di MICHELE LODIGIANI
Il libro che presentiamo costituisce uno dei maggiori successi – sicuramente uno degli esempi meglio riusciti – di un genere letterario piuttosto recente, che ha conquistato spazi sempre maggiori sugli scaffali: quello della letteratura cultural-gastronomica. Il tema, in realtà, riguarda tutta l’industria mediatica: non c’è ora del giorno e della notte nella quale un breve zapping non porti il televisore a sintonizzarsi su una trasmissione che abbia al centro la gastronomia, praticata o raccontata; la stampa – anche quella ritenuta più seria – dedica all’argomento spazi multipli rispetto a quelli destinati, ad esempio, a quanto avviene in interi continenti; pullulano i siti sul “food” – come è d’obbligo dire – in tutte le sue declinazioni: etnico, biologico, macrobiotico, fusion, finger, street, del territorio, vegano, molecolare, ecc.; mentre chef, food influencer, food designer, food scout sono divenuti non solo protagonisti di questo fenomeno – come sarebbe legittimo – ma opinionisti quotati, filosofi di riferimento, padri della Patria. Se l’urbanesimo verificatosi dagli anni ’50 del secolo scorso ha creato una frattura fra alimentazione e agricoltura (il cittadino di oggi ignora tutto su stagionalità, vocazione agronomica dei terreni, produzione e mercato delle materie prime alla base di ciò che mette quotidianamente in bocca), la nostra epoca sembra averne creata un’altra – ancora più sconcertante – fra il cibo e la sua funzione primaria, quella di soddisfare i fabbisogni alimentari dei singoli e delle popolazioni, portando all'affermazione di una sorta di “pornografia alimentare” che antepone la narrazione alla sostanza, l’esibizione alla nutrizione, il marketing alla produzione.
Anche Pollan ha messo il cibo al centro dei suoi interessi – “Il dilemma dell’onnivoro” è soltanto uno dei diversi volumi ad esso dedicati – ma il suo approccio si differenzia nettamente, in qualità e profondità, da quello che caratterizza la grandissima prevalenza dei libri ispirati all’argomento: intellettuale newyorchese, docente di giornalismo all’Università di Berkeley, scrittore leggibilissimo e apprezzabilmente autoironico, sembra animato dalla sincera volontà di comprendere la realtà della filiera alimentare, anche se in molti passaggi una gabbia di irrisolti pregiudizi oppone inscalfibili sbarre al pur lodevole sforzo di onestà intellettuale.
Il libro – strutturato in 3 parti rispettivamente titolate “La catena industriale: l’impero del mais”, “La catena pastorale: l’erba”, “La catena personale: il bosco” – è di difficile classificazione: non si tratta propriamente di giornalismo d’inchiesta, perché più che restituire un quadro generale del settore esaminato ne considera soltanto pochi casi esemplari; non c’è pagina in cui non si disserti di produzione o di consumo alimentare, ma certo non si può considerare un testo di economia; non è neppure un manifesto politico, perché gli impliciti messaggi che contiene non hanno per nulla l’assertività di chi vuole imporre la propria visione agli altri. Si tratta, piuttosto, di qualcosa che sta fra il diario personale, quello di viaggio e a tratti perfino il libro di avventura, una lunga riflessione volta a comprendere e a spiegare le molteplici implicazioni fra noi e il nostro cibo che evoluzione, cultura, religione, mode e convenzioni hanno generato e sedimentato nel tempo. Certamente è scrittura di prim’ordine: le 436 pagine dell’edizione italiana si leggono al ritmo e con la leggerezza di un romanzo!
Il libro è stato pubblicato nel 2006 e quanto vi si descrive si riferisce agli Stati Uniti. Questa distanza nel tempo e nello spazio non è irrilevante: molte sono le differenze fra il Nuovo e il Vecchio mondo anche nel confronto fra modelli agricoli parimenti avanzati; nei quattordici anni trascorsi, inoltre, molta acqua è passata sotto i ponti, normative e sensibilità sono cambiate (anche sotto la pressione di libri come questo), scienza e tecnologia si sono evolute, alcuni problemi hanno trovato nuove soluzioni.
Il viaggio di Pollan inizia su un vecchio trattore International Harvester del 1975 che trascina una sferragliante seminatrice ad 8 file. Ne è proprietario George Naylor, un agricoltore dello Iowa che assume letterariamente il ruolo di vittima sacrificale della filiera economica che si è sviluppata intorno al mais e alla sua monocultura. Ai tempi di suo nonno (che acquistò il fondo di 190 ettari nel 1919) l’azienda era già produttrice di mais (siamo in pieno Corn Belt), ma ad esso si affiancavano altre colture in rotazione, alberi da frutta e allevamento animale. Allora, precisa l’autore, un americano su 4 viveva in campagna e la fattoria riusciva a mantenere oltre alla famiglia coltivatrice una dozzina di compatrioti; oggi gli agricoltori americani sono meno di 2 milioni, e ognuno di essi fornisce quanto serve a 129 compatrioti, ma il povero George fatica ad assicurare sostegno sufficiente a se stesso e ai suoi 4 collaboratori.
Certo un paradosso sconcertante, effetto perverso del mercato in cui il nostro si trova ad operare (o, più probabilmente, delle distorsioni a cui esso è soggetto) e che tuttavia non dovrebbe far passare in secondo piano il risultato straordinario che l’evoluzione delle tecniche agricole ha saputo assicurare in termini di produttività. Ma del mais a Pollan non sembra piacere quasi niente: non la sua formidabile efficienza fotosintetica, che l’ha portato ad affermarsi come il maggior cereale per quantità a livello globale; non le sue potenzialità genetiche, su cui si è costruito il successo delle multinazionali del seme; non la sua straordinaria flessibilità di impiego, che ne fa una materia prima per un’infinità di prodotti, non solo alimentari; non, in particolare, l’impiego nell’allevamento dei bovini, il cui apparato gastrico si è evoluto per digerire l’erba e non i cereali; non la politica economica che ne regola il mercato, che nell’apparente tutela del produttore induce in realtà condizioni di favore alla parte industriale della filiera facendone un elemento funzionale al sistema militare/industriale degli USA.
Il mais sembra dunque, nella visione dell’autore, assumere una funzione simbolica: in esso egli condanna un sistema agroalimentare che si è allontanato dalla “naturalità”, che ha generato una complessità incomprensibile – da qui l’inconsapevolezza di ciò che mangiamo – e la cui efficienza economica è solo apparente, perché la si ottiene scaricando sulla collettività i costi economici, sociali e ambientali che gli competerebbero. Alla produzione spinta del cereale, finalizzata all’alimentazione forzata degli animali allevati, conseguirebbe un’alimentazione squilibrata dei consumatori, un cattivo stato di salute di terra, animali e persone, la necessità di intervenire con “pesticidi”, antibiotici, farmaci, in una perversa spirale espansiva senza fine o, meglio, prima o poi destinata a raggiugere il punto di rottura. C’è, naturalmente, anche una parte di verità in questa denuncia: l’agricoltura moderna ha indubbiamente delle criticità irrisolte, la ricerca dell’efficienza economica ha portato, soprattutto negli Stati Uniti, a complessi produttivi (agricoli e agroindustriali) enormemente concentrati e impattanti, le tecniche di allevamento hanno in certi casi degradato l’animale al livello di un semplice ingranaggio della macchina produttiva senza alcun riconoscimento della sua dignità di essere vivente in grado di provare sofferenza, il marketing dell’industria alimentare ha contribuito non poco alla diffusione dell’obesità e di altre malattie del benessere.
Per contro risulta omissivo definire un sistema soltanto attraverso i suoi difetti: le contropartite positive di questo sviluppo sono state straordinarie! Che aspettativa di vita aveva il nonno di George? la sua vita grama e quella delle 4 persone che lavorano nella sua azienda sarà anche più difficile di quella media dei 129 compatrioti che essi riescono ad alimentare, ma probabilmente è assai migliore di quella della dozzina che riusciva a mantenere suo nonno! l’avere saputo diversificare gli impieghi di una materia prima, a partire da quello finalizzato all’alimentazione animale (che per altro precede di gran lunga l’industrializzazione dell’agricoltura), si direbbe una virtuosa affermazione dell’ingegno umano più che un’imperdonabile violazione degli equilibri naturali, a maggior ragione considerando che anche questo non è certo un fenomeno recente prodotto dalla rivoluzione verde e neppure da quella industriale, ma un fattore di progresso prodotto se mai dalla rivoluzione neolitica all’origine della civilizzazione. Certo l’accelerazione con cui le tecnologie si evolvono e si affermano globalmente costituisce in sé un elemento critico della modernità, ma ciò non deve indurre ad una visione apocalittica del progresso, rappresentata da quella spirale perversa in continua espansione fino all’inevitabile punto di rottura di cui si è detto sopra, quanto obbligarci ad un approccio razionale ai problemi in un disegno che richiami se mai la forma dell’albero dell’evoluzione, che si dirama per mille strade e che tra passi falsi, vicoli ciechi e ripensamenti arriva, a volte attraverso una pluralità di percorsi, all’affermazione della soluzione più adatta, mai statica e definitiva ma sempre pronta a mutare, gradualmente o attraverso imprevedibili salti a seconda delle circostanze.
Se il libro terminasse qui non si distinguerebbe insomma da buona parte della produzione mediatica che tratta di agricoltura in termini divulgativi, caratterizzata spesso da pregiudizio ideologico, da semplificazioni scientifiche prive di ogni rigore, da imperdonabili lacune in termini di competenze agronomiche (fra cui quella, a quanto pare ineluttabile in questo tipo di letteratura, che confonde nutrizione e fertilità del suolo, termini sicuramente correlati – come lo sono alimentazione e salute per un essere umano – ma certo non sinonimi).
E’ quindi dalla seconda parte, “La catena pastorale: l’erba”, che lo sguardo di Pollan si fa un po’ più acuto, e riesce a vedere nel sistema agricolo anche qualcosa che sfugge alla prevalenza dei suoi colleghi quando trattano l’argomento. Nella sua ricostruzione – più filosofica che storica – le agricolture alternative sarebbero espressione della “controcultura” dei primi anni ’60, della protesta contro la guerra in Vietnam prima e di quella universitaria poi, iniziata proprio a Berkeley nel 1964 e divenuta globale (limitatamente al mondo libero) nel ’68. Nel clima culturale di quegli anni ogni aspetto della società fu messo in discussione e ne uscì profondamente mutato. Da questo fenomeno totalizzante non poteva certo essere escluso il modello produttivo agricolo, che doveva quindi essere ricostruito su nuove fondamenta: no alla chimica, dunque, perché no a Monsanto e Dow, produttrici dei defoglianti impiegati nella lotta contro i Viet-cong; no alla distribuzione commerciale organizzata, che costringe alla standardizzazione e alle economie di scala; no all’industria alimentare che processa e snatura le materie prime agricole, rendendole irriconoscibili e nocive.
Fu un periodo di grande fermento e di straordinarie aspettative. Chi era giovane allora credette sinceramente nella possibilità di cambiare il mondo, per di più facendo l’amore e non la guerra: sarebbe ingeneroso giudicarlo con il senno di poi, soltanto alla luce delle disillusioni che seguirono. Le disillusioni, tuttavia, sarebbero inevitabilmente arrivate: il rapido passaggio dall’utopia al suo tradimento è rappresentato da Pollan attraverso alcune storie paradigmatiche, come quella di Gene Kahn, studente fuori corso alle soglie del fallimento personale, fondatore della Cascadian Farm, che ben presto si impadronisce degli spregiudicati meccanismi del “business” facendo della vocazione alternativa dell’azienda un efficace strumento di marketing e della fattoria dove tutto era iniziato una vetrina accattivante ma sostanzialmente fasulla, una piccola Arcadia la cui funzione non è la produzione di materie prime, che si fa altrove, ma la rappresentazione fisica della “narrazione” costruita intorno all’azienda.
L’inquietante parabola della Cascadian Farm si conclude nell’abbraccio fatale con la General Mills, nota multinazionale, nella quale confluisce e di cui Kahn diviene uno stimato dirigente. Non si tratta di un caso isolato: nel confronto con la realtà i principi si smussano, le convinzioni si fanno più flessibili e, infine, il sistema “alternativo” finisce per essere indistinguibile dal modello che si proponeva di abbattere. Pollan riserva un giudizio severo e argomentato (ed anche qualche spiritosa ironia) all’agricoltura biologica, che nel processo di adattamento al mercato (da nicchia per negozi specializzati a prodotto da supermercato) ha venduto l’anima al miglior offerente. La condanna si riferisce però soprattutto alla parte industriale e commerciale della filiera, che avrebbero “costretto” quella agricola alle proprie logiche: a quest’ultima si concedono tante e tali attenuanti – enfatizzandone i pregi e minimizzandone i difetti – da farla assomigliare molto ad un’assoluzione. Sì, è vero, sostiene l’autore, l’agricoltura biologica non è come dovrebbe essere, però è pur sempre meglio di quella convenzionale: riguardo al gusto i suoi prodotti sono “quasi sicuramente” (testuale) migliori (ma come? de gustibus non est disputandum!); certamente essi sono migliori riguardo al suolo, che non perde la sua virtuosa complessità come quello “drasticamente semplificato” (testuale) dai fertilizzanti artificiali (ma su che libro di agronomia ha studiato?); e comunque il biologico usa rarissimamente (testuale) la chimica (davvero? forse sarebbe meglio precisare che ci si riferisce a quella di sintesi), e comunque quelle poche volte impiega prodotti autorizzati che si possono spruzzare senza danni (testuale) come Rotenone, Piretro, Solfato di Nicotina (peccato che il primo riporti etichette ben più allarmanti di quella del tanto demonizzato Glifosate, e che il secondo e terzo da noi siano revocati rispettivamente dal 2008 e dal 1991); anche riguardo alla salute i prodotti biologici sono “quasi sicuramente” migliori: a supportare questa “quasi” convinzione una ricerca che avrebbe dimostrato possibili mutazioni di sesso in rane maschio indotte dall’Atrazina (prodotto che per altro non si usa in Europa da più di un quindicennio, opportunamente proibito, ma certo non per pregiudizio nei confronti della comunità LBTG anfibia); inoltre gli alimenti biologici (come già sappiamo cresciuti in un suolo più opportunamente complesso) avrebbero a loro volta maggiore complessità: in particolare – non è certo ma è probabile – sembrerebbero più ricchi in vitamine e polifenoli, forse perché sintetizzano difese naturali che la pianta curata artificialmente non produce, e questa ipotesi in poche righe diventa una certezza che la scienza ancora non ha dimostrato … ma che dimostrerà (galileiano!); e infine, ultimo ma non ultimo, il prodotto biologico è migliore per il contribuente, perché non gode di sostegno pubblico: è possibile che così fosse negli Stati Uniti nel 2006, certo in Europa le cose vanno un po’ diversamente, anzi esattamente all’opposto.
Il personaggio che Pollan pone al centro della catena pastorale, il deuteragonista del libro (il protagonista è l’autore stesso), non è un agricoltore biologico ma un imprenditore di più complessa definizione: Joel Salatin. Ecologista, libertario, cristiano, autosufficiente e, soprattutto, erbicoltore, egli applica un modello produttivo che va “oltre il biologico” e che si basa piuttosto su un uso integrato di tecnologie semplici (da enunciare, assai più complicate da applicare) ad imitazione della natura. A Polyface, l’azienda di 40 ettari di pascolo e 180 di bosco ereditata dal padre (che l’aveva acquistata in un pietoso stato di degrado), applica la gestione intensiva del pascolo (GIP) sviluppata dagli allevatori neozelandesi alternando, in sequenze assai complesse e con l’ausilio di ingegnose attrezzature di sua invenzione, il pascolo dei bovini, quello dei maiali e quello dei polli, dove lo scarto e il rifiuto di una specie divengono materia prima dell’altra. Niente di nuovo, in fondo: principi affinati in tradizioni pastorali plurimillenarie che però vengono qui rivisitati perfezionandone le dinamiche biochimiche e fisiologiche che ne regolano il funzionamento. I risultati produttivi dichiarati che ne derivano sono mirabolanti, anche senza tener conto del valore economico di un terreno degradato recuperato alla produzione. L’autore trascorre a Polyface una intensa settimana partecipando direttamente a tutte le fasi del lavoro, non esclusa la macellazione dei polli (una specie di “rito di passaggio” per un esponente dell’”upper class” intellettuale con tentazioni vegetariane!). Vi si è deciso dopo un infruttuoso tentativo di acquistare la carne di Salatin per corrispondenza, ottenendone un netto rifiuto perché “Polyface “non fa spedizioni, non vende ai supermercati e non si affida ai grossisti” e destina orgogliosamente il proprio prodotto ai mercati locali. In questo breve periodo Pollan, con l’entusiasmo (e i limiti) del neofita, riesce a penetrare nei meccanismi, organizzativi ed anche mentali alla base del successo di Polyface, traendone in tutta evidenza la convinzione che sia questo il modello a cui dovrebbe ispirarsi una produzione alimentare virtuosa, realizzando quell’utopia che il “sistema” ha pervicacemente impedito. E’ lo stesso Salatin a smentirlo e, in coerenza con la sua indole libertaria, a spiegargli che il suo fine non è vincere la guerra contro il sistema industriale, ma offrire ad esso una alternativa. Egli si vede come un Lutero − conclude l’autore − non come un Lenin: un atteggiamento assai diverso da quello, propriamente bellico, che l’agricoltura evoluta si trova spesso a dover fronteggiare! Non è l’unica lezione interessante che ci trasmette l’esperienza di Polyface. Ribaltando un’opinione comune essa dimostra che la zootecnia può essere un formidabile strumento di rigenerazione ambientale, assai più efficace dell’abbandono alla natura perseguito dall’ambientalismo più diffuso e antiscientifico.
Non esistono, quindi, modelli produttivi intrinsecamente virtuosi, esistono invece i buoni risultati, che si possono raggiungere per strade differenti: è da essi che si deve valutare la buona agricoltura. L’individuazione di indicatori utili a misurare lo stato di salute di un terreno e la sua capacità di mantenere e possibilmente incrementare nel tempo la sua produttività è una delle sfide più stimolanti ed importanti per l’agronomia di oggi!
La storia di Polyface però non finisce qui e merita un aggiornamento, che restituisce un quadro forse meno ideale ma più corretto della realtà. Una visita al sito dell’azienda (http://www.polyfacefarms.com/) ne testimonia l’evoluzione. Joel, anche grazie al libro di Pollan (e ai numerosi scritti da lui) è diventato una vera e propria “agro-star”, un conferenziere ricercato e un opinionista ascoltato; Polyface ha una frenetica attività ricettiva, formativa, editoriale, organizza eventi, escursioni e visite guidate (il mezzo di trasporto è il carro da fieno), offre un ricco assortimento di materiale promozionale marchiato (tazze, magliette, dvd, creme per la pelle ed anche un manuale dello stesso Joel che promette salute, felicità e libertà) ed infine vende anche on line: se siete sufficientemente ricchi potete acquistare anche dall’Italia 3 libbre di appetitosi “Polyface Beef Sticks” al modico prezzo di 152,70 dollari. Insomma: anche Joel Salatin, come Buffalo Bill prima di lui, ha finito per trasformare la sua epopea in un circo.
Qui si chiude la parte del libro dedicata al mondo della produzione, ricca di argomenti, di personaggi e di riflessioni: la versione semplificata che inevitabilmente se ne è qui potuto dare non rende merito ad una narrazione che ha la misura dell’affresco, né ad un narratore che – con i limiti di cui si è detto – non cessa di interrogarsi e di ricercare una sua verità. A maggior ragione sorprende che, in una disamina così ampia, non si dica sostanzialmente nulla su un tema discriminante ed estremamente “caldo”, quello degli OGM (se ne fa qualche cenno, ma senza alcuna presa di posizione). Una dimenticanza? nell'esaltare i pregi della prateria Pollan si spinge ad auspicare la trasformazione in perennanti delle grandi colture cerealicole: difficilmente questo risultato, come quello di trasformarle in azotofissatrici al pari delle leguminose, si potrà ottenere senza manipolazione genetica. Si deve dedurne che il fine giustifica il mezzo? e allora perché non dichiararlo? su altri temi, non meno divisivi (ad es. la caccia, come si vedrà di seguito), egli non esita a violare alcuni “tabù”. Oppure si deve pensare che il suo orientamento sia del tutto negativo, in modo così irrevocabile da non doverne neppure parlare? e allora perché non argomentare in questo senso? o ancora si tratta di una scelta imposta dall’editore nel timore che una posizione pro OGM avrebbe compromesso il successo del libro? sarebbe umiliante! Interrogativi destinati a non avere risposta: peccato, perché se c’è un dilemma che si pone alla nostra società di onnivori − quanto meno a quella europea −è proprio questo. Quella sugli OGM non è tuttavia l’unica né la più grave omissione del libro: l’altro tema del tutto ignorato è quello relativo alla funzione primaria dell’agricoltura, quella di fornire quanto necessario alla totalità della popolazione del pianeta. Pur nella consapevolezza che il dilemma dell’onnivoro si pone soltanto a chi può scegliere cosa mangiare e certo non riguarda chi non ne ha a sufficienza , molti degli argomenti trattati sono ineludibilmente connessi al problema della fame e della sottonutrizione: sarebbe stato sbagliato farne un punto focale del libro, il trascurarlo del tutto costituisce però una sgradevole stonatura.
Nella terza parte, “La catena personale: il bosco”, il pretesto narrativo è dato dalla sfida che Pollan pone a se stesso: preparare una cena usando come materia prima solo prodotti derivanti da autoapprovvigionamento, quindi coltivati, raccolti o cacciati da lui stesso. Quanto a verdure e contorni la soluzione è a portata di mano: egli infatti dispone di un orto ben curato (che derivi da questo il rispetto con cui guarda al lavoro degli agricoltori?). Per il resto la realizzazione del progetto comporta un percorso di apprendistato ed organizzativo non indifferente, che viene affrontato con molta serietà e determinazione. Il suo “Virgilio”, che lo condurrà per mano alla scoperta dei segreti del bosco e della caccia, è tale Angelo Barro, un italiano pieno di risorse di cui resta misteriosa la fonte di sostentamento, che si aggiunge alla curiosa galleria dei compagni di strada dell’autore. Il racconto dell’iniziazione di Pollan alle forme primordiali di approvvigionamento alimentare è assai avventuroso, spesso divertente, estremamente onesto. La leggerezza di tono tuttavia non deve ingannare: è proprio in questa parte che il libro dà il meglio di sé, pone con penna felice e profondità problemi esistenziali, li sviluppa in una articolata architettura di considerazioni che interessano l’antropologia, la fisiologia (umana ed animale) e le religioni, si interroga sul rapporto fra la nostra e le altre specie il che significa, almeno in parte, il rapporto con noi stessi.
Infine la sfida sarà vinta, la cena si farà e sarà un successo. Il dilemma dell’onnivoro, invece, rimarrà irrisolto: Pollan non impone a nessuno, neppure a sé stesso, una scelta di campo; preferisce indurre il lettore a una propria meditazione che, comunque egli la pensi, porterà il segno di una maggiore consapevolezza e di una sottile ed intima inquietudine.
Michele Lodigiani
Agronomo, è agricoltore a Piacenza da più di quarant’anni. Per curiosità intellettuale e vocazione imprenditoriale è stato spesso pioniere nell’adozione di innovazioni di prodotto e di processo, con alterne fortune. Ha un rapporto di fiducia con la Scienza, si commuove di fronte alle straordinarie affermazioni dell’intelligenza umana (quando è ben impiegata), osserva con infinito stupore la meravigliosa armonia che guida i fenomeni naturali.
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