
- Vicinanza di regioni sorgenti di masse d’aria fredda (Atlantico settentrionale, Artide, Siberia) e che con una certa frequenza irrompono sul Mediterraneo generando perturbazioni violente, anche in forma di vortici.
Per comprendere il fatto che sul territorio nazionale il rischio è persistente basta riandare con la memoria agli oltre 900 mm in 24 ore dell'alluvione di Genova dal 1970 o agli eventi estremi dell’ottobre 1951 determinati da una depressione mediterranea attiva sul basso Tirreno: 1366 mm in 4 giorni a Nicolosi, oltre 1536 a Sicca d'Erba in 5 giorni e gli oltre 1500 in 3 giorni in Calabria². Per inciso Il 1951 costituisce un interessantissimo caso di studio in quanto fu un annus horribilis, come dimostra la successiva alluvione del Polesine registrata in novembre. Peraltro ci domandiamo come verrebbero commentati dai media odierni eventi di intensità simile a quelli che si verificarono nel 1951.
Alla luce delle peculiarità che rendono il nostro Paese costantemente esposto al pericolo di piogge estreme la prudenza dovrebbe essere massima, e qui si pensa a quel che non ci dovrebbe essere (tane di nutrie/tassi/istrici sugli argini e/o alvei intasati da vegetazione arborea o legname) o a quello che manca (dighe ben manutenute, vasche di laminazione, sistemazioni idraulico agrarie o idraulico forestali curate, piani di protezione civile che i cittadini conoscano davvero, ecc. ecc.).
Un ulteriore elemento di riflessione ci viene dalla tabella 3, la quale riporta i massimi assoluti registrati dal nostro Servizio Idrografico per il periodo 1925-50 nei diversi Compartimenti in cui era suddiviso. Si noti che per il Compartimento Adriatico – Romagna si riporta un massimo assoluto su due giorni di 359 mm e che è stato registrato a Cà Chiombi (571 m slm) nel bacino del Reno. Un dubbio che viene alla luce di tale valore è se per fini di pianificazione territoriale sia conveniente limitarsi ai massimi pluviometrici riferiti a un singolo bacino, peraltro molto stretto e allungato come il Lamone (figura 1), e non convenga invece estendere la propria valutazione ad ambiti più ampi come i Compartimenti del Servizio Idrografico. In tal senso si evidenzia che una variazione nei fattori circolatori sinottici e a mesoscala avrebbe potuto far spostare di 50-100 km più a ovest i massimi registrati nella bassa collina del bacino del Lamone, coinvolgendo ben altri bacini.
4. Il caso dell’Olona
Un esempio di gestione del rischio idraulico in un contesto assai diverso da quello del Lamone ma che può comunque offrire alcun spunti utili è quello del fiume Olona. Si tratta di un corso d’acqua a regime torrentizio con una portata media variabile lungo il percorso tra 2 e 14 m3/s. Oggetto di interventi di modifica del percorso sin dall’epoca romana, poi costellato di ruote idrauliche con le relative opere di supporto, successivamente ancora ampiamente canalizzato a sostegno dello sviluppo industriale nel XIX e XX secolo. Avvicinandosi a Milano il suo percorso è del tutto artificiale e totalmente tombato. Certamente un bacino idrogeologico complesso, ampiamente antropizzato e quindi molto “impermeabilizzato”. Si ricordano almeno due piene disastrose, nel 1951 (a Castellanza - a metà corso - vennero registrati quasi 50 m3/s) e nel 1995. Altri eventi alluvionali si sono avuti nel 1801, 1910, 1936,1976, 1982, 1984, 1991, 1992, 2001 con danni complessivamente ingenti, anche se presumibilmente meno ampi di quelli ripetutisi in Emilia Romagna.
Nel caso dell’Olona siamo chiaramente in una situazione idrogeologica totalmente diversa ma comunque molto critica. Situazioni che però si possono risolvere, ma richiedono programmazione e investimenti. Al riguardo si può ricordare che non fu sufficiente la costruzione di un canale scolmatore tra il 1950 e il 1980, immediatamente a nord di Milano; la situazione si è finalmente risolta con la costruzione di una diga di controllo del flusso con relativo bacino di contenimento nei pressi di Varese e di due vasche di laminazione (una in fase di completamento). Per il resto si è proceduto a eliminare parte delle canalizzazioni e delle tombature del corso, ampliandone l’alveo e “rinaturalizzandolo”, termine a nostro giudizio improprio perché di fatto di tratta di arginature con grandi massi che dovrebbero essere soggette a parziale colonizzazione vegetale. Adesso l’Olona non fa più “paura”, ma in parallelo il caso del fiume Seveso, che provoca periodiche inondazioni nel Nord Milano, è tuttora aperto.
Le linee guida individuate dalla Commissione istituita dalla Regione Emilia Romagna nel 2023
La Commissione istituita nel 2023 dalla Regione Emilia Romagna, nel proprio rapporto finale emesso nel dicembre 2023, ha espresso una serie di linee guida su come prevenire il verificarsi futuro di eventi estremi di quel tipo, che riportiamo qui in forma sintetica con alcuni commenti in corsivo e rimendando al documento originale per eventuali approfondimenti:
- 1. di realizzare opere di stabilizzazione di singoli versanti e di regimazione delle acque superficiali, con particolare attenzione al reticolo idrografico minore, unitamente ad una corretta manutenzione del territorio e all’adozione di buone pratiche silvo-pastorali e agricole (e qui pensiamo alle sistemazioni idraulico-agrarie e idraulico-forestali e alle tecniche di minima lavorazione dei suoli e di semina su sodo).
- 2. di realizzare opere atte a prevenire il rischio idraulico ed in particolare opere di laminazione delle piene quali casse di espansione e invasi montani. Tali opere hanno il fine di immagazzinare i deflussi idrici di piena, riducendo in tal modo i colmi delle onde che transitano a valle. Fra i vantaggi aggiuntivi di tali opere vi è il fatto che esse possono contribuire ad accumulare riserve idriche utilizzabili nei periodi siccitosi per scopi potabili o irrigui. Al riguardo la commissione osserva tuttavia che la morfologia del territorio ostacola il reperimento di volumi di invaso che consentano di elevare in maniera decisiva il grado di protezione idraulica offerto dalle opere esistenti e di raggiungere quello che è normalmente l’obiettivo della pianificazione di bacino, ovvero il contrasto della piena 200-ennale.
- 3. di realizzare interventi strutturali volti a restituire maggiore spazio ai fiumi grazie alla modifica della sagoma degli alvei e ad arretramenti verso campagna dell’attuale posizione dei rilevati arginali. La commissione constata tuttavia che, nel caso in esame, l’assetto del territorio e la diffusa presenza di insediamenti urbani e di infrastrutture vitali di trasporto in prossimità dei fiumi rende tali interventi attuabili solo in alcune situazioni locali.
- 4. di predisporre appositi piani di gestione della vegetazione ripariale che indirizzino, su solide basi tecnico-scientifiche, la manutenzione degli alvei fluviali. A tale riguardo si ricorda che in relazione all’evento del 17-9 settembre 2024 i media locali hanno posto l’accento sul problema della grande massa di alberi presenti nell’alveo del Lamone e che hanno prodotto un rilevante effetto diga in coincidenza con i ponti. La gestione degli alberi e del legname appare un elemento critico per il quale occorrerebbe trovare una soluzione strutturale.
- 5. di programmare in caso di piene eccezionali strategie di allagamento controllato di aree di minor pregio allo scopo di salvaguardare aree caratterizzate da una maggiore esposizione in termini di beni e valori insediati.
Conclusioni e sviluppi futuri
A conclusione di questo nostro scritto crediamo importante rimarcare nel caso degli interventi non strutturali e strutturali di mitigazione del rischio di alluvioni non si può sfuggire alla logica circolare di programmazione -> progettazione -> realizzazione -> manutenzione -> ri/programmazione -> ri-progettazione. In tale schema riveste particolare importanza la periodica ri/programmazione e ri-progettazione degli interventi per fra fronte a mutamenti nelle condizioni al contorno (mutamenti significativi nelle serie storiche climatiche, aspetti naturali come l’espansione del bosco ed antropici come l’aumento o la contrazione della popolazione o variazioni nelle caratteristiche degli insediamenti e nella loro vulnerabilità). Ciò vale anche in presenza di ampi territori poco antropizzati e/o con ridotta presenza di manufatti ma non per questo “naturali” e per di più afflitti, come nel caso dell’appennino romagnolo, da rilevanti problemi di instabilità geologica e di gestione dei popolamenti forestali, problemi che sono stati ben evidenziati nel Rapporto della Commissione tecnico-scientifica del 2023.
Ultimo e non minore problema che ci preme segnalare al lettore è la frequente opposizione locale alla realizzazione di opere di pubblica utilità, secondo la cosiddetta logica NIMBY (Not In My Back Yard), rispetto alla quale si pone il tema del dialogo con la popolazione da parte di pubbliche amministrazioni che sono comunque responsabili rispetto all’intera collettività. Al riguardo è utile ricordare quanto scrisse Giulio De Marchi subito dopo l’alluvione del Polesine del 1951 e cioè che occorre “considerare… l’intero territorio come una entità unica e solidale, da proteggere con il minimo danno complessivo”. Segnaliamo infine che uno degli autori (Simone Parisi) sta conducendo un’analisi delle serie storiche su grigliato relative al Centro-Nord Italia ed afferenti al dataset ARCIS al fine di individuare eventuali segnali di cambiamento climatico. Tale analisi sarà oggetto di un futuro contributo.
Articolo ben fatto e ricco di spunti di riflessione oltre che di dati scientifici. Grato al blog per la pubblicazione.
RispondiEliminaSi parla tanto di opere di laminazione e casse di espansione, Facile a dirsi difficilissime a farsi perchè ormai nelle zone in cui si dovrebbero fare queste opere vi è un'antropizzazione diffusa. Non solo ma da che mondo è mondo sono state le alluvioni del passato che ci hanno indicato dove costruire ( i paesi rivieraschi del Po sono stati costruiti in modo parallelo al fiume e su dossi di esondazione antichi che erano i punti più elevati della pianura). Es. si è sempre saputo che chi si stabiliva nelle golene chiuse del Po avrebbe pagato meno tasse fondiarie, ma nessun ripagamento di danno poteva pretendere se per regimare un'alluvione si tagliavano gli arginelli interni e si allagavano le golene con relative case coloniche e coltivazioni. Come si può oggi sentire dire che bisognerebbe fare questo o fare quest'altro, senza dire chiaro che chi ha costruito nei punti più bassi della pianura non può lamentarsi più di tanto, era tassativo che l'acqua "tendesse ad accumularsi verso le bassure" e quindi alla concessione edilizia si doveva legare la condizione che in caso di alluvione avrebbero corso il rischio di essere sommersi . I territori dove si vogliono piazzare vasche di laminazione e casse di espansione sono ormai urbanizzate da tempo ed agli abitanti è stato concesso di costruire senza nessuna limitazione. Come si fa ora a dire che verranno assoggettati a eventuale sommersione quando si dovesse tentare di evitare un'alluvione più disastrosa? Ci stiamo raccontando le barzellette alla stessa stregua di quando raccontiamo quali provvedimenti e comportamenti (e relativi termini temporali) dovremo attenerci in futuro per limitare il riscaldamento climatico
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