sabato 24 febbraio 2024

IL RILANCIO DELLA UTILIZZAZIONE DEI PASCOLI MONTANI PER LA SALVAGUARDIA E VALORIZZAZIONE DEL TERRITORIO - SECONDA PARTE

 di ALESSANDRO BOZZINI 


 Con questo articolo, uscito in origine su I Tempi della Terra, Agrarian Sciences vuole ricordare il grande Genetista

 Agrario scomparso di recente. PRIMA PARTE


Longobucco (CS) Sila Greca, coltivazione della ginestra.

Importanza della copertura boschiva

Nei pascoli soggetti a lunghi periodi di stasi vegetativa, che si verificano più spesso in terreni superficiali, pietrosi, con rocce affioranti e caratterizzati da produzioni foraggiere povere e in climi con ampie oscillazioni di piovosità e temperature da una stagione all'altra e da un'annata all'altra, l’apporto alimentare della vegetazione arbustiva ed arborea acquista particolare importanza e costituisce un valido complemento alle risorse pabulari erbacee. E' un problema che interessa non soltanto le regioni aride tropicali e subtropicali, ma anche ampie superficie di terre marginali dei climi temperati.

In queste situazioni la copertura legnosa, meno influenzata dall'andamento climatico rispetto alla cotica erbacea, dà maggiore garanzia di continuità produttiva. Certamente il clima mediterraneo è più confacente alle piante arboree ed arbustive che, rispetto alle essenze erbacee, possono meglio utilizzare in profondità l’umidità e la fertilità del terreno. 

Nel Centro-Sud e nelle Isole, la utilizzazione della macchia mediterranea potrebbe acquistare un notevole crescente interesse, in quanto sovente è l'unica vegetazione che è in grado di valorizzare terreni poveri e semi- aridi. Arbusti ed alberi con buona o discreta attitudine foraggera possono assolvere un ruolo importante per il rilancio di molte terre assolate ed aride abbandonate od in via di abbandono. Non è anche da sottovalutare che buona parte degli alberi ed arbusti pabulari rivelano una composizione in elementi nutritivi favorevole e spesso superiore a quella di molte foraggiere erbacee. Vi è poi da considerare che, in molte zone aride dove il verde è effimero, con un ritmo di accrescimento caratterizzato da fortissime fluttuazioni stagionali, per lunghi periodi dell'anno, gli animali si debbono accontentare di foraggio disseccato grossolano e povero particolarmente in proteine ed in fosforo. Non è quindi difficile immaginare l'importanza che acquistano in queste condizioni fogliame e frutti di piante legnose, che spesso sono ben fornite di quegli elementi essenziali di cui è spesso carente la copertura erbacea, specie se secca. Né va trascurata la funzione di protezione e di ricovero che le piante legnose possono assumere, funzione particolarmente importante nei periodi di maggior freddo o calura.

Si può mettere in evidenza, poi, che il pascolamento razionale in molti casi bene si concilia con la copertura legnosa e con il bosco. Sono antiche concezioni che cominciano a riprendere importanza. Non è forse fuor di luogo richiamare quanto affermava Garofoli già nel 1915: "Il bosco permette la pastorizia fissa e buona sui monti, mentre la sua distruzione aumenta quella errante, come avviene in Italia, in Spagna, ecc." e ricordava in proposito quanto scriveva nel 1884 Berenger: "Con l'abbattimento delle antiche selve la pastorizia di montagna non può assumere una consistenza stabile". Certamente l'utilizzazione del bosco e dei cespugli del sottobosco assume un ruolo di primaria importanza nell'allevamento semibrado e diviene base indispensabile per un allevamento brado.

Per quanto riguarda i vantaggi che il bosco può trarre da un razionale pascolamento, ricordiamo anche che il bestiame, con la propria presenza, arricchisce di microflora e di humus il terreno; ravviva la cotica erbacea; accelera il processo di decomposizione delle foglie cadute e riesce a contenere, se non a liberare, le piante di alto fusto da una eccessiva crescita del manto arbustivo del sottobosco. Inoltre, se provvisto di buona cotica erbacea, il bosco è in grado di esercitare una più efficace funzione di difesa del suolo.

Non deve poi essere trascurato il fattore di difesa indiretta che l'eliminazione ed il diradamento del sottobosco e l’utilizzazione da parte del bestiame pascolante dell’erba secca sottostante (permessa e facilitata dalla presenza di fogliame verde) esercita nei confronti del fuoco, uno dei fattori, nel clima mediterraneo, che più, e più a lungo, compromette l'equilibrio ecologico delle nostre montagne e colline. Bisogna però anche considerare che un pascolamento smodato ed eccessivo, specialmente per piante giovani, può determinare danni assai gravi, portando rapidamente al degrado l'area boschiva. Infatti, i danni diretti ed indiretti dipendono non solo dall'intensità, dalla frequenza, dal momento in cui il pascolamento è attuato, ma anche dal tipo di suolo, dalla stagione e dal tipo di bestiame pascolante (bovino, ovino, caprino, equino, asinino, suino).

Per quanto riguarda l'influenza sulla fertilità del terreno è da sottolineare che le piante legnose, possedendo radici profonde, riescono a utilizzare le sostanze nutritive sottratte dagli strati profondi del terreno ed a portarle in superficie. Inoltre, il fogliame ed il materiale vegetale seccato, caduto al suolo e destinato al disfacimento, costituisce la base per l'arricchimento del terreno di componenti organici. Facilitando la formazione di humus: si stabilisce così tra terreno e copertura vegetale una continua positiva interdipendenza di rapporti.

Valorizzazione delle foraggiere erbacee nel bosco

In relazione alle modificazioni delle condizioni microclimatiche, si richiama l'attenzione sull'azione esercitata dalle chiome verdi arboree in relazione alla luce che arriva al suolo, che viene modificata sia nella quantità che nella qualità e nella sua distribuzione nel tempo. Infatti, in un bosco con essenze a foglie caduche, d’inverno, quando ancora le piante sono spoglie, l'intensità luminosa è massima al livello del terreno, mentre scende al minimo a fogliazione completa, in primavera-estate. Nell'ambiente vegetante sotto-chioma, per le temperature, si registra una notevole attenuazione rispetto all'esterno; come pure le condizioni di evapotraspirazione e la ventosità sono molto ridotte. Pertanto, lo studio di specie e varietà erbacee capaci di meglio vegetare sotto-chioma (quali ad esempio il Milium multiflorum) e resistenti all’ombreggiamento, può dare un efficace contributo per la utilizzazione di zone cespugliate ed arborate, la cui superficie raggiunge in alcune aree notevole estensione. 

In questa tematica rientra anche lo studio del pascolo presente nel bosco, nella macchia, nei vecchi oliveti e frutteti, più o meno abbandonati: tutti temi basilari per un positivo rilancio produttivo, ma anche connessi con la conservazione del suolo. In ambiente caldo-arido, in pascoli molto degradati, in coltivi abbandonati, spesso abbiamo la abbondante presenza di vegetali ingombranti, inutili o dannosi (ferula, asfodelo, carciofo selvatico, brachipodio, inula ecc.) e, pertanto, con una capacità foraggera nulla o molto ridotta, principalmente per il prevalere di specie non appetite o addirittura dannose per il bestiame. Ebbene, in queste situazioni, puntare anche sulla copertura legnosa, costituita da piante di valore pabulare, è una via da battere per la valorizzazione di pascoli provvisti di un minimo di cotica erbacea, che eventualmente presentano un buon valore nutritivo, ma che, purtroppo, si conserva soltanto per breve tempo in quanto prevalentemente composta da specie annuali.

Quindi, la razionale utilizzazione del fogliame e eventualmente dei frutti di alberi e arbusti perenni può dare un notevole contributo non solo ai fini di ampliare ed allungare le disponibilità alimentari degli allevamenti, ma anche in relazione alla conservazione del suolo. Infatti, Il clima di buona parte delle aree interne del nostro Sud è certamente più adatto alle piante arboree e arbustive che, rispetto alle essenze erbacee, possono man mano approfondire le radici ed esplorare ed utilizzare la scarsa umidità e fertilità del terreno. Pertanto, riveste particolare interesse la ricerca rivolta a specie legnose foraggiere autoctone o naturalizzate nella flora locale e principalmente sulle tecniche della loro utilizzazione, in modo da attuare modalità di pascolamento volte a contenere quelle specie che, per eccessiva spinosità o perchè non appetite, sono da ritenersi infestanti ed invadenti.

Lo studio delle essenze legnose di buon valore alimentare merita adeguato approfondimento: i risultati potrebbero dare una mano consistente allo sviluppo ed alla utilizzazione di vaste superfici oggi impoverite ed inaridite. Un maggiore interesse di esperti forestali in questo settore sarebbe augurabile, nella visione più allargata rispetto al culto del solo legname. Certo bisogna puntare a valorizzare al massimo la flora locale, ma non bisogna escludere la possibilità di provare e di introdurre anche essenze provenienti da altri ambienti analoghi. Accanto ad arbusti di sviluppo contenuto, tale che il loro fogliame sia accessibile anche ai piccoli animali, sono da considerare le piante arboree capaci di produrre frutti che, cadendo a terra, rappresentino un buon concentrato alimentare. A questo fine per la flora mediterranea particolare interesse rivestono le querce nelle loro molteplici specie e forme.

Ruolo del Genere Quercus.

Crediamo sia infatti opportuno sottolineare il ruolo delle Querce nel Bacino Mediterraneo e nel nostro Paese. Il genere Quercus, come noto, è largamente rappresentato in tutte le regioni d'Italia con molte specie (Quercus aegilops, calliprinos, cerris, coccifera, farnetto, ilex, macrolepis, sessiliflora, pubescens, robur, suber, troiana) e con molti ibridi interspecifici. Abbiamo specie sempreverdi e specie con foglie caduche, con portamento ad albero o a cespuglio. La quercia è senza dubbio l'albero che, con le sue molteplici specie e forme, è più largamente rappresentato nel nostro Paese. Vi sono specie adatte per suoli calcarei, per suoli leggeri, per suoli acidi; vi sono specie xerofile e specie che si adattano ad ambienti umidi; specie che si sviluppano fino a 1600 m s.l.m. e specie che crescono lungo le coste marine. Alcune raggiungono grandi dimensioni e sono secolari: in molti ambienti coltivati, un tempo a bosco, vi sono ancora solitarie maestose querce a testimoniare l'antica e lussureggiante vegetazione. Crediamo sia nostro compito salvaguardare con cura, rispetto ed amore gli ultimi esemplari di questo prezioso patrimonio e tutelare macchie e boschi dove la quercia è ancora una componente molto importante per la difesa del suolo e per l'allevamento del bestiame. 

Si tratta di "vegetazione climax", dalla chioma aperta che consente una vita intensa a sottostanti arbusti e piante erbacee, offrendo alimento e rifugio agli animali sia selvatici che domestici. Ricordiamo anche che, sino ad alcuni decenni or sono, i contadini del nostro Centro e del nostro Sud avevano l'abitudine di condurre nei boschi in autunno branchi di maiali che trovavano abbondante e prezioso nutrimento appunto nelle ghiande. Le querce, unitamente ad altre latifoglie, in passato dovevano essere le principali componenti delle formazioni vegetali non solo dei monti e delle colline, ma anche delle pianure, come ci viene attestato da alcune aree residue e dalle descrizioni dei botanici dei secoli scorsi. La istituzione di "un Parco della Quercia" nel Centro-Sud, con l'allevamento delle diverse specie e forme nostrane e di altra provenienza, è una iniziativa che varrebbe la pena di prendere per la valorizzazione di questi alberi, tipici della zona mediterranea e che potrebbe dare, attraverso lo studio del comportamento delle singole specie e forme, un contributo consistente alla ricerca di nuove essenze per la forestazione produttiva di vaste nostre colline, un tempo a rigoglioso bosco ed oggi nude ed improduttive, in preda alla continua erosione. E' però anche importante ricordare che sovente l'uomo, nel ripopolamento delle alture, sostituisce querce ed altre latifoglie con conifere. Queste, acidificando il substrato con le loro foglie, impediscono lo sviluppo delle caducifoglie, come pure delle specie erbacee. Laddove è di casa la quercia, può essere un grosso errore ecologico intervenire con la conifera.

Ruolo di altre piante legnose utilizzabili per foraggio




Accanto alle Querce una serie di altre specie legnose di vario valore foraggero sono componenti più o meno frequenti dei nostri boschi, della nostra macchia e vegetazione. Fra queste ricordiamo, tra le sempreverdi: l'Olivastro, l'Alaterno, il Corbezzolo, la Fillirea, il Mirto, il Carrubo e per le specie a foglie caduche: anzitutto il Gelso, oltre, alla Robinia, alle Viti americane e poi anche l'Olmo, l'Acero, il Frassino, l'Ontano, il Carpino, il Castagno, il Tiglio etc.

Il Gelso è una pianta che per una serie di pregi può essere considerata specie foraggiera ottimale per il bestiame, sia al pascolo che nella stalla. Ha fogliame di alto valore pabulare: presenta, nelle foglie da alberoun contenuto proteico medio del 4,4% /ss, ma che arriva al 5,8% in foglie da ceppaia (prato-gelso), contro il 3,7% del foraggio della tanto pregiata erba medica, ma con produzioni potenziali almeno doppie di questa e per molte più annate nel prato-gelso”! Dalla Cina viene talvolta importata “farina di medica”, che spesso è risultata essere farina di gelso! Inoltre la specie è poco esigente quanto all’acqua, in quanto, una volta sviluppato, è dotato di un potente apparato radicale, capace di esplorare il terreno a notevole profondità e con parte epigea adatta ad assumere portamento basso e cespuglioso (il cosiddetto prato-gelso, molto diffuso in Asia e felicemente introdotto in varie aree montane dell’America Latina anche da progetti FAO), proponendosi quindi come pianta foraggera arbustiva perenne. E’ inoltre indifferente al substrato, anche se non ama terreni argillosi umidi. Occorre inoltre ricordare che produce fogliame per tutta l'estate sino all'autunno, possedendo una ottima resistenza alla defoliazione, con notevole capacità di recupero se la specie è sottoposta a brucatura o taglio dei rami. In ambedue le specie coltivate, gelso bianco e nero, esiste una notevole variabilità, per dimensioni e quantità di fogliame, nonché per resistenza al freddo, alla salsedine, alla siccità ecc. Nel nostro ambiente è certo la specie più interessante tra tutte le perenni arboree da foraggio, anche se tale caratteristica è molto ignorata e, purtroppo, non usata nel nostro Paese, dove del resto era molto diffusa in passato per l’allevamento del baco da seta. Da queste piante, ormai vetuste, potrebbero essere ottenuti semi e talee per diffondere il suo uso foraggiero.

Il Carrubo, specie termofila, adatta ai suoli più ingrati del Sud d'Italia, è una leguminosa legnosa sempreverde, frequente nella macchia mediterranea delle zone più calde. Grazie al suo possente apparato radicale, largamente ramificato e capace di penetrare tra le fessure delle rocce ed avvolgere grandi massi, è una grande colonizzatrice anche di rupi. Era ritenuta da Savastano (1893) "la speranza dell'Appennino marittimo meridionale" caldo e sassoso. Benché di crescita decisamente lenta, è una pianta che può raggiungere una altezza anche di 15 m ed assolvere molto bene anche una funzione protettiva e produttiva, producendo un grosso legume con polpa molto ricca in sostanze zuccherine ed un seme assai apprezzato nell'industria dei gelati. L'opera di miglioramento genetico su forme nostrane ci potrebbe dare una pianta che lascia spontaneamente cadere il frutto maturo, rendendolo disponibile per il bestiame pascolante: del resto è un obiettivo già raggiunto dalla ricerca in Israele.

La Robinia è un'altra leguminosa di origine Nordamericana, ma ormai divenuta ubiquitaria in Europa, che riesce ad insediarsi e sviluppare, come cespuglio od albero, anche in suoli poverissimi. La Robinia è spesso ritenuta una pianta troppo invadente: possiede, infatti, sin dagli stadi giovanili, un apparato radicale fittonante e rizomatoso al tempo stesso ed è dotata di una fruttificazione molto copiosa. Si tratta di una specie che, proprio per queste caratteristiche (ritenute negative in determinate situazioni) può assolvere un ruolo di notevole importanza per dare una copertura alle nostre colline nude e pietrose e per consolidare sabbie e terreni proni a smottamenti. Le falde del Vesuvio trovano in questa leguminosa una preziosa pianta per mantenersi salde all'azione battente delle piogge. In Scandinavia si è rinunciato al suo uso in selvicoltura perchè le piante erano troppo appetite dai cervidi! Si può aggiungere che la Robinia è una pianta di notevole valore pabulare: si copre, difatti, di verde a partire dalla primavera sino all'autunno, cioè anche nei periodi estivi in cui il bestiame pascolante trova solo erba secca e povera. Esistono anche tipi non spinosi, che varrebbe la pena di diffondere. I numerosi e bianchi fiori sono tra i più positivi per quanto riguarda la produzione di miele di alta qualità. Inoltre, a causa dell'apparato radicale rizomatoso, la Robinia è tra le specie che meno soffre di danni dagli incendi, manifestando un vigoroso ricaccio, che si verifica anche poche settimane dopo tale infausto evento. In Ungheria è stato attuato un programma di miglioramento genetico di questa specie con risultati molto interessanti, con la selezione di vari tipi per i numerosi e vari usi possibili.

Le Viti americane sono varie specie (Vitis rupestris, V. berlandieri, V. riparia, V. labrusca ecc.) e numerosi ibridi tra queste specie, utilizzati oggi molto largamente in Europa come portainnesti resistenti alla fillossera, usati per innestare i vitigni europei produttori di uve da tavola e da vino. Oltre che alla fillossera, queste specie e questi portainnesti sono anche resistenti alla peronospora ed all’oidio. In molte aree abbandonate, in cui esistevano preesistenti vigneti effettuati con barbatelle innestate, la vite europea è morta per gli attacchi delle due malattie crittogamiche, ma i portainnesti sono sopravvissuti e si sono sviluppati con particolare vigore, occupando ampie aree con vegetazione fitta ed abbondante. Il fogliame di queste viti risulta essere molto appetito dal bestiame e di elevato valore foraggiero. In vari progetti FAO questi ibridi sono stati usati in Nord Africa anche per consolidare le dune e sono stati immediatamente utilizzati dai pastori locali anche come specie foraggiere. Specie lungo le autostrade, nell’Italia centrale e meridionale, arrampicate sulle recinzioni ai lati e sulle aree limitrofe, possono essere osservate vegetazioni abbondanti di tali ibridi. L’uso di queste specie ed ibridi in zone collinari abbandonate potrebbe essere fonte di ottimo pascolo, specie se associate con altre specie arboree ed erbacee di simile uso.

Altri interventi per la valorizzazione e la tutela del territorio.

Dopo queste considerazioni sulla utilizzazione di vasti territori collinari e montani attraverso il miglioramento dei pascoli e dei coltivi abbandonati, da attuarsi anche mediante l'impiego di alberi e arbusti foraggieri, bisogna puntare anche su altri interventi. I fondi disponibili vanno senza dubbio convogliati per effettuare sistemazioni e per varie opere, ma debbono essere destinati soprattutto per valorizzare e salvaguardare le risorse naturali e specialmente la copertura vegetale. Riteniamo, infatti, che sia fondamentale che, anche negli ambienti poveri, si manifesti l'esigenza che all'attività pastorale vengano dedicate adeguate attenzioni, tenendo sempre presente che la copertura vegetale e la sua utilizzazione svolge una funzione di primaria importanza per la difesa del suolo, per l’incremento della fotosintesi e l’organicazione della CO2 atmosferica.

Pertanto, per la realizzazione di un piano di sviluppo capace di dare frutti concreti e duraturi, contribuendo sostanzialmente al potenziamento delle risorse, anche se povere e che contribuisca al tempo stesso alla salvaguardia del territorio, è basilare che gli interventi siano ispirati ai seguenti principi:

a) Che le risorse siano utilizzate nel loro insieme, assicurando innanzitutto il rispetto dell'equilibrio del territorio ed una migliore regolarizzazione della base alimentare del bestiame, puntando sulle varie possibili risorse foraggiere indigene locali.

b) Che si abbia come obiettivo la istituzione di unità produttive che siano sufficientemente autonome, possibilmente con rapporti di complementarietà tra aree a diverso potenziale produttivo. La coesistenza - in ogni singola unità - di una adeguata superficie arativa (di fondovalle, di collina o del piano sottostante) con ampie aree a pascolo, collegate fra di loro da rapporti di complementarietà e di equilibrio, può contribuire in modo consistente a facilitare un razionale esercizio del pascolo ed una efficace produzione zootecnica.

Dovremmo quindi porci una serie di quesiti:

a) Quali potrebbero essere le soluzioni più indicate per una più razionale e più conveniente utilizzazione delle risorse disponibili?

b) Come debbono essere organizzati gli spostamenti degli animali da una zona all'altra in base all'andamento produttivo delle cotiche erbose e della vegetazione arborea utilizzabili?

c) Possiamo anche sviluppare allevamenti stanziali che possano contare su adeguate scorte prodotte localmente od in aree vicine?

In base alle particolari situazioni dei singoli ambienti si potrà propendere per uno o per altro tipo di organizzazione dell'impresa zootecnica, tenendo in considerazione tutti i fattori naturali, sociali ed economici caratteristici della zona, volta per volta, caso per caso.

Le soluzioni vanno ricercate a seconda delle situazioni locali. In genere, il problema delle Murge o di molti pascoli sardi si presenta in termini molto diversi da quello degli Abruzzi, del Matese o della Sila. In questi ultimi, ad esempio, il pascolamento può essere effettuato dalla primavera sino all'autunno, per sei mesi ed oltre, sempre su pascoli di buona potenzialità produttiva. Ciò nonostante, vediamo spesso cotiche non appieno utilizzate, se non addirittura in abbandono: infatti nella Sila si trovano pascoli che in genere danno foraggio ben equilibrato nei suoi costituenti (con una maggiore rappresentatività delle leguminose rispetto ai pascoli alpini, più ricchi di graminacee). Inoltre presentano una ottima reattività agli ordinati interventi di miglioramento che, se ben governati, possono assicurare produzioni consistenti. Nella montagna lucana, calabrese ed abruzzese dai prati-pascoli si ottengono facilmente i 50-70 quintali di sostanza secca per ettaro, rese queste, superiori a quelle raggiungibili dai pascoli dell'arco alpino di antica tradizione zootecnica. Infatti, in molte zone montane meridionali, rispetto al Nord, esistono condizioni, sotto vari aspetti, decisamente più favorevoli per l'insediamento di efficienti allevamenti, considerando fattori ecologici ed ambientali, ma sempre a condizioni ben determinate e determinabili:

A) Che il bestiame possa contare su una disponibilità di congrue scorte in campo (ad es. anche arbusti foraggieri) o conservate (affienate o, meglio, insilate) anche, come detto antecedentemente, con provenienza da circostanti superfici coltivate. A questo riguardo è da sottolineare che le foraggiere, specie se perenni, concorrono ad  annullare o per lo meno a ridurre, l'impiego degli interventi agronomici. Ad esempio, in successione ad erbaio o prato più volte affienati, i frumenti di norma non abbisognano o quasi di diserbanti. Non è da sottovalutare, inoltre, che, con le colture foraggiere, vengono spesso a ridursi le spese di lavorazione (vedi i prati poliennali) ed anche di concimazione (con l’adozione di leguminose).

B) Che nell'utilizzazione del seminativo si punti su indirizzi produttivi imperniati sull'inserimento dell'avvicendamento di foraggiere e segnatamente di leguminose, tenendo presenti i rischi che si corrono con la omosucessione di cereali, in relazione alla conservazione della fertilità del terreno ed al contenimento delle malattie e dell'invasione delle malerbe. E' questa una raccomandazione che torna quanto mai opportuna, considerando che i seminativi di molte nostre aree interne, specie nel sud, sono stati coltivati finora quasi esclusivamente con omosuccessione di frumento duro, con gravi conseguenze nei riguardi della fertilità e della difesa del suolo. Anche la PAC ha in passato contributo non poco in tal senso.

C) Che sia garantita la disponibilità di punti d'acqua di abbeverata, dislocati o da dislocare opportunamente nel territorio. Questa è un altro fattore che senza dubbio può e deve dare un contributo notevole ad uno sviluppo zootecnico ben articolato e distribuito, contribuendo anche a dare una stabilità economica alle popolazioni locali.

D) Che, quando si abbia la possibilità di disporre di superfici arative, l'attività pastorale non sia disgiunta, ma ben coordinata con quella agricola.

E) Che, pur rimanendo la pastorizia la struttura portante dell'economia delle aree a pascolo, non siano trascurate altre attività, che possano interagire con l'allevamento, quali la trasformazione e la vendita diretta dei prodotti.

Inoltre, l'Agriturismo, nonchè altre attività di possibile introduzione (coltivazioni di piccoli frutti, di zafferano, oltre ad apicoltura, elicicoltura ed eventualmente anche acquacoltura ecc.) possono contribuire non poco ad incrementare il reddito delle imprese. Quando è possibile bisogna infatti puntare su un uso produttivo plurimo del territorio e sulla commercializzazione diretta dei prodotti freschi e/o trasformati da parte della popolazione rurale. A questo riguardo è da ricordare che molte nostre colline e montagne sono anche ricche di specie aromatiche ed officinali, che potrebbero costituire cospicue risorse da valorizzare a favore delle popolazioni locali. Con l'utilizzazione di tutte le risorse possibili e con un impiego produttivo dell'impegno finanziario pubblico si possono realizzare, anche in zone intrinsecamente difficili, condizioni di vita adeguate a stabilizzare la popolazione ed a garantire la permanenza delle forze di lavoro rimaste e forse anche ad un ritorno di giovani che possono trovare nuove interessanti opportunità e condizioni di vita soddisfacenti nel territorio.

Per quanto riguarda l'utilizzazione di acque irrigue, va ricercata ogni possibilità di sfruttare le acque piovane, con il rilancio degli invasi collinari, aziendali, interaziendali o consortili. Si ritiene che in Italia almeno un milione di ettari di aree pedecollinari sia irrigabile con lo sviluppo di invasi, per un possibile totale di 2 miliardi di metri cubi d'acqua utilizzabile, specie nelle aree Appenniniche del Centro e del Sud, dove la maggior parte dell’acqua piovana finisce rapidamente e rovinosamente in mare. Per molte colline meridionali assolate ed aride, la disponibilità di acqua da invasi dislocati in quota dominante, in modo da irrigare le aree sottostanti per caduta naturale, evitando gli oneri di sollevamento dell’acqua da pozzi, potrebbe essere determinante per l'insediamento di valide imprese zootecniche, che trovino nel pascolo, integrato con foraggere e con colture da granella ad uso zootecnico (orzo, avena, triticale, favino, pisello proteico, lupino, soia ecc.), sicura ed efficiente base alimentare per gli allevamenti.

Valorizzazione delle popolazioni locali di animali domestici.

Insieme con la flora locale non va sottovalutato l'alto valore delle popolazioni animali indigene delle aree collinari e montane, specie nel Centro-Sud che, selezionate nei secoli dalle specifiche condizioni ambientali e valorizzate da tecnologie e tradizioni locali, possono costituire una base efficiente per la valorizzazione economica degli allevamenti anche in zone difficili. In molte di queste zone per fortuna sono presenti ancora popolazioni bovine ed ovicaprine di notevole valore genetico, che posseggono in modo spiccato un mirabile potere di adattamento. Tradizionalmente, nei mesi estivi nelle aree appenniniche erano presenti varie popolazioni bovine, prevalentemente da carne e da lavoro, derivate dalla popolazione podolica, proveniente nell’alto medioevo dall’Asia orientale e considerata come la popolazione più vicina all’Uro selvatico. Alla fine dell’800 e nel ‘900, sono state selezionate dal ceppo podolico, dal Nord al Sud, varie razze: la Modenese, la Garfagnina, la Romagnola, la Marchigiana, la Chianina, la Maremmana, la Pugliese-Calabrese o Podolica italiana, quest’ultime 5 facenti parte delle razze riconosciute pregiate “da carne”, il miglioramento genetico delle quali è svolto dall’Associazione Nazionale Allevatori dei Bovini Italiani da Carne (ANABIC).. Tutti questi biotipi presentano caratteristiche peculiari: rusticità, frugalità nell’alimentazione, prevalentemente derivata dal pascolo, notevole stazza e vigore fisico (massimo nella Chianina) con forte muscolatura idonea al consumo, resistenza a varie malattie. Lo sviluppo della meccanizzazione ha man mano causato una forte riduzione di questi bovini, insieme all’introduzione di altre razze specializzate per la produzione di carne, come la Charolais, usata anche per produrre ibridi F1 con più spiccata attitudine per la produzione di carne, specialmente con le razze Maremmana e Podolica. Attualmente l’Italia importa più della metà della carne bovina consumata, sia attraverso il cosiddetto “circuito vivo”: capi da ristallo e da macello importati dalla Francia ed altri Paesi. 

Un incremento della produzione di carne potrebbe molto convenientemente venire da un ricupero dei pascoli montani largamente disponibile nelle cosiddette aree marginali della dorsale appenninica, specie del Centro-Sud, con l’utilizzo di razze, che sono adatte a tali ambienti e che producono carne più consistente, più saporita e con più basso potere di ritenzione di acqua non solo, ma anche in maniera più economica in quanto l’Unità Foraggera non è “portata alla bocca dell’animale” – il che implicherebbe maggiori spese – ma è “presa” direttamente con il pascolamento. Altri ambienti potrebbero essere valorizzati. Ad esempio, il connubio tra la razza bovina da carne Maremmana ed il pascolo associato alla macchia mediterranea ci offre un esempio mirabile di razionale equilibrio tra bosco e pascolo, specialmente nell’area costiera tirrenica centrale.




Inoltre, con particolare riferimento alla Campania, la razza locale Agerolese (razza da latte), sui Monti Lattari, nel Napoletano, rappresenta un valido esempio di tipo perfettamente adattato alle 18 specifiche condizioni ambientali e, riguardo all'alimentazione, in coesistenza con il bosco locale. Per quanto riguarda altre specie, restringendo il nostro sguardo, ad esempio, al solo Sannio, possiamo ricordare, tra gli ovini, varie specifiche popolazioni locali: la "Laticauda", la "Quadrella", la "Matesina", la "Pagliarula" e, tra i suini, la razza "Casertana". A proposito di quest'ultima specie, non è forse fuor di luogo ricordare il lavoro svolto dai cinesi che hanno puntato su razze suine di varia taglia, con spiccate attitudini alla utilizzazione alimentare di vari foraggi verdi e su tipi di allevamento semibrado in cui il suino, oltre che fonte di cibo e di ricchezza, è fonte di fertilità e non di inquinamento del territorio. Un pari esempio, è stata usata, in Calabria, una razza suina nera locale – la cosiddetta “Apulo-Calabrese” – razza frugale ed adatta ad un tipo di allevamento brado, molto valida per la produzione di rinomati insaccati tipici. Nel contesto della valorizzazione delle terre marginali, anche una rivalutazione di altre specie, come asini, capre, (purtroppo spesso messe al bando dai regolamenti forestali) potrebbero dare una mano ad una più conveniente utilizzazione di foraggi non idonei per l’alimentazione di specie più esigenti.

Integrazione della montagna con la pianura.

Premesso quanto sopra, è forse superfluo ancora sottolineare il fatto che qualsiasi attività connessa con la ristrutturazione del territorio debba necessariamente partire dalla montagna: si può affermare che nel nostro Paese non vi sia valle, collina o piano che non subisca direttamente o indirettamente una influenza del sistema montano dell'arco alpino o della catena appenninica. I nostri monti hanno certo paesaggi di incomparabile bellezza; ma hanno anche un estremo bisogno della continua opera dell'uomo, la cui presenza attiva è fondamentale per esercitare una assidua azione di protezione delle risorse idriche e terrestri, per portare ricchezza, anziché rovina, anche alle aree a valle. Bisogna quindi intervenire sistematicamente sui territori montani con una serie di opere rivolte a regolamentare i corsi d'acqua, per rallentare ed imbrigliare il deflusso delle acque di ruscellamento, specie ove siano presenti aree declivi argillose che possono originare frane ed estesi calanchi argillosi, come avviene in estese aree del Centro e Sud Italia.

Non bisogna mai perdere di vista il fatto che nella pianificazione della utilizzazione di qualsiasi territorio rimane intima la correlazione che lega la montagna alle aree sottostanti. A questo riguardo è da sottolineare che in molti ambienti del nostro Paese la montagna incombe minacciosa: la Calabria e la Liguria sono, per antonomasia, le regioni delle catastrofi, delle rovinose alluvioni. Fiumi e torrenti, mediamente uno per ogni 4-5 chilometri di costa sono, specie d'inverno, sovente causa di disastrose alluvioni, mentre, nel periodo estivo divengono ampie, deserte e sassose "fiumare". Circa l'intensità delle precipitazioni, è da ricordare, ad esempio, che nel 1951, in tre giorni, sono caduti in buona parte della Calabria 1.500 mm di pioggia, con effetti devastanti. Recentemente si sono moltiplicati tali eventi.

In definitiva, in varie aree montane, una serie di condizioni negative (terreni franosi, andamento termico caratterizzato da inverni lunghi e rigidi, difficoltà di utilizzazione del territorio e della macchia in particolare) anche se attenuate da fattori positivi (una  più intensa luminosità, una più abbondante e meglio distribuita piovosità) sono diretta causa di disagiate o povere condizioni economico-sociali e del conseguente esodo della popolazione rurale. L'esodo agricolo verso le terre di piano ha sino ad oggi contribuito a facilitare l'instaurazione di nuovi equilibri produttivi, con rese su cui, come in passato, non pesano più forze di lavoro in eccesso (con conseguenti alti costi di produzione) e quindi competitivi con altri Paesi ad agricoltura avanzata, anche se favoriti da più ampie disponibilità di zone fertili di pianura.

Tutto ciò, da tempo, sta favorendo una tendenza che sta prendendo dimensioni tali da richiedere un controllo e possibilmente anche una inversione di tendenza, al fine di evitare squilibri tra disponibilità e bisogno di manodopera. Ciò vale particolarmente per la montagna, in cui l'esodo delle forze più giovani ed attive è stato recentemente massiccio ed in cui l'abbandono sta portando conseguenze sempre più gravi, sia economiche che sociali, ma anche, come già sottolineato, in ordine alla conservazione del suolo sia della montagna che dei territori a valle. Il problema della montagna, considerata la sua notevole incidenza sul territorio del nostro Paese, è un problema nazionale di enormi dimensioni per la nostra economia, che col passare del tempo, sta divenendo sempre più pressante ed importante. Bisogna identificare anche nuove iniziative per mantenere vitale ed attiva la montagna. Certo, un turismo attivo e culturalmente avanzato, inserito in un equilibrato contesto con le altre attività, può dare una mano molto importante alla economia delle popolazioni montane. Ma non sono da sottovalutare i contributi produttivi in relazione alle produzioni forestali ed agricole in genere e soprattutto alla produzione foraggiera, non solo pabulare, ma anche prativa, per l’allevamento in condizioni ambientali ideali di greggi, manze fattrici, vitelli da ristallo, per la produzione di carne e latte di alto pregio, preziose fonti di reddito.

A questo punto può essere utile fare un rapido cenno al modello di allevamento bovino da ingrasso attuato in Austria, che si basa sulla piena integrazione delle risorse della parte orientale (costituita quasi completamente dalla pianura pannonica, coltivata a cereali, foraggiere, bietola, patata, etc.) con quella, in prevalenza montana, della parte occidentale (utilizzata come pascolo, da maggio a settembre), dove i vitelli nati nei mesi invernali vengono allevati "in loco" e poi mandati al pascolo nel periodo estivo e venduti in autunno agli allevatori di pianura. Il successivo ingrasso, attuato durante l'inverno, viene condotto appunto nelle aziende di pianura a cereali ove sono diffuse colture che, d’inverno, richiedono minore impegno continuativo di personale e che hanno larga disponibilità di prodotti e sottoprodotti foraggieri. Questo tipo di organizzazione ed utilizzazione del territorio, è stato incoraggiato con una serie di incentivi da parte del locale Ministero dell'Agricoltura ed è stato determinante per un equilibrato e complementare sviluppo zootecnico dell’Austria.

Torna sempre a riproporsi l'antico problema della integrazione della produzione e dell'economia della montagna con la pianura, argomento di basilare importanza, specie nel nostro Paese. Ma è bene ribadire fin d'ora che l'inserimento delle colture foraggiere ricche di proteine negli ordinamenti colturali della pianura a favore degli allevamenti in terre montane non solo servirebbe ad esercitare una notevole influenza sulla crescita economica di vaste terre marginali, ma anche a dare vitalità alla fertilità dei terreni sempre più depauperati dalla omosuccessione a cereali.

Sino ad alcuni decenni or sono si erano stabiliti razionali equilibri fra seminativo, pascolo e bosco: con l'adozione di un relativamente efficiente sistema agro-silvopastorale, per cui il bestiame trovava alimento per pascolamento durante quasi tutto l'anno. L’uso delle riserve alimentari ed il contributo di mangimi basati su granella di orzo, mais e proteaginose erano ridotti al minimo. L’incremento della popolazione, della domanda di cibo, lo sviluppo della meccanizzazione e la intensificazione colturale hanno rotto questo antico equilibrio. In riferimento ad aree dell’Appennino centrale, è da ricordare che i pascoli abruzzesi hanno rappresentato per millenni la base della transumanza ovina tra l'Abruzzo e le pianure del Tavoliere e dell'Agro romano.

Oggi questa forma di utilizzazione è praticamente cessata, anche perché le trasformazioni fondiarie delle pianure hanno eliminato le aree a pascolo per il transito delle greggi, che oggi sono state eventualmente sostituite col trasporto con camion. Occorre trovare nuovi equilibri, specie per evitare l'aggravarsi dello squilibrio tra zone agricole favorite e zone marginali o difficili. Sarebbe un grave errore puntare solo su un'ulteriore intensificazione dell'agricoltura ricca, trascurando il recupero delle terre marginali. Infatti è necessario impegnarsi non soltanto per sviluppare le capacità intrinseche delle aree ricche, ma anche e soprattutto per eliminare gravi squilibri socio-economici nell'ambito del territorio, inducendo emigrazione ed urbanesimo selvaggi.

L'impegno politico ed operativo va rivolto principalmente verso quelle zone che, per una serie di vincoli ambientali, tecnici e socio-economici (clima, fertilità, giacitura, dimensione fondiaria ed aziendale, carenza di infrastrutture, stato di insicurezza) si trovano in uno stato di crescente inferiorità rispetto alle aree più fertili e favorite da una più felice collocazione ambientale. La crescita economica delle terre marginali potrà esercitare senza dubbio una diretta influenza sull'ulteriore sviluppo anche delle zone più fertili e, al tempo stesso, servirà a preservare un inestimabile patrimonio di valori sociali, culturali ed ambientali.

Il problema di fondo che bisogna porsi è quello di un profondo rinnovamento della nostra agricoltura nel quadro di una visione programmata generale della gestione del territorio. Per evitare l'aggravarsi dello squilibrio fra zone favorite e zone difficili bisogna proporre interventi, prevedere strutture capaci di rilanciare la produzione e la trasformazione dei prodotti agricoli. S'impone la stesura e l'attuazione di un programma in ogni Regione per proseguire a tappe successive verso un processo di riconversione.

Come già precedentemente accennato, l'approvvigionamento idrico è, in diverse situazioni, fondamentale. L'acqua diviene spesso elemento limitante ogni proposta per lo sviluppo del territorio. Da ciò discende la necessità della captazione di sorgenti e dell'individuazione di pozzi.

Inoltre, per un effettivo e duraturo recupero delle terre marginali é basilare assicurare a queste zone una sufficiente presenza umana, la cui quotidiana opera è fondamentale per il mantenimento e per la difesa dell'ambiente. Da ciò consegue la necessità di strutture di gestione ben determinate e funzionanti. Si tratta di rimuovere i principali inconvenienti, particolarmente in relazione alla onerosità del lavoro ed all'isolamento sociale ed economico: condizioni, queste, rese a volte ancora più difficili dalla severità dell'ambiente climatico. Si perviene, pertanto, alla necessità di dotare il territorio di una serie di servizi e di infrastrutture (anzitutto gli indispensabili servizi sociali, la viabilità rurale, le idonee residenze, la disponibilità di elettrodotti, acquedotti, recinzioni, abbeveratoi, regimazione delle acque ecc.) la cui assenza o carenza sono le principali cause che portano all'esodo che ha costituito la caratteristica delle terre marginali: sono questi interventi che potremmo definire propedeutici a tutta la serie degli altri interventi.

Terra pubblica, Università agrarie e Comunità montane.

La eventuale presenza di estese superfici di terra pubblica (oltre alle cosiddette “Università agrarie”) può e deve giocare un ruolo di primaria importanza per le dotazioni infrastrutturali del territorio, particolarmente per quanto riguarda la sistemazione idraulico-agraria del terreno, l'utilizzazione dell'acqua e la viabilità. Tutto ciò può costituire la base fondiaria, l'ossatura portante per la programmazione dello sviluppo dell'economia di molte zone, allo stato attuale incolte o mal coltivate e dare alla proprietà collettiva, nella scelta degli interventi, gli obiettivi di un incremento degli investimenti e, al tempo stesso, dell'occupazione. Tutto ciò a condizione che specialmente le Università agrarie non continuino ad essere oggetto di puro sfruttamento individuale delle risorse del territorio. Si tratta di gestire in modo non più arcaico oltre 6 milioni di ettari, di cui circa 4 milioni in montagna ed il resto in collina ed in pianura. Una ristrutturazione moderna delle Università agrarie, su basi cooperative o consortili, che programmino, con le Comunità montane, investimenti collettivi per una razionale ed efficiente utilizzazione della terra pubblica, può rappresentare la struttura portante per il rilancio di una nuova politica di sviluppo, la base fondiaria per nuove imprese cooperative che associno vasti strati di produttori, agglomerando i fattori di produzione per una serie di attività plurime, articolate ed integrate.

La costituzione di imprese silvo-pastorali, da parte delle Comunità montane, anche nelle situazioni più difficili di alta montagna, potrebbe rappresentare una via sicura per l'insediamento di un processo produttivo economico stabile, garantendo al personale coinvolto una continuità occupazionale. Inoltre, l'attuazione di una gestione unitaria potrebbe essere la base della preconizzata stretta integrazione fra la zootecnia di valle e di monte. Le terre pubbliche, ivi comprese le terre di uso civico o di altre forme di proprietà collettiva finora indivisibili ed inalienabili, hanno rappresentato nel passato un modo proprio ed una migliore dimensione a garanzia della difesa del suolo, della protezione dell'ambiente e del tessuto economico-sociale delle popolazioni montane. Ma allo stato attuale quei vincoli giuridici, che trovavano un tempo una valida giustificazione, non sono più ammissibili. Sono vincoli giuridici che inchiodano all'arretratezza e ad una utilizzazione di rapina del territorio, ad un uso promiscuo che altro non è se non un modo arcaico di produzione, proprio di una economia selvaggia e profittatrice, di sfruttamento. Si impone una diversa gestione di queste terre anche mantenendo la forma della proprietà pubblica: è questo un problema che va affrontato e risolto per molte aree del nostro Paese.

Una diversa e razionale gestione di queste terre può agevolare anche l'utilizzazione zootecnica della montagna, nell'ambito della preconizzata integrazione con la sottostante pianura e può rappresentare una concreta occasione di lavoro che possiamo offrire ai giovani che intendono accedere o restare attaccati alla terra. E’  anche una occasione per aumentare la produttività del lavoro e per liberare il lavoratore agricolo dalla precarietà e dal diffuso atteggiamento di rifiuto di certe attività considerate oggi dequalificate e squalificanti.

Per una agricoltura che abbia un futuro, bisogna contare innanzitutto sull'inserimento di nuove energie: il recupero produttivo delle nostre terre non è realizzabile senza il contributo di forze giovanili. L'indice di invecchiamento degli addetti al settore agricolo è alto in quasi tutti i Paesi della Comunità europea ed è particolarmente elevato nel nostro Paese, dove circa il 75% degli addetti ha un'età superiore ai 50 anni. Negli ultimi decenni molti milioni di addetti, tra cui moltissimi giovani, hanno lasciato l'attività agricola e per molte zone interne l'esodo ha significato anche l'abbandono spesso definitivo del territorio. Il nostro pensiero va a quello che potrà un domani rappresentare anche in queste aree interne un'agricoltura in cui venga garantita una migliore qualità di vita ed in cui i giovani, concretamente inseriti in un efficiente processo produttivo, possano trovare anche in strutture pubbliche non più un degradante sussidio, ma effettive possibilità di migliorare la propria preparazione, di raggiungere un alto livello professionale ed anche arrivare a sviluppare una vitale imprenditoria privata, favorita anche da una moderna liberalizzazione dell’affitto, per favorire l’allargamento delle aree utilizzabili. Non dimentichiamo, inoltre, che per avere un'agricoltura agile e moderna, per ribaltare la situazione attuale, occorre innanzitutto superare i gravi inconvenienti derivanti dallo stato di frammentazione e polverizzazione fondiaria.

Soprattutto sotto questo aspetto, particolare attenzione dovrà essere riservata alle iniziative di cooperative e di forme associative avanzate per la scelta di indirizzi produttivi programmati per il conseguente razionale impiego dei mezzi tecnici necessari, per lo svolgimento di efficaci iniziative nell'orientamento economico delle imprese. Con la realizzazione di nuove strutture operative si può pervenire ad una agricoltura che ha tecnici ed imprenditori "tali per volontà e capacità" e non più soltanto per eredità o necessità e anche allo sviluppo di un'adeguata e programmata attività sperimentale, da svolgere "in loco".

Non si dimentichi che le risultanze di prove di campo potranno essere di valido orientamento per una concreta scelta delle direttive da seguire nella programmazione dello sviluppo delle attività agro-silvo-pastorali. Queste potranno rappresentare per l'autorità pubblica regionale uno dei più efficienti strumenti per intervenire in modo produttivo e non assistenziale nell'incentivazione delle produzioni e nell'impiego della mano d'opera.

Scienza e Tecnica

Per il miglioramento e la ricostituzione delle varie sorgenti pabulari un ruolo preminente va assegnato alla ricerca sperimentale, da svolgere necessariamente "in loco", con l'istituzione di adeguate basi territoriali negli ambienti più rappresentativi. Dall'accertamento del valore agronomico ed alimentare delle essenze più interessanti, dei loro meccanismi di produzione, della velocità di ricrescita della vegetazione dopo pascolamento e del modo di riprodursi, si traggono elementi basilari che ci possono consentire di ben governare i prati ed i pascoli, di riconoscere ed eliminare le specie infestanti e quelle dannose, di accertare se la flora abbia o  meno capacità di auto-ricostituzione e di stabilire le più convenienti modalità di miglioramento delle produzioni foraggiere. Questi studi possono consentire anche di individuare ecotipi locali da scegliere come materiale di partenza per l'ottenimento di cultivar con spiccate caratteristiche di adattamento alle condizioni climatiche dei singoli ambienti. Lo studio e la ricerca degli ecotipi locali è una via da percorrere, non solo perchè una approfondita conoscenza della flora spontanea dà frutti a breve scadenza, anche in relazione alle norme da seguire per un razionale pascolamento, ma anche perchè può costituire una base di partenza per un concreto miglioramento delle rese di molte terre ed una fonte di reddito locale rappresentato dalla produzione sementiera. L'isolamento e la valutazione di ecotipi di leguminose, di graminacee e di essenze di altre famiglie da traseminare nei pascoli in avanzato stato di degradazione, può essere un aiuto determinante nell'opera di miglioramento di cotiche depauperate.

Quando la copertura vegetale è compromessa oltre certi limiti o, addirittura, è inesistente, il rinfittimento mediante trasemina è, di fatto, l'unico intervento cui affidarsi per ottenere produzioni pabulari. Inoltre, quando il pascolo presenta una composizione di scarsa potenzialità produttiva, il ricorso a essenze di maggior pregio è un intervento che può efficientemente contribuire al ripristino della cotica erbosa. Da ciò l'importanza di poter avere la disponibilità di sementi selezionate di specie e cultivar da utilizzare in tali situazioni.

Allo stato attuale, purtroppo, non sono facilmente reperibili sul mercato sementi di cultivar di foraggiere nostrane adatte al miglioramento dei nostri pascoli, anche perché, per una serie di motivi economici e politici, la produzione del seme è praticamente quasi inesistente. Pertanto, per soddisfare le nostre eventuali richieste, siamo spesso costretti a ricorrere a sementi prodotte all'estero, quasi sempre ottenute in condizioni ambientali profondamente diverse dalle nostre e quindi non idonee allo scopo. Ma, nonostante le difficoltà nella produzione e nella commercializzazione di sementi di foraggiere, difficoltà che speriamo vengano superate nel prossimo futuro, è urgente allestire una serie di nuove varietà di foraggere adattabili alle diverse condizioni pedoclimatiche delle nostre aree collinari e di montagna. 



La fioritura delle lenticchie  a Castelluccio  di Norcia, nel Parco Nazionale dei Monti Sibillini.

Lo studio della flora locale dovrebbe costituire la base di partenza per impiantare "in loco" anche varie prove sulla forestazione produttiva, (in collaborazione con gli esperti forestali, che dovrebbe aprirsi anche alla coltivazione di specie non esclusivamente legnose), tematica di grande importanza applicativa e di cui tanto si parla, ma su cui in concreto poco si sta operando, salvo qualche lodevole caso. D'altro canto, non è pensabile di poter trasferire direttamente i risultati di tali ricerche da altri ambienti.

Con la istituzione di basi territoriali sperimentali "in loco", negli ambienti più rappresentativi, si può affrontare lo studio sulla leguminosa legnosa di provenienza locale o meglio da introdursi, quali ad esempio la Medicago arborea, varie specie di Acacia, varie cultivar di Gelso, di Vite americana ecc., al fine di creare una più efficiente biodiversità per la conservazione della fertilità del suolo e per dare foraggi ed alimenti al bestiame. A questo riguardo è da sottolineare che le formazioni boschive ed arbustive del bacino mediterraneo, come di altre regioni temperate, sono povere di specie di leguminose legnose: oltre al carrubo, alla robinia, alla ginestra di Spagna (Spartium  junceum), ad alcune specie di Cytisus, al ginestrone (Ulex europaeus), alla ginestra (Genista tinctoria), al Cercis siliquastrum ed a poche altre specie, la macchia ed il bosco sono poveri di leguminose legnose, dotate di fogliame utile. Purtroppo, nella nostra flora non abbiamo specie indigene del tipo Acacia e Prosopis, il cui ruolo è di fondamentale importanza per il mantenimento di un efficiente ecosistema nelle terre più difficili dell'Africa, delle Americhe e dell'Australia. Questi sono temi di ricerca che possono assumere una notevole importanza per la valorizzazione di vasti territori che vanno sempre più spopolandosi. Né vanno trascurati studi e ricerche su altre specie legnose del tipo Ontano (Alnus spp.) ed olivello spinoso (Hippophae rhamnoides), le cui radici sono dotate di nodosità simbiontiche con batteri che permettono di fissare l'azoto dell'aria, con un processo simile a quello delle leguminose. Anche sotto questo aspetto non è da trascurare la ricerca volta a rintracciare piante da introdurre da ambienti analoghi e che potrebbero valorizzare vasti territori poveri.

Un pascolo perenne costituito da piantagioni di prato-gelso, di viti americane resistenti ad oidio, peronospora e fillossera, di robinia, ecc. piantato in aree collinari e submontane difficili, potrebbe rapidamente valorizzare tali aree oggi improduttive ed abbandonate. Ne consegue la necessità di avere disponibili nuovi criteri di conduzione, di avere la possibilità di far ricorso ad una continua innovazione tecnologica. Pertanto e soprattutto, la sperimentazione e la formazione professionale dovranno essere delegate ad assolvere un ruolo di primaria importanza.

Per quanto riguarda l'utilizzazione del cespugliato e del bosco ai fini zootecnici, si tratta di trovare le modalità più razionali per conciliare le esigenze delle essenze legnose con quelle della cotica erbacea, nel rispetto di determinate norme. Da ciò deriva l'importanza che, anche e soprattutto su questi argomenti, vengano eseguite esperienze "in loco" programmate e seguite da Istituti di ricerca con l'assidua collaborazione di tecnici specializzati.

L'intervento di specialisti è determinante: le prove sperimentali vanno seguite con continuità e con il massimo impegno da parte dei tecnici a tale scopo designati. L'impegno dei tecnici dovrebbe essere continuo: basti pensare all'assistenza tecnica nella utilizzazione dei pascoli negli allevamenti, che non conosce sosta. A questo punto riteniamo opportuno cogliere l'occasione per richiamare l'attenzione sulle difficoltà che la sperimentazione incontra nell'espletare la propria attività nelle zone difficili e povere.

Comunque, senza la presenza di tecnici non può adeguatamente essere affrontata tutta la complessa tematica sulla utilizzazione dei pascoli. La mancanza di basi territoriali nelle zone più rappresentative e di personale specializzato, non dà la possibilità di affrontare indagini e soddisfare le richieste di intervento e tanto meno di dare agli operatori locali una mano al trasferimento delle nuove acquisizioni sul piano operativo. E’ quindi anche urgente la formazione di esperti da immettere nel processo produttivo.

La Formazione e la Valorizzazione del Personale tecnico.

Spesso, purtroppo, la direzione di servizi tecnici e specifici del settore agricolo, è affidata a professionisti o burocrati privi di competenza in agricoltura. E’ anche amaro constatare che progetti, piani di sviluppo, relazioni tecnico-agrarie spesso non sono affidati ad agronomi o a forestali, ma a pseudo esperti improvvisati od a pseudo ecologisti incapaci di individuare non solo i problemi, ma anche le soluzioni più importanti per lo sviluppo di un territorio.

L'intervento degli architetti, ad esempio, non va certo escluso a priori; ma quando si tratta della valorizzazione delle risorse naturali, dei pascoli, dei boschi, dei seminativi, va dato adeguato spazio ad autentici e specifici esperti, cioè a dottori agronomi e forestali. Solo a questi professionisti va riconosciuta specifica competenza per valorizzare appieno le risorse agro-silvo-pastorali, nella tutela del territorio. Chi andrebbe da un avvocato per operarsi anche solo di appendicite? Del resto esiste già un grosso patrimonio di personale tecnico competente che va utilizzato e non lasciato a languire fra scartoffie inutili, alle dipendenze talvolta di dirigenti burocrati ed incompetenti.

L'agronomo ed il forestale, adeguatamente preparati e ben consapevoli che qualsiasi risorsa ambientale e soprattutto il terreno, base primaria delle produzioni, è un bene finito e, pertanto, da non sprecare od alterare, debbono essere i protagonisti nelle determinazioni, nelle scelte dagli interventi di politica territoriale e nella loro attuazione. Solo a chi ben conosce il mondo della natura e dell'agricoltura va affidato il compito di predisporre quegli strumenti di tutela dell'ambiente in modo che la società possa affrontare con serenità la grande sfida tecnologica e sociale che si presenta in questo terzo millennio.

La classe politica e dirigente degna di questo nome non deve cercare il consenso soltanto dei cittadini odierni, ma anche di quelli che nel prossimo futuro dovranno gestire il territorio anche per la  salvaguardia dell'ambiente, su scelte decise in questo delicato periodo di grande evoluzione. Si ricorda inoltre che i problemi ecologici sono sempre strettamente legati allo sviluppo economico. Bisogna lavorare con le popolazioni locali per sensibilizzarle verso una economia equilibrata e ciò deve avvenire attraverso il coordinamento dei diversi Enti accentratori di competenze e, in generale, delle autorità pubbliche, per una integrazione della politica ambientale con una precisa unitarietà di gestione.

Quando si cerca di risolvere i difficili problemi dell'ambiente, di solito emergono due concezioni antitetiche: la prima utilitaristica, tendente a considerare l'ambiente come sede di risorse da sfruttare ai fini dell'ottenimento del massimo economico, la seconda naturalistica, tendente a conservare il territorio tal quale, senza interventi, né utilizzazione. Invece, bisogna sempre saper conciliare la produzione agricola ed alimentare, basata su opportune scelte tecnologiche, con la salvaguardia del territorio. L'uomo deve saper rinunciare a qualche prospettiva economica a breve termine che possa compromettere l'equilibrio biologico naturale. Deve difendere il suolo dalle frane, dalle alluvioni nonchè da sostanze tossiche prodotte localmente od altrove. Deve mantenere sana l'aria, pure e pescose le acque e pur non rinunciando alla tecnologia, deve saper garantire la piena tutela dell'ambiente contro le insidie di possibili inquinamenti e di gravi alterazioni ambientali.

 Si approfitti del mutamento di mentalità da parte di quei politici che finalmente hanno capito i vantaggi della conservazione della natura e che stanno dando spazio alla riscoperta delle risorse ecologiche del nostro Paese! Ormai i problemi della tutela ambientale sono affrontati dando all'ecologia quel peso che merita, non solo sotto il profilo dell'integrità ambientale e della salute, ma anche dal punto di vista economico: erosione del suolo, disboscamento, estinzione di specie vegetali ed animali, diffusione di prodotti inquinanti, che sono causa di alterazioni ambientali e di enormi danni economici; ma al tempo stesso è da aggiungere che è giunta l'ora perchè il progresso non sia misurato soltanto in termini di crescita economica, ma, per essere vero, sia misurato anche in termini di qualità della vita.

 Infine, si ricorda che, oltre alla salvaguardia ed alla valorizzazione dei beni naturali ed ambientali con riferimento al suolo, all'acqua, alla flora e alla fauna, va rivolta una particolare attenzione alla tutela e alla conservazione del ricco patrimonio colturale delle popolazioni locali e segnatamente del mondo pastorale, un mondo che ormai sta quasi scomparendo. Proprio dai pastori sono state tratte, in tutto il mondo, preziose informazioni sul mondo vegetale ed animale: il mondo pastorale è stato ricco di cultura che i tecnici hanno da tempo valorizzato e debbono ancora valorizzare al massimo. In passato ogni pastore professionista conosceva a menadito le specie pabulari del suo territorio, sapeva apprezzare l'appetibilità ed il valore nutritivo di ciascun specie, in relazione anche a questo o a quell'animale pascolante, conosceva il momento del risveglio vegetativo delle singole specie, i loro ritmi vegetativi e particolarmente di tutte quelle fasi (sviluppo della biomassa, fioritura, formazione dei frutti, caduta delle foglie, caduta dei frutti e dei semi) che tanta influenza esercitano sulla gestione e sul sostentamento del bestiame pascolante. Purtroppo la figura del pastore “self made” di un tempo, tranne in alcune aree (come in Sardegna, ed in alcune aree appenniniche ed alpine) è scomparso, talvolta sostituito da pastori di origine balcanica o nord africana, certo non esperti della nostra flora e del nostro clima e delle nostre tradizioni. Sarebbe tempo di stabilire, anche se con grande ritardo, delle scuole per “pastori”, forse la classe ritenuta oggi la più infima dalla attuale società, da formare come “Operatori zootecnici ed ambientali”. Dovremmo stabilire un corso pluriennale, dopo le scuole medie inferiori, affidato ad insegnanti qualificati: agronomi esperti della gestione dei suoli, delle specie pabulari e di gestione razionale dell’ambiente; veterinari esperti in malattie e parassiti delle specie erbivore economicamente più importanti; da esperti nella conservazione e processamento del latte e della carne e da esperti nella commercializzazione dei prodotti ottenibili.

Questi Operatori zootecnici ed ambientali dovrebbero divenire i nuovi e qualificati gestori dello sviluppo pastorale e zootecnico, del controllo e della gestione dei territori delle aree montane e marginali, oggi preconizzato e necessario: i nuovi pastori, ma con cognizioni, dignità e prestigio atti a sviluppare l’utilizzazione e la valorizzazione dei vasti territori interessati del nostro Paese.

 

ALESSANDRO BOZZINI

Già professore di genetica, costitutore del grano Creso. Dirigente ENEA e per molto tempo in FAO Direttore del Dipartimento di Produzioni Vegetali. (1933-2023)

 

1 commento:

  1. Questo articolo come molti altri dimostrano che la valorizzazione e la salvaguardia del territorio non è un problema tecnico - anche nelle situazioni più estreme - ma di scelte politiche che puntino davvero alla alla valorizzazione ed alla salvaguardia.

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