sabato 10 agosto 2024

LA VACCA DA LATTE NELLA NASCENTE ECONOMIA ITALIANA


di ETTORE CANTÙ


Una moderna stalle da latte, zona riposo.


In preparazione del Seminario “I ruminanti: domesticazione, evoluzione e coevoluzione con le popolazioni umane" che la Società Agraria di Lombardia organizza con il MULSA per l’11 ottobre  2024 prossimo, nella pagina Agricoltura è Cultura del sito istituzionale sono disponibili due articoli. Nel primo il Dott. Cantù delinea alcune note storiche sull’allevamento da latte nella Pianura Padana, che Agrarian Sciences è lieta di presentare ai suoi lettori.  Nel secondo l' agronomo  Francesco Marino traccia i caratteri distintivi della Razza Chianina, un “classico” della zootecnia dell’Italia Centrale, oggi presente anche in alcuni allevamenti in Lombardia.

Nel settembre del 1922 il prof. Vittorio Alpe, Presidente della Società Agraria di Lombardia e grande studioso di agricoltura, scriveva sul mensile “L’Italia Agricola” queste note che riassumono la nascita dell’allevamento della vacca per produrre latte ad uso industriale e i suoi primi sviluppi a cavallo fra il XIX e il XX secolo.

Chi volesse scrivere la storia dell’Agricoltura italiana nell'ultimo quarantennio dovrebbe dedicare un non breve capitolo alla vacca da latte, a quest’animale che ha dato luogo, nel campo zootecnico ed in quello caseario, ad un movimento della massima importanza.
Bisogna rifarsi coi ricordi al tempo della così detta “crisi agraria” imperversante nel nostro Paese, come in altri dell’Europa occidentale, intorno al 1880. Basse produzioni di cereali, e riduzione dei prezzi veramente impressionante. Di qui il ribasso degli affitti e conseguenze gravi sulle rendite e sui patrimoni degli enti pubblici e dei privati, impoverimento dei fittavoli e scomparsa di molti di essi, salari scarsissimi e tenore di vita dei lavoratori veramente deficiente. Di qui il rincrudimento di pellagra ed emigrazione incessante con spopolamento di vaste zone; agitazioni di proprietari della terra e industriali per reclamare dazi protettori e perequazione fondiaria, mentre nel campo degli studiosi si proponeva un’altra via di salvezza: nuove coltivazioni e intensificazione delle esistenti per aumentare la produzione unitaria e diminuire il costo.
Fin da allora il Prof. Gaetano Cantoni, dalla Scuola Superiore d’Agricoltura di Milano, raccomandava maggiori superfici a foraggio ripetendo fino a sazietà la formula: prato, bestiame, letame, grano, la via più economica per raggiungere alte produzioni di cereali e avere nella stalla un’altra fonte di ricchezza.
L’utilizzazione del maggiore prodotto di foraggi nel milanese che andava verificandosi anche per il diffondersi dei concimi chimici, come doveva realizzarsi? Produzione di carne, si diceva. Alcuni meritevoli agricoltori introdussero nuove razze da carne, ma la cosa non ebbe seguito: ben poco è rimasto di quei lodevoli tentativi. La vacca da latte la vinse. Sia nelle zone irrigue come nelle asciutte, il foraggio rispettivamente di prato stabile o di ladino, di erba medica, di trifoglio pratense, mais, esuberante ai bisogni dell’alimentazione del bestiame da lavoro, fu consumato dai nuovi ospiti della stalla: le mucche. Crebbero e acquistarono somma importanza le “bergamine” e l’industria casearia a base di grana, di gorgonzola, di burro e di formaggio magro.
E’ un movimento diffuso più di quello che non si creda. Da un lato gli agricoltori vogliono valorizzare al massimo il prodotto dei prati e dall’altro l’alto prezzo, la forte richiesta di latte e di latticini spiegano la cosa. Latte, latte si reclama quasi ovunque e gli agricoltori debbono soddisfare questo bisogno, faranno un’opera buona ed un ottimo affare oggi e in avvenire.
Il materiale zootecnico non manca e le valli alpine italiane possono fornirlo e si va ora rinnovando un esperimento, in grande stile, colla vacca di Frisia, sotto la guida di quell’infaticabile zootecnico che risponde al nome di Vincenzo De Carolis, benemerito anche dell’allevamento equino cremonese. Tutto ci dice, dunque, che conviene perseverare sulla via intrapresa: la vacca da latte se ben scelta, se alimentata generosamente ora e sempre costituirà la macchina capace di valorizzare al massimo i foraggi, di provvedere ai crescenti bisogni della popolazione nostra e di contribuire a quella ripresa di esportazione che l’economia dell’Italia insistentemente reclama”.

L’opera di selezione delle razze da latte agli inizi del XX secolo

Già nel primo decennio del XX secolo si producevano in Italia 38 milioni di ettolitri di latte, per la maggior parte di origine bovina. E’ sufficiente questo dato per dimostrare l’importanza del settore nell’economia agraria e l’interesse che rivestiva fra gli agricoltori. Le notizie dicono che i tre quinti venivano utilizzati per la produzione dei formaggi ed il rimanente era consumato direttamente.
Visto che il settore era in costante sviluppo, gli allevatori cercavano sempre maggiori produzioni sia migliorando le razze che già avevano in stalla sia con l’affannosa ricerca di bovine da latte di nuove razze per le quali erano disposti a superare le molte difficoltà dovute al passaggio dei confini o al cambio veramente proibitivo con alcuni Stati, come la Svizzera.
Proprio in Svizzera si cercavano le vacche provviste dei migliori requisiti per garantire le maggiori quantità di latte. La razza a manto bruno occupava i Cantoni orientali della Confederazione; l’altra razza svizzera, la pezzata, ha avuto minor diffusione, limitandosi alle valli piemontesi ed al medio Friuli. La Bernese non ebbe successo perché troppo esigente nei riguardi del clima, mentre buone prospettive sembrava avesse quella di Groninga a testa bianca e la Danese proveniente da Breitenburg, zona di origine della Shorthorn e della Durahm, entrambe razze da carne.
E proprio all’inizio del secolo ebbe molti ammiratori la razza pezzata nera originaria della Frisia e dell’Olanda settentrionale: “se appena sia assicurato il mangime verde, il risultato è sicuro” si affermava e l’importazione di giovenche e di tori frisoni ebbe un costante e significativo aumento arrivando presto ad erodere la supremazia della Bruna svizzera. “Gli allevatori lombardi, allarmati dal cambio elevatissimo con la Svizzera, si volgono alla razza olandese come ad una macchina meno costosa, perché di più sicuro reddito, anche per la selezione che in Olanda si fa sulla base del rendimento individuale. Il tentativo merita lode”, commentava, nel 1922, il Dottor Ettore Parenti, attento studioso osservatore dell’economia e della zootecnia.
Nel territorio della Frisia le condizioni di fertilità del terreno e la buona alimentazione avevano consentito lo sviluppo di soggetti di taglia maggiore e più produttivi, acquistati dagli allevatori stranieri che li consideravano animali lattiferi per eccellenza. “Con il bacino molto ampio, la mammella molto sviluppata e regolare che si estende fra gli arti e indietro risale in alto, le vene mammarie grosse e bene anastomizzate, la pelle fine, flessuosa e untuosa al tatto, mostra evidenti i segni caratteristici della buona lattaia. Offre frequentemente soggetti che producono in media 4.500-5.000 litri di latte per lattazione”. La descrizione dei caratteri lattiferi descritta dal Parenti non era la sola a determinare la riuscita dell’acquisto. Infatti erano già operanti le organizzazioni degli allevatori olandesi con buoni risultati nel miglioramento delle razze bovine, che costituirono uno degli elementi più salienti nella storia del miglioramento genetico e morfologico del bestiame, quale in Italia si era ben lontano dal realizzare.
Allora i migliori allevatori erano riuniti nei Sindacati di allevamento e poi nelle Società per il libro genealogico. Ogni allevatore aveva cura di tenere un registro nel quale ogni vacca era individuata con un numero, e di essa era segnata l’origine, la data di nascita, la data dei parti, la quantità di latte prodotto in ciascuna lattazione con l’indicazione del grasso e della sostanza secca, sia in percentuale che complessivamente. Il controllo del latte veniva fatto ogni quindici giorni da personale specializzato e per essere iscritte al registro le vacche dovevano raggiungere produzioni superiori ai minimi prescritti, ad esempio, a due anni: 90 kg di grasso e 330 di sostanza secca, oltre i 4 anni: 135 kg di grasso e 495 kg di sostanza secca per ogni lattazione. Veniva inoltre tenuto un registro per i tori e per i vitelli ed i soci del Sindacato avevano l’obbligo di partecipare con i capi iscritti alla Mostra indetta annualmente in una località della regione. L’adesione degli allevatori olandesi ai Sindacati era generalizzata e, sempre nel 1922, la Società generale dell’Herd-Book olandese aveva 9.942 soci con oltre 60.000 capi bovini iscritti.

Le prime importazioni di bovini olandesi.

Messo da parte il vecchio concetto del bestiame “male necessario”, la vacca da latte ebbe intelligenti e coraggiosi sostenitori del miglioramento delle razze, della selezione, dell’incrocio, della specializzazione attitudinale e ben presto si entrò in una nuova fase di azione.
La fama delle vacche olandesi quali grandi produttrici di latte non poteva non interessare gli allevatori più intraprendenti che già avevano ottenuto buoni risultati dalle Brune le quali ancora dominavano indiscutibilmente la scena. Già nel 1872 l’ing. Francesco Zanelli (1) di Cremona, un vero antesignano, scriveva: “La vacca olandese è la maggiore produttrice di latte che vi sia in Europa. Io credo che con i nostri mezzi alimentari essa dovrebbe dare buona prova nella coltura intensiva della bassa Lombardia. In ogni modo si dovrebbe sperimentare questa vacca per vedere se mantiene anche fra noi la sua fama di vacca eccezionale. Ameremmo tanto che alcuni dei nostri facoltosi agricoltori sperimentassero la vacca olandese, che in paesi poveri di foraggi viene chiamata avida ed insaziabile, ma che le marcite della Vettabia e i prati di Codogno potrebbero saziare al pari dei polders”.
Qualche agricoltore rispose all’appello e nella scuola di zootecnia e caseificio di Reggio Emilia nel 1875 si sperimentarono per la prima volta in Italia le vacche olandesi. Nella relazione redatta qualche anno dopo, il Direttore della Scuola osservava che non si era riverificato alcun inconveniente relativo al clima e all'alimentazione, che “animali di così cospicua produzione dovevano essere assistiti con una opportuna e generosa alimentazione”, che le quattro vacche originarie ebbero in tre anni 12 parti, che “la vacca olandese n. 1 fu venduta all’età di anni 15 e diede ancora un vitello al nuovo acquirente e la n. 2 continua la regolare fecondità con generosa produzione di latte” e, a proposito della riuscita degli allievi “abbiamo constatato che non solo le giovenche mantengono la stessa produzione delle madri, ma, in alcuni casi, la superano”. La relazione concludeva con una valutazione favorevole dopo avere studiato la vacca olandese in rapporto all’adattabilità del nostro clima e della nostra produzione foraggera, alla voracità, alla regolarità delle funzioni di riproduzione, alla longevità ed alla conservazione dell’attitudine lattifera negli allievi.
La relazione favorevole indusse altri allevatori a nuove importazioni. Dal 1883 esse si susseguirono sull'esempio di alcuni promotori come Emilio Fioruzzi di Piacenza, dotato di cultura zootecnica e spirito d’iniziativa, e per opera di altri allevatori e commercianti tra i quali Battista Patrini di Codogno, con l’introduzione di 100/150 capi per ogni spedizione fino al 1914, inizio della prima guerra mondiale.
Nel 1921, dopo la parentesi della guerra, gli allevatori lombardi guidati sempre dal Prof. Soresi, Direttore della Cattedra Ambulante di Milano, acquistarono soggetti maschi e femmine iscritti al Nederlandsch Rundvee-Stamboek, il libro genealogico olandese già funzionante, per continuare l’allevamento in purezza. Si può affermare, dunque, che la prima introduzione della vacca olandese nella valle padana avvenne nei primi anni del ‘900, si diffuse ampiamente nel primo dopoguerra, e si concluse con migliaia di capi importati o riprodotti.

Due Razze a confronto

Gli allevatori potevano quindi disporre negli anni 1920/1930 di due razze, la Svizzera e l’Olandese, entrambe di buone produzioni di latte e di facile adattabilità e quindi spettava all’agricoltore scegliere in relazione alle condizioni dei singoli allevamenti, ma sappiamo che in quel periodo iniziarono anche gli incroci delle svizzere con tori olandesi per passare, tramite le vacche “meticce” dette “preti” nel pavese, all’olandese nel corso di qualche decennio. Mentre ancora si discuteva se importare e allevare in purezza le vacche olandesi, non vi erano dubbi sull’utilità economica dei prodotti di incrocio del toro olandese con le vacche di tipo bruno che offrono valide prove per produzione di latte, adattabilità e robustezza, così che la pratica dell’incrocio si diffuse sempre più.
Ecco quanto affermava il Prof. De Carolis nel 1921: “Le stalle selezionate di bovini bruni svizzeri indirizzate per la produzione di soggetti da riproduzione nessuno le tocchi. Si continui in queste stalle a fare selezione in purezza di razza, anzi in consanguineità. Ma queste stalle sono e saranno sempre poche, pochissime, perché l’industria dei riproduttori selezionati non è da tutti. Le stalle, e sono il 90%, che non hanno nessuna aspirazione sul mercato dei bovini da riproduzione, ma vogliono produrre latte, principalmente latte, mettano alla prova tori frisoni di buona origine lattifera. In questo caso la purezza non desta nessun orrore, se si avrà per risultato, a pari spesa, una maggiore produzione di latte”, mettendo il problema nella sua vera luce. Inizia il periodo d’oro della vacca olandese.


(1) La figura di Francesco Zanelli è ben delineata nel volume “Francesco Zanelli, un patriota per la Libertà, un innovatore per la terra, un Sindaco per Chieve” curato da Lino Tosetti e pubblicato nel 2023 con il patrocinio della Società Agraria di Lombardia.




Ettore Cantù

E' Presidente Onorario della Società Agraria di Lombardia e Imprenditore Agricolo.

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