di LUIGI MARIANI
"Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena
e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia
et garrir Progne et pianger Philomena
et primavera candida et vermiglia
(sonetto dalle rime"In morte di Laura"
e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia
et garrir Progne et pianger Philomena
et primavera candida et vermiglia
(sonetto dalle rime"In morte di Laura"
del Canzoniere di Francesco Petrarca).
Nel 2024 ricorre il 650° anniversario della morte di Francesco Petrarca, scrittore, poeta, filosofo e filologo ritenuto precursore dell'umanesimo e le cui opere sono fra i fondamenti della letteratura italiana. Nato ad Arezzo il 20 luglio 1304 e morto ad Arquà il 19 luglio 1374, Petrarca era figlio di un notaio proscritto fuoruscito fiorentino, condizione questa assai diffusa nella civiltà comunale, la quale ebbe negli acerrimi scontri fra fazioni uno dei elementi che ne determinarono il tramonto¹.
In questa sede ci limiteremo a evidenziare ai lettori due aspetti all'apparenza secondari della figura di Petrarca e cioè i suoi legami con l'agronomia (fu un appassionato orticoltore e frutti-viticoltore e mise per iscritto alcune sue esperienze coltivatorie) e il suo interesse per l’osservazione e la registrazione dei fenomeni naturali. Tali aspetti pongono a mio avviso in risalto l’eclettismo del Petrarca che pare preludere a grandi personaggi rinascimentali che saranno al contempo artisti e scienziati come Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci.
Petrarca cronista del maremoto di Napoli del 1343
Petrarca, che su incarico dal Papa Clemente VI si trovava in missione diplomatica a Napoli, ci ha lasciato un originale resoconto del disastroso maremoto che colpì Napoli Il 25 novembre 1343, festa di Santa Caterina. In proposito leggiamo quanto sull’argomento dice Giovanni Ricciardi, ricercatore presso l’Osservatorio Vesuviano dell’INGV, intervistato da Francesca Pezzella (2020): il 25 novembre, poco dopo la mezzanotte, furono avvertiti per tutta Napoli un fortissimo boato e un terremoto che scosse dalle fondamenta il monastero di San Lorenzo ove era alloggiato Petrarca, che così racconta: “Serrata la finestra mi posi sopra il letto, ma dopo avere un buon pezzo vegliato, cominciando a dormire, mi risvegliò un rumore e un terremoto, il quale non solo aperse le finestre, e spense il lume ch’io soglio tenere la notte, ma commosse dai fondamenti la camera dov'io stava”. La situazione peggiorò quando un violento temporale e un maremoto devastarono l’intero golfo di Napoli e Salerno. Secondo Petrarca, i fenomeni interessarono l’intero Mediterraneo: “si dice che questa tempesta abbia infuriato lungo tutto l’Adriatico, il Tirreno e per ogni dove.” A conferma del resoconto petrarchesco le cronache maltesi del tempo indicano che la notte del 25 novembre del 1343 a Malta, nel villaggio di Misrah Tal-Maqluba, si formò un cratere di circa 50 metri di diametro e 15 metri di profondità, al causa del quale si generò un maremoto che distrusse l'intera flotta turca ancorata al largo dell’Isola.
La mattina Petrarca si recò sul grande molo di Napoli ormai distrutto e invaso dalle acque e di tale sopralluogo ci ha lasciato la seguente testimonianza: “Il terreno su cui ci trovavamo, eroso dalle acque che vi erano penetrate, franò velocemente; Noi, in terraferma, a stento ci siamo salvati, nessuna nave resse ai flutti né in alto mare e neppure nel porto. Una sola fra tante, carica di malfattori, si salvò. La loro nave, pesante, molto robusta e protetta da pelli di bove, dopo aver sostenuto sino al tramonto la forza del mare, alla fine cominciava anch’essa a cedere. E così, mentre lottavano e a poco a poco affondavano, avevano protratto il naufragio sino a sera; spossati alla fine, cedute le armi, si erano raccolti nella parte superiore della nave quand’ecco, al di là di ogni speranza, il volto del cielo rasserenarsi e calmarsi l’ira del mare ormai stanco.”
Interessante al riguardo del maremoto è anche la lettera che il Petrarca indirizzò al Cardinale Giovanni Colonna e in cui non fece mistero delle proprie paure e ansie, cominciate già qualche giorno prima allorché nella città corse voce che il Vescovo di Ischia Guglielmo, appassionato di Astronomia, avesse predetto per il giorno 25 un fortissimo terremoto. Questa previsione aveva riempito di terrore gran parte del popolo, che abbandonata ogni consueta occupazione, aveva affollato le chiese. “Io d’altra parte avevo visto ed udito in quei giorni minacciosi segni del cielo che, per quanto abituato ad abitare in gelide regioni … mi avevano gettato nello spavento e reso quasi superstizioso”. Dopo la mezzanotte un forte boato e un terremoto spalancò le finestre e fece tremare tutto il convento: ”Ci affrettiamo tutti verso la chiesa, e qui giunti, genuflessi, pernottiamo nel pianto, certi ormai che la fine fosse imminente e che ogni cosa attorno rovinasse”. E da questa terribile esperienza trasse la seguente morale: “Io ne trarrò solo questa conclusione: pregarti che tu non voglia più ordinarmi d’affidare la mia vita ai venti e alle onde. In questo non vorrei ubbidire né a te, né al Pontefice Romano e neppure a mio padre, se tornasse in vita. Lascio il cielo agli uccelli e il mare ai pesci; animale terrestre, scelgo un viaggio terrestre”.
Quell’autodefinirsi “animale terrestre”ci introduce a un’altra prerogativa del sommo poeta e cioè la passione per l’orticoltura, la frutticoltura e la viticoltura, passione quest’ultima che lo accomuna ad esempio a Leonardo da Vinci, del quale ricordiamo la vigna donatagli da Ludovico il Moro e a Galileo Galilei, appassionato viticoltore². Al riguardo può essere interessante riproporre ai lettori alcune delle riflessioni che il prof. Gaetano Forni dedicò agli scritti agronomici del Petrarca e che in forma completa furono pubblicate sui numeri 15 (1994-95) e 16 (1996-97) dalla rivista AMIA (Acta Museorum Italicorum Agriculturae). A tali due numeri di AMIA, disponibili in rete sul sito della Rivista di storia dell’agricoltura, si rimanda il lettore per approfondimenti e per consultare le versioni originali in lingua latina degli appunti coltivatori del Petrarca, attinti dal codice Vat. 2193, f 156 r³, tradotti in italiano da Giulia Forni e che il lettori trovano in appendice.
Forni evidenzia anzitutto che il Petrarca era amante della natura e non tanto di quella selvatica quanto, come Virgilio, di quella domestica e cioè della campagna, per cui prende nota delle operazioni, in genere di piantagione o semina, da lui personalmente condotte o curate (Camporesi, 1993). In tale resoconto il Petrarca non si limita ad indicare la data, ma rileva le condizioni climatiche, il tipo di suolo, la luna, e soprattutto documenta i risultati. Diplomato ambasciatore, chierico (aveva acquisito attorno ai vent'anni gli ordini minori), godeva di una grande disponibilità di mezzi finanziari, il che gli permetteva di acquistare terreni e case nelle località ove aveva occasione di risiedere. Così nella sassosa Provenza, a Valchiusa (Vaucluse), presso la riva della Sorgue, acquistò un poderetto che fece prima ripulire dai massi sparsi in superfìcie (Marconi, 1893) e poi spietrare in profondità. Realizzò in tal modo un praticello, poi due piccoli orti, ove potè piantare personalmente viti, olivi e altri fruttiferi. Lo stesso fece in quel di Parma ove, svolgendo la funzione di canonico, possedeva un giardino e un vigneto-frutteto con viti allevate su sostegni vivi (peri, meli, susini). Il giardino era diviso in una parte centrale più intensamente curata e coltivata (ortulus cultior) e in due zone laterali (ortus citeriore, ortus ulterior) (De Nolhac 1887 e 1934)⁴. Le doti coltivatorie del Petrarca incuriosirono altri personaggi con cui era in relazione e tra questi il Signore di Milano, Luchino Visconti, che da poco aveva acquisito Parma dagli Estensi e che inviò a Petrarca marze di pregiate varietà di fruttiferi (Camporesi o.c., p. 62). Petrarca contraccambiò il dono inviando a Luchino Visconti un carme, alcune pianticelle e un cesto di pere ghiacciuole (glaciale pirum), varietà un tempo molto diffusa specie in Toscana (Marconi ibidem, nota 39). Spostandosi poi a Milano, ove risiedette una decina d'anni (Camporesi 1993 p. 54), Petrarca svolse le proprie attività coltivatorie in un ortulo che possedeva nei pressi di Sant'Ambrogio e in orto acquistato nelle vicinanze di via Santa Valeria. Negli ultimi anni della sua vita, ritiratosi ad Arquà, Petrarca prosegui le proprie attività di coltivatore con l'assistenza del genero (Checcus noster) e di alcuni amici, prendendosi cura dell'oliveto e del vigneto (Marconi, ibidem).
Sempre Forni pone l’accento sul fatto che per comprendere meglio perché Petrarca sentisse il bisogno di sperimentare nell’orto, è necessario conoscere i tratti psicologici fondamentali della sua personalità, già in parte emersi quando si è parlato della cronaca del maremoto di Napoli. Come sottolinea infatti il Camporesi (1993), Petrarca era di temperamento ansioso e melanconico ed era esposto alla depressione, per cui trovava sollievo nel lavoro indefesso e pluriforme e nel viaggiare continuo, impostogli anche dalla sua posizione di diplomatico e ambasciatore. Di gusti parchi e frugali, si nutriva soprattutto di erbe, frutti e pesci, evitando le spezie. Incalzato dall'ansia di una vita che temeva breve, limitava il sonno, levandosi prima dell'alba, per occuparsi dei suoi diletti studi. Di salute cagionevole, andava soggetto a febbri violente, forti dolori e perdite di coscienza: ad esempio nel 1370 fu colpito da una sincope che lo tenne quasi come morto per circa trenta ore.
L'orticoltura e la viti-frutticoltura rappresentavano dunque per lui una forma di contatto con l'ambiente naturale mentre Il provare metodi nuovi, non conformi a quelli illustrati dai georgici classici, gli dava il gusto d'innovare e di sperimentare. Al riguardo egli scrive: " Quae omnia (tutti questi modi d'operare) sunt contra doctrinam Maronis (non sono conformi alle Georgiche di Virgilio Marone). Sed placet experiri (…ma mi piace sperimentare)".
Le annotazioni che il Petrarca stendeva per uso strettamente personale sono riferite a come aveva operato nel piantare e seminare, a quali suggerimenti avesse accolto, alle condizioni climatiche e pedologiche e così via, sino al cenno sui risultati ottenuti. Tali annotazioni non costituivano tuttavia un vero e proprio registro di sperimentazione, analogo a quelli impiegati da un moderno ricercatore. Si trattava infatti di appunti alla buona, spesso incompleti, che il Petrarca stendeva per sé in un latino in complesso corretto (il che lascia supporre che pensasse in latino), in modo sincopato, stenografico, diremmo oggi, utilizzando abbreviazioni di ogni genere e sottintendendo di tanto in tanto delle parole. I risultati erano indicati successivamente in modo ancor più succinto e lacunoso. In complesso si tratta di note che documentano lo scopo delle ricerche del Petrarca che, anche se condotte in modo rudimentale e talora ingenuo (come quando semina in autunno spinaci, biete e altri ortaggi), erano tuttavia straordinarie in quanto di epoca medievale. Tali annotazioni, tredici in tutto, erano stese a guisa d'appendice all'opera agronomica latina che più frequentemente consultava e cioè l’Opus Agriculturae del Palladio ed avevano per titolo “Observationes quaedam sup. Agricultura”.
Petrarca ebbe in vita un rapporto privilegiato con l’alloro, albero sacro al dio Apollo, protettore della poesia. L’alloro rinvia da un lato al nome della musa ispiratrice di Petrarca, madonna Laura, e dall’altro all’incoronazione a Poeta, avvenuta a Roma in Campidoglio nel 1340 con l’imposizione di un serto d’alloro.
Narra Leonardo Sciascia (1979, p. 170) che Petrarca morì nella notte fra il 18 e il 19 luglio del 1374 e pertanto alla vigilia del suo settantesimo compleanno, essendo infatti nato all’alba del 20 luglio del 1304. Petrarca moriva dunque avendo quasi perfettamente concluso quello che per Dante era il “cammin di nostra vita”: stroncato da una sincope improvvisa, reclinò la testa sul libro che stava leggendo, forse l’amato Virgilio. Accorso a sollevarlo, il fedele discepolo Lombardo della Seta vide “come una nuvoletta in su salire” l’anima del maestro.
I cronisti del tempo evidenziano con dovizia di particolari che il 1374 fu denso di calamità: piogge eccessive, venti, geli, la peste da aprile a ottobre e la carestia come conseguenza del maltempo (Ciucciovino, 2016, pp. 1047 e 1049)⁵. Al riguardo Lombardo della Seta narra che quell’anno gelarono tutti gli allori e attribuisce l’evento funesto alla scomparsa del Poeta, che dell’alloro era stato uno dei più elevati cantori.
Camporesi P., 1993. Le vie del latte, Garzanti, Milano
Ciucciovino C., 2016. La cronaca del trecento italiano, volume III, 1351-1375 Universitalia, 1229 pp.
De Nolhac P., 1887. Pétrarque et son jardin d'après ses notes inédites, Giornale storico della letteratura italiana, IX, Firenze: 404-414
De Nolhac P., 1934. Pétrarque dans son jardin de Parma, Archivio storico per le Province Parmensi: 37
Forni Gaetano e Giulia (a cura di), 1994. Un contributo d'eccezione per la documentazione museale dell'agricoltura medievale: le " Observationes quaedam sup. agricoltura”, appunti di ricerca sperimentale ortofrutticola di Francesco Petrarca, rivista AMIA, n. 14-15, 155-158 (disponibile sul sito del Mulsa - https://www.mulsa.it/amia-acta-museorum).
Forni Gaetano e Giulia (a cura di), 1996. “Observationes quaedam super agricultura”. Appunti di ricerca sperimentale ortofrutticola di Francesco Petrarca, rivista AMIA, n. 16-17, 158-160 (disponibile sul sito del Mulsa - https://www.mulsa.it/amia-acta-museorum).
Marconi F., 1893. Il Petrarca nella storia dell'agricoltura, Atti Reale Accademia economico-agrari Georgofìli di Firenze, IV serie, XVI, Firenze: 139-151
Pezzella F., 2020. l maremoto di Napoli del 1343: la testimonianza di Francesco Petrarca, https://www.ingv.it/newsletter-ingv-n-6-giugno-2020-anno-xiv/il-maremoto-di-napoli-del-1343-la-testimonianza-di-francesco-petrarca
Rico F., Marcozzi L., 2015. PETRARCA, Francesco, Dizionario biografico degli italiani, vol. 82, https://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-petrarca_(Dizionario-Biografico)/
Sciascia E., 1978. Nero su Nero, Einaudi, 247 pp.
Vattasso M., 1908.I codici petrarcheschi della Biblioteca Vaticana, Tipografia Poliglotta Vaticana.
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¹ Per una biografia di Petrarca si rinvia a Rico e Marcozzi (2015)
² secondo il biografo Villani, Galileo mostrava un particolare diletto … “nel modo di custodire le viti, ch'egli stesso di propria mano le potava e legava nelli orti delle sue ville, con osservazione, diligenza et industria più che ordinaria; et in ogni tempo si dilettò grandemente dell'agricoltura.”, … “perché tale arte “gli serviva insieme di passatempo e di occasione di filosofare intorno al nutrirsi e al vegetar delle piante, sopra la virtù prolifica de' semi, e sopra l'altre ammirabili operazioni del Divino Artefice.”. ).
³ L'interpretazione delle parti sincopate o sottintese è quella di M. Vattasso (1908) che perfeziona e talora rettifica la precedente interpretazione di De Nolhac (1887).
⁴ Sempre a Parma il Petrarca acquisì un nuovo appezzamento nel 1350.
⁵ Scrive Ciucciovino (2016) citando svariate fonti che l’inverno 1373-74 fu insolitamente – e dannosamente – caldo, “velut aestas”, come l’estate. Da Natale a Pasqua non piovve, poi, il 3 aprile iniziò a scendere l’acqua e per tutto giugno non smise di piovere, così che tutto il grano andò perduto e il fieno non si potè raccogliere. Grande pioggia: settimane e settimane. Impedì il raccolto. Carestia e, poi, peste che fece strage in tutta la Lombardia. Il grano rincarò e arrivò a 10 lire lo staio (1 fiorino vale 3 lire e 6 soldi), il vino costava tra 24 e 30 fiorini il moggio, la carne 3 soldi la libbra, l’olio 8 soldi lo staio; «era fame per tutto il mondo, scura». A Siena si dice che a Genova un moggio di grano venga pagato 150 fiorini d’oro! Il pane, un pane fatto in gran parte di erbe, viene distribuito pubblicamente. «A Lucca e in altri luoghi del mondo era fame grandissima e inestimabile». Ad Orvieto una soma di grano viene pagata 10 ducati. Tutti i cronisti sono concordi: «Non fu mai udita, né vista, sì crudele carestia, per la quale molti di fame morirono». La pioggia d’aprile ha ingrossato e fatto esondare anche il Bacchiglione, la Brenta e l’Adige. A maggio seguono «venti tanto impetuosi ed orribili che schiantarono alberi innumerabili ed abbatterono moltissime case» nel Padovano. Seguono poi freddi inconsueti per la stagione. A Piacenza il frumento arriva a costare un fiorino per staio, mentre negli altri luoghi di Lombardia non supera i 10 soldi. Ciò comporta che i commercianti facciano a gara per portare i cereali in città, causando penuria negli altri luoghi. Da giugno, si patisce la carestia nel Ferrarese e «quasi in tutte le parti del mondo (quasi in omnibus partibus Mundi)». A settembre, un sestario di frumento viene pagato 45 soldi e uno staio di fave 28. Dopo l’estate, grazie alla scarsità del raccolto, comincia a crescere il prezzo dei generi alimentari. La carestia è dovuta al tempo inclemente, alla pestilenza perdurante che ha impedito la semina in molti campi, alle continue guerre e devastazioni. Non è limitata all’Italia, «ma quasi per tutte le parti della Christianità». Comunque, a Perugia il rincaro del grano non è poi eccessivo, se una mina, che è la terza parte di una soma, costa 5 lire, cioè circa 1 fiorino e mezzo. Anche l’aggiunta al Cortusi registra che «El fo una grande fame per tutto». Notizia della carestia anche nella cronaca di Pistoia, che specifica che a Firenze un sestario di frumento si paga 5 lire e non se ne trova. A Fermo, a giugno, una salma di granocosta 8 fiorini d’oro, ma anche 9 o 10.
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