di ALFONSO PASCALE
L'emblema della Repubblica Italiana è caratterizzato da tre elementi: la stella, la ruota dentata, i rami di ulivo e di quercia. Il ramo di ulivo simboleggia la volontà di pace della nazione, sia nel senso della concordia interna che della fratellanza internazionale. Il ramo di quercia che chiude a destra l'emblema, incarna la forza e la dignità del popolo italiano. Entrambi sono espressione delle specie più tipiche del nostro patrimonioarboreo. Fonte: Quirinale |
Una Costituzione di valori più che di norme
Il testo costituzionale, votato il 22 dicembre 1947 dall’Assemblea costituente, promulgato il 27 seguente ed entrato in vigore il 1° gennaio 1948, fu il frutto della convinta sintonia tra forze politiche diverse di pervenire ad un impianto costituzionale fondato sulla comune sensibilità solidaristica e vocazione sociale. S’incontrarono diversi solidarismi: l’umanesimo socialista, il collettivismo comunista e il solidarismo cattolico. Era un incontro basato su un prevalente fine comune: l’emanazione dal popolo di tutti i poteri dello Stato e un conseguente radicale rinnovamento sociale (Di Nucci L., 2016). Come scrisse Piero Calamandrei, “per compensare le forze di sinistra della rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella costituzione una rivoluzione promessa” (Calamandrei P., 1966). Se i principi generali, delineati nella prima parte della Costituzione, indicavano con la necessaria indeterminazione i vasti futuri orizzonti su cui avevano raggiunto un accordo le varie forze politiche, gli assetti su cui si era giunti ad una intesa riguardo alla seconda, la parte organizzativa dei poteri, si dovevano dimostrare estremamente incerti e problematici (Romanelli R., 2023).
Questa caratterizzazione della nostra Carta non dipese solo dalla debole cultura costituzionalista delle principali forze politiche italiane, ma anche dall’esito del secondo conflitto mondiale. Esso segnava, infatti, l’affermazione a livello planetario, anche se solo sul piano ideale, dei principi del costituzionalismo come principi tendenzialmente universali.
La Costituzione italiana esprime pienamente lo spirito del nuovo costituzionalismo internazionale. L’art.11, col ripudio della guerra e l’accettazione delle “limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”, insieme alla clausola internazionalistica dell’art.10, secondo cui “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”, ha rappresentato e rappresenta l’affermazione di questo connotato della Costituzione. Non a caso il diritto europeo si è virtuosamente integrato nel nostro tessuto costituzionale.
Ma anche i suoi contenuti fondamentali, come la dignità da riconoscere e salvaguardare in ogni essere umano, la concezione per cui lo Stato è per la persona e non viceversa, l’esistenza di un nucleo intangibile di diritti di libertà dell’individuo e di diritti collettivi che li integrano, il principio di eguaglianza inteso sia come divieto di discriminazioni sia come godimento effettivo dei diritti fondamentali, i doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale, si collocano in una dimensione che va molto al di là dell’esperienza del nostro paese.
L’art. 44 – la norma costituzionale che affronta il tema dell’agricoltura – esprime, al pari dei principi fondamentali e delle altre disposizioni riguardanti i diritti e i doveri dei cittadini, indicazioni di carattere universale. Esso deve, pertanto, essere letto non solo in riferimento ai problemi specifici del nostro paese e del periodo in cui la Costituzione è stata promulgata, ma guardando all’oggi e al domani oltre che al contesto globale.
La “funzione sociale” nella Costituzione e gli scopi dell’art. 44
Le finalità della norma costituzionale riguardante l’agricoltura sono due: “conseguire il razionale sfruttamento del suolo” e stabilire “equi rapporti sociali”. Con il linguaggio di oggi, tali scopi si possono così enucleare: “curare la qualità del paesaggio” e “assicurare una vita dignitosa a ciascun essere umano”. Per raggiungere i due fini, sono poi elencati, a titolo esemplificativo e non esaustivo, alcuni strumenti: fissare obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata e porre limiti alla sua estensione, imporre la bonifica delle terre e la trasformazione del latifondo, riconoscere l’importanza della piccola e media proprietà terriera, sostenere e valorizzare la montagna. Spetta al legislatore sostituire nel tempo questi strumenti o aggiungerne altri a piacimento per conseguire i due scopi che restano i valori di fondo che la Costituzione intende proteggere (Graziani C.A., 1985).
Le due finalità sono specificazioni – riservate esclusivamente all’agricoltura – del più generale riconoscimento della libera iniziativa economica di cui all’art. 41 e dello statuto della proprietà contenuto negli artt. 42 e 43 (Desideri C., 1985).
Se la libera iniziativa economica deve indirizzarsi a fini sociali, così come prescritto dall’art. 41, e i limiti, le modalità di acquisto e godimento della proprietà privata, la costituzione e l’esercizio di altre forme di proprietà devono essere tali da assicurarne la funzione sociale, come indicato dagli artt. 42 e 43; se, in altre parole, ogni forma di intrapresa economica e di esercizio delle prerogative proprietarie debba perseguire sempre e ovunque un fine sociale, nel caso in cui la libera iniziativa economica riguardi l’agricoltura e l’assetto proprietario concerna la terra, sia l’una che l’altro devono condurre al raggiungimento di obiettivi di interesse generale ancor più incisivi e specifici: prendersi cura della qualità del paesaggio e assicurare una vita dignitosa ad ogni essere umano.
All’agricoltura non è, dunque, assegnata dalla Carta costituzionale una generica funzione sociale, ma tale funzione deve essere esplicata assolvendo due compiti specifici.
Per quanto riguarda la prima specificazione, la norma va letta in modo coordinato con il secondo comma dell’art. 9 che recita: “(La Repubblica) tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. A seguito della Legge 9 gennaio 2006, n. 14, di ratifica ed esecuzione della Convenzione europea del paesaggio, approvata a Firenze il 20 ottobre 2000, il dettato costituzionale va riferito all’insieme dei comportamenti pubblici da porre in essere al fine di prendersi cura della qualità del paesaggio con riguardo all’intero territorio nazionale.
Con la Convenzione europea il paesaggio assume, infatti, un nuovo significato. Non è più un insieme intangibile di bellezze naturali, come è stato considerato dalla legislazione italiana fin dagli inizi del Novecento, ma diventa – in sorprendente sintonia con il pensiero, per molti versi ignorato dal dibattito pubblico su questi temi, di un grande studioso della storia del paesaggio agrario italiano, Emilio Sereni (Sereni E., 2004) – espressione del patrimonio culturale e naturale e tratto identitario delle popolazioni insediate nei diversi territori, elaborazione umana dei dati ambientali, riflesso fisico di un determinato sistema di rapporti sociali che ogni generazione lascia in eredità a quelle che seguono.
In sostanza, la Convenzione è portatrice di un concetto di paesaggio che unifica la dimensione produttiva con quella culturale, territoriale e ambientale e rimanda alla necessità di una strumentazione pianificatoria e programmatoria fortemente integrata.
Con la Legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, all'art. 9 della Costituzione è stato aggiunto il seguente comma: “Tutela l'ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. Tale inserimento ha suscitato non poche perplessità. L’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi sono già contenuti, come abbiamo visto, nel concetto di “paesaggio”. Ora c’è il rischio che le integrazioni ne depotenzino, diluendolo nei suoi componenti, il senso sistemico.
Per quanto concerne la seconda specificazione, riferita al principio della giustizia sociale, la norma va posta in relazione con l’art. 33 del Trattato che istituisce la Comunità europea, il quale pone il traguardo di un tenore di vita equo per la popolazione agricola come uno degli obiettivi della PAC e obbliga a considerare, nell’elaborazione di questa politica, la specificità della struttura sociale dell’agricoltura e le disparità strutturali e naturali tra le diverse regioni agricole.
La norma va, inoltre, collegata all’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che prescrive alle politiche comunitarie di garantire un livello elevato di tutela ambientale conformemente al principio dello sviluppo sostenibile, inteso dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’ambiente umano, come principio di giustizia tra generazioni.
Il dettato costituzionale va, infine, interpretato alla luce del più recente pensiero liberaldemocratico sullo sviluppo umano che, partendo dall’approccio basato sulle capacità (Sen A.K., 2000) e integrando la teoria del contratto sociale (Rawls J., 1982), pone il problema di estendere in modo effettivo la giustizia sociale alle persone con disabilità mentali e fisiche, a quelle che vivono oltre i confini nazionali e agli animali non umani (Nussbaum M.C., 2007).
A ben vedere le due specificazioni della funzione sociale dell’agricoltura non sono nuove ma hanno caratterizzato e caratterizzano, ad ogni latitudine del globo, il modo di vivere e di produrre del mondo contadino e le sue aspirazioni più profonde riguardanti i rapporti con la natura e il mondo circostante. Richiamano valori concreti del vivere quotidiano che ha permesso e permette di formare comunità di persone. Del resto, i valori tutelati dalla Costituzione non sono affatto delle astrazioni, ma – come scrive il costituzionalista Ernesto Bettinelli – “dovrebbero evocare cose, situazioni misurabili, anche dal punto di vista materiale ed economico; si riassumono nelle condizioni essenziali per rendere possibile l’esistenza in generale e l’umanità in particolare: la convivenza, appunto” (Bettinelli E., 2006).
È siffatto universalismo dei valori richiamati dalla norma costituzionale riguardante l’agricoltura a imprimere ad essa un carattere che travalica le motivazioni congiunturali che spinsero il Costituente a dettarla. La fame di terra manifestata con le lotte del dopoguerra nelle campagne – e che dette l’impulso etico alla previsione dell’art. 44 – altro non è che l’aspirazione atavica e universale del contadino di bastare a se stesso, come elemento essenziale della propria dignità, e di dare valore alla propria esistenza mediante un’opera durevole, che solo la proprietà della terra da lui lavorata garantisce. Si tratta del diritto all’accesso equo alle risorse della terra, ora e in futuro, per fare in modo che ognuno sia libero di poter contribuire al bene comune. Un diritto che, tuttavia, travalica la stessa dialettica tra le classi sociali ed ha un carattere universale. Non a caso una prima versione dell’art. 44, presentata dalla III^ Sottocommissione, conteneva questa premessa: “La Repubblica persegue la razionale valorizzazione del territorio nazionale nell’interesse di tutto il popolo ed allo scopo di promuovere l’elevazione morale e materiale di tutti i lavoratori” (Fagiolo G., 1992).
I valori della cultura contadina trasfusi nella Costituzione
Esiste una sterminata letteratura, dalla narrativa agli studi storici, dalla memorialistica alle ricerche sociali, socio-antropologiche e archeologiche, che descrive con dovizia di particolari e dimostra con prove di diverso tipo come la società contadina fosse pervasa da un profondo senso della propria dignità, in quanto individui e come ceto, a cui si legano i valori di reciprocità, gratuità e mutuo aiuto. Una letteratura che attesta come in essa il rapporto con la terra fosse tale da garantirne il rinnovo della fertilità e la protezione dall’erosione, come l’uso dell’acqua si commisurasse alle effettive necessità irrigue, come la cura di una pianta affinasse il discernimento e il “saper fare” delle persone e come nella relazione con il cibo l’uomo abbandonasse l’atteggiamento dell’animale cacciatore che mangia la sua preda per intraprendere un tragitto di cultura, in vista di una comunione non solo tra gli esseri umani, ma tra l’umanità e il mondo.
Quando parliamo del mondo contadino spesso erroneamente lo concepiamo come mondo chiuso in se stesso e separato dagli altri. Ma in realtà il suo spazio vitale è il territorio. È del resto significativo che il termine territorium, il quale nel latino classico indicava lo spazio agrario intorno ad una città, nel latino medievale, diventando terra, designava i centri abitati e talvolta la città (Peri I., 1990). Il territorio è, dunque, lo spazio agrario che dalla città cui appartiene riceve identità nello stesso tempo in cui restituisce identità, in un rapporto di relazione molto stretto. Città e campagna sono due facce della stessa medaglia e l’Italia delle cento città è affiancata da mille campagne. Molto più che al clima, alla geologia e all’orografia, il Mediterraneo deve la propria unità a una rete di città e di borghi che si costituisce precocemente e che definisce lo spazio mediterraneo, lo anima e lo fa vivere. Non sono necessariamente le città a nascere dalla campagna. Spesso sono le campagne che nascono dalle città, il cui modello di organizzazione sociale si proietta sul territorio. Le città e i borghi sono i luoghi in cui i contadini scambiano i propri prodotti e vendono il proprio lavoro; da dove partono la mattina per andare in campagna, ma dove rientrano la sera (Braudel F., 2002).
È la città moderna a interrompere il dialogo con il territorio introducendo la nozione di vuoto inteso come piano astratto delle stereometrie urbane, immaginate isolate in uno spazio visto come isotropo. È con Newton, l’ispiratore dello spazio della città moderna come spazio dell’astrazione, e successivamente con la separazione delle regole di costruzione della spazialità urbana da quella rurale che la città e la campagna si separano insieme ai loro mondi e alle società che le abitano (Mininni M, 2006). Ma fino a quel momento è il territorio lo spazio dove avvengono gli scambi tra città e campagna, si accendono e si controllano i conflitti sociali e si pattuiscono le pratiche solidali.
La storia delle campagne italiane è, in particolare, costellata di una miriade di pratiche comunitarie, che riguardano il “prendersi cura” delle persone, della terra, dell’acqua e degli esseri viventi non umani. E’ sufficiente rammentarne alcune: la molteplicità dei riti di ospitalità nei confronti soprattutto dei più indigenti; il vegliare nelle serate invernali stando tutti insieme per educarsi reciprocamente alla socialità e permettere agli anziani di trasmettere ai giovani la memoria, i saperi e quei valori essenziali per dare un senso alla vita; lo scambio di mano d’opera tra le famiglie agricole nei momenti di punta dei lavori aziendali; le esperienze consortili per la bonifica e la difesa idraulica; i sistemi di regolazione del possesso aventi un’implicita tendenza verso la distribuzione egualitaria delle risorse, a partire dagli usi civici delle popolazioni locali sui terreni di proprietà collettiva; le forme cooperativistiche sorte tra i braccianti padani, che hanno segnato il movimento cooperativo e il socialismo in Italia come gli unici in Europa ad avere origini agricole (Zangheri R., 1997, pag. 70). Bastano già questi esempi per farsi un’idea di quanto profonde ed estese fossero le reti informali di relazioni intessute dai contadini nelle comunità rurali.
In tale ambito, va particolarmente sottolineato un tratto comune dei villaggi rurali in molte latitudini del globo: l’idea che ogni membro della comunità dovesse avere accesso a una quantità di risorse sufficiente a metterlo in grado di assolvere i suoi obblighi verso la comunità nella lotta collettiva per la sopravvivenza. Un modo per assicurarsi contro i pericoli di disastri naturali, e in alcuni casi anche per reagire ai metodi di esazione delle tasse o degli obblighi feudali.
Sulla base di siffatta idea, nell’antica Roma si dà vita all’heredium, un grande appezzamento di terra, considerato in un primo tempo inalienabile e finalizzato al sostentamento dei contadini militari. Si sono nel tempo istituite o rafforzate ulteriori consuetudini di possesso dei beni a favore dei contadini. Associazioni o società degli antichi originari, vicinie o vicinanze, regole, comunità di valle, comunanze, partecipanze, comunaglie, consorzi delle famiglie, università, ademprivi, consorterie sono soltanto alcune delle denominazioni con cui si indicavano, nelle diverse aree della penisola italiana, le terre collettive dove si esercitavano gli usi civici che coprivano l’intero arco delle attività agropastorali. Originariamente queste aggregazioni esercitavano anche funzioni pubbliche, come pagare il medico, la levatrice, curare la manutenzione delle strade e delle fontane, ma poi si limitarono a gestire solo gli aspetti più propriamente economici (Guidetti M., Sthal P. H., 1977). Si trattava di diritti che successivamente, con l’abolizione del regime feudale e il rafforzamento della proprietà terriera borghese, si sono in larga misura infranti. È per questo motivo che le occupazioni di terra – una modalità di lotta contadina praticata a più riprese nell’Ottocento e nel Novecento – non sono mai state vissute dai protagonisti come atti eversivi ma come riconquista di antichi diritti.
Accanto alle forme solidali ed egualitarie, la società contadina così come si è configurata in Occidente – probabilmente come esito originale della fusione di culture arcaiche e cristianesimo – presentava anche uno spiccato senso della coscienza individuale e dell’autonomia della persona. Esso, in età feudale, ha agito come contrappeso o in resistenza alle forme più odiose di asservimento e, in età moderna ma soprattutto nella società contemporanea, costituisce un valido deterrente – qualora si faccia leva su questo senso comune rimasto nell’indole degli europei – a processi di subordinazione, massificazione e omologazione anonima e indistinta, indotti dallo sviluppo tecnologico e che minacciano l’eguaglianza delle opportunità dei singoli e delle comunità, gli equilibri ambientali e la stessa democrazia.
C’è, infine, un aspetto che nelle ricerche storiche è stato alquanto trascurato, ma che soprattutto oggi ha una importanza straordinaria. Si tratta di un elemento distintivo che, fin dalle origini della società contadina, ha alimentato la reputazione delle diverse comunità rurali: la capacità di dare valore e dignità alle persone in condizioni di dipendenza o portatrici di singolari particolarità; frutto dell’intreccio virtuoso tra la dimensione produttiva, quella relazionale con le piante, con gli animali e in generale con la natura e quella familiare e comunitaria. Una testimonianza letteraria di questa peculiarità del mondo rurale la si può trovare in una novella del Decamerone di Boccaccio, l’ultima della quinta giornata, dove si parla del giovane Cimone che “amando divien savio”. In questo testo sono messe in risalto le qualità terapeutiche e riabilitative della campagna.
Le menomazioni che oggi vengono indicate come disabilità fisiche o mentali erano molto comuni nelle zone rurali di alcuni decenni or sono. Basta scorrere i dati dei coscritti non idonei al servizio militare per rendersi conto delle diffuse affezioni presenti nelle campagne (Corsini C.A., 2009). Orbene, queste persone erano generalmente accudite dalle stesse proprie famiglie e sovente trovavano nelle medesime fattorie e nei villaggi rurali mansioni da svolgere. Si potrebbe ben dire che nessuno rimaneva escluso dalla comunità.
È con l’inurbamento dei contadini e il loro impiego nel lavoro industriale che si incominciò, purtroppo, a registrare un notevole incremento di persone affette da disturbi mentali. I ritmi e i sistemi assolutamente diversi da quelli del lavoro dei campi causavano assai sovente forme di disagio e di estraniamento ai nuovi abitanti dei centri urbani. Ma non avendo le città un’organizzazione degli spazi e dei tempi in grado di includere nel contesto sociale le persone affette da disturbi mentali, erano in molti a varcare i cancelli degli spaventosi cronicari dell’epoca e a rimanervi reclusi e incatenati per il resto della loro vita.
Laddove si intuì la causa di queste situazioni si tentò di rimediare attingendo alle medesime risorse del mondo rurale. Fu questo il caso dei disabili mentali ospitati da ciascuna delle famiglie di Gheel, popoloso villaggio del Belgio centrale, ma anche della colonia agricola di Clermond – Ferrand, in Francia, e del Ritiro di York in Inghilterra. Si trattava di esperimenti coraggiosi e mossi da forti idealità e spirito religioso che, a cavallo tra Settecento e Ottocento, hanno mostrato concretamente la capacità delle attività agricole e dei contesti rurali di svolgere funzioni inclusive in ambiti sociali, i quali, urbanizzandosi e industrializzandosi, emarginavano un notevole numero di persone deboli o indebolite dagli effetti dell’urbanesimo e della rivoluzione industriale.
Il legame tra la salute mentale e le funzioni terapeutiche e riabilitative dell’attività agricola segna tutto il dibattito sulla psichiatria e le sue istituzioni da Philippe Pinel, ideatore del primo manicomio moderno dopo la Rivoluzione francese, fino a Franco Basaglia che propugnò la chiusura di queste istituzioni. Analogamente, il tema del lavoro agricolo come modalità più efficace per coniugare la pena e la risocializzazione del detenuto percorre tutto il dibattito sui caratteri delle moderne istituzioni penitenziarie, da quando è stata abolita la pena di morte fino ai nostri giorni. In entrambi i casi, il punto di riferimento dei sostenitori dell’attività agricola come ambito da privilegiare per curare e riabilitare i malati mentali e risocializzare i detenuti era la comunità rurale, con le sue regole implicite di inclusione e reinserimento mediante l’agricoltura.
Ebbene, questi elementi fondamentali della cultura contadina, questo giacimento di valori e aspirazioni di un mondo rurale che in Occidente si è trasformato ma ancora vive nelle forme preindustriali in altre aree geopolitiche del globo, sono entrati a pieno titolo nella nostra Carta costituzionale e la ispirano profondamente.
Nell’accogliere le richieste di un vasto e tenace movimento di lotte contadine, che si era sviluppato nel dopoguerra e si batteva per superare condizioni di grave indigenza in vaste fasce di popolazione rurale, vincoli semifeudali e condizioni di subalternità nei confronti dei ceti proprietari, e nel prendere coscienza dei profondi limiti dell’assetto socio-economico che le campagne italiane manifestavano a conclusione del processo di formazione dello Stato nazionale, il Costituente prospetta le linee di un ampio programma di rinnovamento strutturale che avrebbe dovuto caratterizzare il processo di formazione dell’Italia repubblicana, ponendo solennemente una condizione ben precisa: il grande patrimonio della cultura contadina intrecciata nei rapporti tra città e campagna, il prezioso lascito delle generazioni che ci hanno preceduto nei millenni trascorsi non vanno dispersi ma, depurati degli aspetti caduchi e inutilizzabili nella nuova realtà, devono costituire il lievito della modernizzazione e dominare il cambiamento per fare in modo che le necessarie trasformazioni avvengano senza perdite irreparabili sul piano dei valori che avevano caratterizzato la precedente società rurale.
L’attuazione dell’art. 44 e i suoi esiti
Di lì a poco, in virtù del dettato costituzionale e sulla spinta delle occupazioni di terra divenute ancor più intense alla fine degli anni ’40, il Parlamento approva le leggi di riforma fondiaria contestualmente ad un vasto programma straordinario di opere infrastrutturali nel Mezzogiorno che interessano prevalentemente i territori rurali. Tali provvedimenti vanno ad aggiungersi agli interventi della bonifica integrale e alle misure fiscali e creditizie per lo sviluppo della proprietà contadina, varate negli anni precedenti, e saranno integrati da successive riforme, che riguarderanno i contratti agrari, gli interventi per la montagna e la costruzione di uno specifico stato sociale per i soggetti dell’agricoltura.
L’assegnazione delle terre a seguito della riforma agraria e le agevolazioni per l’acquisto di aziende agricole coinvolgono oltre due milioni di ettari. Essi danno il “colpo d’ariete” – per riprendere l’efficace espressione usata da Luigi Einaudi e Giuseppe Medici – a due processi economico-sociali fortemente intrecciati: l’industrializzazione del paese e la formazione di una proprietà diffusa della terra, su cui si è progressivamente innestata un’agricoltura moderna.
È stato così infranto il latifondo. Nel tempo, anche i rapporti semifeudali hanno avuto un assetto sostanzialmente equo. Grazie alle macchine milioni di contadini sono stati liberati da inaudite fatiche manuali che si tramandavano da millenni come una condanna divina. Dunque braccia da lavoro che si sono rese disponibili per altri compiti produttivi e cibo a sufficienza per sostenere la macchina economica della crescita industriale.
Tra il 1951 e il 1971 il mondo rurale ha perduto 4,4 milioni di agricoltori, ma ha guadagnato 1,9 milioni di operai, impiegati e artigiani che non si sono trasferiti nelle città e sono restati nelle campagne. Si è così formata, già nel 1970 e in modo ancora più accentuato nei decenni successivi, un’agricoltura a tre strati di aziende: la prima, quella più ampia, rappresentata da 2 milioni e 400 mila aziende a mezzo tempo verso cui defluisce sempre più la seconda, quella della professionalità povera; la terza è, invece, quella delle 300 mila aziende, un decimo del totale, che fattura il 76 % della produzione, in cui sono presenti molte aziende il cui titolare ha un’attività extra o in cui nessuno degli operatori familiari lavora per più di duecento giornate l’anno (INSOR, 1993).
Prendendo in prestito una bella immagine di Corrado Barberis, si può ben dire che “come un palazzo ristrutturato da architetti che hanno però cura di lasciare intatta la facciata esterna, la campagna conosce uno straordinario processo di riorganizzazione economica” (Barberis, 2000). Un processo di forte diversificazione delle figure sociali, delle attività e dei sistemi territoriali, che imprime all’agricoltura italiana una connotazione pluralistica, da cui discende la sua forza e l’importanza del suo apporto all’economia nazionale. Non si comprendono i traguardi dello sviluppo italiano nel XX secolo se si trascura il grande contributo fornito dall’agricoltura alla società proprio in virtù del suo carattere plurale.
Alla luce di questi risultati, appare in tutta evidenza che uno degli obiettivi principali dell’art. 44 della Costituzione, “la riunione della proprietà della terra con il lavoro che la feconda” – per usare la felice espressione di Costantino Mortati – è conseguito.
E tuttavia va sottolineato che, nel nostro Paese, l’accesso alla terra da parte dei contadini non è stato un fattore di identificazione nazionale. La sua distribuzione è, infatti, avvenuta sotto il controllo di una parte politica contro un’altra, nella logica ferrea della “guerra fredda”, e non ha creato vincoli di appartenenza alla nazione che aveva mobilitato le risorse per le operazioni di riforma e gli acquisti agevolati di terra.
Altrove l’accesso alla terra è storicamente alla base delle democrazie occidentali: proprietà coltivatrice e ordinamento repubblicano sono state le due facce della stessa identità nazionale. Nel caso italiano, il fatto di non aver accompagnato la nascita dell’agricoltura moderna mediante una comune visione politica e culturale ha ostacolato la sua percezione come coagulo identitario.
Non è priva di significato la circostanza che in Italia sia mancato un romanzo che fosse l’equivalente di Furore di John Steinbeck, ispirato al dramma dei contadini rovinati dalla crisi del ’29 ed al New Deal rooseveltiano da cui rinacque l’agricoltura americana moderna. E non è stato prodotto un film simile all’omonimo che ne trasse John Ford nel 1940. Romanzi e film di ambientazione agricola, in Italia, hanno riguardato e riguardano tuttora esclusivamente periodi storici precedenti alla riforma agraria degli anni Cinquanta.
Tali limiti sono l’esito di un uso strumentale della vicenda agricola a fini di lotta politica, che ha appannato il grande contributo dei contadini italiani alla formazione dell’Italia repubblicana, non ha permesso ai nostri agricoltori di esercitare nella società il peso che altrove è riconosciuto alla categoria ed ha impedito agli italiani di inorgoglirsi per i progressi che si sono registrati nel settore agricolo. Anche per questo motivo l’agricoltura non ha avuto in questi decenni l’attenzione che meritava nell’opinione pubblica e nelle politiche nazionali così come è, invece, avvenuto in altri Paesi europei.
Tra antica e nuova ruralità
Per poter valutare complessivamente l’intera fase attuativa dell’art. 44 fino ai giorni nostri, sarebbe utile rispondere ad alcune precise domande: nell’agricoltura e nei territori rurali di oggi, quanta parte del patrimonio della cultura contadina, di quei valori universalistici che le generazioni dei millenni precedenti ci hanno lasciato in eredità è ancora rimasto integro? laddove si siano verificate dispersioni del lascito valoriale e conoscitivo delle comunità rurali, quali fratture ci sono state e con quali conseguenze? e, infine, le attuali politiche pubbliche riguardanti l’agricoltura e il mondo rurale continuano ad essere dominate dai principi contenuti nell’art. 44?
Per rispondere a queste domande, va affrontato preliminarmente un nodo storiografico rimasto ancora in sospeso e che riguarda l’esodo dalle campagne e dal Mezzogiorno.
Come già si è detto, la modernizzazione dell’agricoltura indotta dalla riforma agraria porta già scritto in sé lo svuotamento delle campagne. Un evento doloroso che sarebbe illusorio pensare di scansare. L’arrivo dei trattori, dei fitofarmaci e dei fertilizzanti fa, infatti, cadere la domanda di manodopera. E i piccoli fazzoletti di terra vengono ineludibilmente abbandonati. Ma senza una riduzione degli addetti non sarebbe possibile ottenere una crescita della produttività in agricoltura e un innalzamento dei redditi agricoli.
Le avvisaglie preoccupanti del grande processo migratorio dalle campagne verso le città e dal Sud verso il Nord offrono il pretesto per una modifica radicale degli orientamenti di politica economica. Prende piede, infatti, l’opzione dell’industrializzazione forzata dall’alto come panacea dei mali del Sud. Pasquale Saraceno, direttore della Svimez, la propone in un convegno della Cassa per il Mezzogiorno a Napoli nel 1953.
La svolta “industrialista” è condivisa trasversalmente da tutti i partiti e da tutti i sindacati. Temono, con motivazioni solo parzialmente diverse, il dramma migratorio. Scongiurare tale prospettiva significa evitare non solo forti disagi sociali, ma anche imprevedibili mutamenti politici. La Dc vede nell’industria di Stato al Sud un’opportunità per garantirsi il consenso mediante le assunzioni clientelari. Mentre la sinistra vede nella nascita di una classe operaia meridionale l’elemento decisivo per insediarsi più stabilmente tra le popolazioni.
Le voci che si oppongono sono diverse: le critiche più nette giungono da Adriano Olivetti, Manlio Rossi-Doria, Danilo Dolci, Giorgio Ceriani-Sebregondi e Achille Ardigò. Ma tali voci sono messe a tacere. E nel momento in cui la proposta diviene la grande scelta strategica per il Sud, si delegittima e marginalizza un’intera cultura economica, sociale e politica. Tale cultura dello sviluppo non nega l’importanza dell’industria. Ma pone la necessità di articolare l’intervento per contesti e per aree di sperimentazione. Pone al centro la ricerca e i processi educativi e formativi.
I sostenitori dell’industrializzazione forzata dall’alto fanno invece leva sull’emotività, agitando le previsioni dei flussi migratori che sono indubbiamente allarmanti. Ma evitano di spiegare che l’esodo rurale è un processo sostanzialmente “liberatore”, per usare un’espressione di Rossi-Doria. L’esodo avrebbe messo definitivamente in crisi l’organizzazione tradizionale dell’agricoltura e obbligato a porre in termini nuovi i problemi agricoli nel Sud. La parola “esodo” nella Bibbia non ha una connotazione negativa. È infatti associata alla liberazione dalla schiavitù d’Egitto. L’esodo, se accompagnato da politiche territoriali di sviluppo, avrebbe indotto nel giro di poco tempo un controesodo, cioè un esodo urbano. Un processo che si sarebbe dovuto sostenere e accelerare per raggiungere un riequilibrio. Salvaguardando con discernimento la cultura rurale.
La deriva dell’industrializzazione forzata dall’alto e l’abbandono dell’approccio dello studio di comunità per le politiche di sviluppo hanno conseguenze catastrofiche. Innanzitutto, nell’impegno dei governi sui problemi dell’agricoltura. Da allora si emarginano dai processi di sviluppo le competenze nel campo sociologico, antropologico ed educativo. Si attenua il contributo dell’Italia nel fissare le linee di intervento della PAC nei primi e cruciali negoziati dopo la Conferenza di Stresa del 1958. E si riduce sempre più il sostegno all’istruzione agraria, alle attività di ricerca e sperimentazione e a quelle divulgative. Gran parte dei tecnici delle scuole e facoltà di agraria sono assunti in misura maggiore rispetto al passato nelle industrie produttrici di mezzi tecnici. Essi sono adibiti alle attività di assistenza tecnica e di divulgazione agli acquirenti. E così gli agricoltori diventano destinatari passivi di tecnologie senza potersi giovare di strutture pubbliche come filtro nel rapporto coi produttori di mezzi tecnici.
Per comprendere i processi spontanei che si innescano nelle campagne nei decenni successivi sono utili alcune indagini specifiche condotte in Olanda e in Italia (Van der Ploeg J. D., 2006), i cui risultati dimostrano che non esistono due modalità soltanto di organizzare la produzione agricola: quella integrata totalmente nel mercato e quella completamente fuori dal mercato. C’è anche una terza possibilità, la quale prevede che non tutto viene regolato dal mercato, ma vi è un solo parziale inserimento in esso. È l’approccio che ha permesso a molti agricoltori di adottare strategie di sicurezza nel fronteggiare mercati divenuti sempre più competitivi. Alla sua base vi è la spinta a mantenere o accrescere l’autonomia rispetto ai processi di integrazione nel sistema agroalimentare, che implica invece un aumento della dipendenza.
A tale modalità sono, infatti, legati stili aziendali che fanno riferimento al valore dei rapporti familiari e delle reti relazionali locali, alla cultura diffusa nel territorio, all’interpretazione del processo produttivo come costruzione sociale (quella stessa cultura delle reti informali e della flessibilità operativa che ha permesso a migliaia di ex mezzadri di diventare protagonisti del “modello adriatico”) ed al rapporto con il mercato e con la tecnologia in funzione delle proprie convenienze.
In tale approccio le risorse naturali sono fortemente coinvolte nel processo produttivo rispetto ad altri in cui queste ne sono sempre più sganciate. Inoltre, in esso il lavoro – nelle forme più svariate – viene valorizzato più intensamente e svolto “con cura”, non solo per realizzare una produzione di qualità ma anche per conservare una “bella azienda”, rispetto a modelli in cui la molla è esclusivamente il guadagno e l’interesse è dunque rivolto ad introdurre tecnologie che permettono un allargamento di scala. I legami familiari e comunitari fanno sì che la pluriattività permetta apporti finanziari all’azienda capaci di allentare la dipendenza dalle banche.
I territori in cui sono maggiormente sopravvissute le aziende che non si sono inserite totalmente nel mercato ed hanno adottato strategie autonome rispetto a processi di innovazione tecnologica guidati dall’industria possiedono oggi un vantaggio competitivo, perché conservano risorse valoriali, saperi locali e capitale sociale che altri territori hanno in parte disperso.
Questi elementi di cultura contadina oggi sono alla base di una nuova ruralità, che prende le mosse negli anni Settanta, quando il flusso delle persone che dalla campagna si spostava nelle città inverte la rotta. Se nel 1951, nei comuni rurali risiedeva il 58 per cento della popolazione italiana, questa percentuale scende al 48 per cento nel 1971, ma risale al 49 per cento (con una crescita in assoluto di circa un milione di abitanti) nel 1981, e raggiunge, nel 1991, il 51 per cento.
Ad una ruralità agricola si è sostituita una ruralità in cui i posti di lavoro sono per l’80 per cento da attribuire all’industria e ai servizi. Si tratta di un sistema sociale nel quale l’agricoltura, pur garantendo la proprietà della casa, un’alimentazione più sana e più economica, la possibilità di dedicare il tempo libero alla coltivazione della terra, rappresenta solo un apporto del tutto minoritario alla formazione del prodotto interno lordo del territorio considerato.
La crescita dell’autoconsumo e del part-time nei comuni rurali non ha nulla a che vedere con l’esigenza di rispondere alle condizioni di fame del dopoguerra, ma si lega ai nuovi bisogni della società contemporanea, alla ricerca di una migliore qualità della vita come risposta al disagio urbano. Da una ruralità d’inerzia, come si configurava fino agli anni Sessanta, si passa ad una ruralità d’iniziativa, con forti connotazioni imprenditoriali e con un inedito protagonismo delle donne. Esse, infatti, più degli uomini sanno adottare strategie fondate sulle relazioni sociali e sulla valorizzazione delle attività agricole di servizi e quelle legate alla tipicità dei prodotti. Più degli uomini sono in grado di cogliere le opportunità del nuovo mondo rurale.
Il motivo della preponderante presenza femminile nelle nuove attività agricole e rurali va ricercato nella concezione “pragmatica” della condizione umana, che le donne possiedono in modo spiccato. Esse sono, infatti, portatrici di una capacità di inventare le risorse e valutare in modo attento e duttile le opportunità. Un’attitudine che probabilmente si è alimentata nelle società tradizionali, quando l’assolvimento di ruoli sostitutivi di quelli maschili, ritenuti irrilevanti nell’assetto formale del sistema che all’epoca vigeva, permetteva loro di saggiare continuamente le innovazioni e di introdurle senza contraccolpi (Signorelli A., 1991).
Si può, dunque, senz’altro affermare che, nei territori rurali italiani, la gran parte dei sistemi locali conserva ancora una parte cospicua del patrimonio tramandato dalle generazioni precedenti, cioè quella conoscenza contestuale di cui l’agricoltura è parte fondante. È per questo motivo che, dalla metà degli anni Settanta, si sono sviluppate spontaneamente nelle campagne italiane iniziative di imprenditorialità sociale nate dai movimenti per la costituzione delle cooperative giovanili e per l’abolizione dei manicomi, dalla lotta alla tossicodipendenza e dalla denuncia della condizione carceraria.
Si tratta di esperienze che vedono persone provate da diverse forme di disagio trovare nelle attività agricole una chance per dare significato alla propria vita. Persone con disabilità, ex tossicodipendenti, ex detenuti, disoccupati di lungo periodo vi trovano occasione di inserimento lavorativo attraverso l’assunzione in imprese già esistenti o mediante percorsi di autoimprenditorialità. D’altro canto, soggetti con disabilità gravi e anziani possono giovarsi di servizi terapeutici, riabilitativi e di inclusione sociale mediante l’utilizzo di risorse agricole erogati da aziende, enti pubblici, fondazioni, onlus.
In molti casi, ad avviare tali iniziative sono operatori che provengono da ambiti lontani dall’agricoltura e che trovano le loro motivazioni profonde nel bisogno di sperimentare nuove forme di vita, di produzione e di consumo per dare un senso alla propria esistenza. Questa propensione etica, che si va manifestando in modo evidente nei soggetti “rurbanizzati”, protagonisti dei recenti fenomeni di periurbanità, incrocia analoghi percorsi personali di agricoltori “tradizionali”, i quali spinti dalla globalizzazione ad abbandonare modelli produttivi eccessivamente specializzati perché non premiati dai mercati, sono indotti, per integrare il reddito, a sperimentare modelli agricoli multifunzionali.
Tale fenomeno è stato recentemente inquadrato nell’ordinamento come “agricoltura sociale” dalla Legge 18 agosto 2015, n. 141. Purtroppo, tale normativa è rimasta allo stato di indirizzo generale e non ha portato a quella omogeneizzazione delle normative regionali che il legislatore prefigurava. Il decreto attuativo “Definizione dei requisiti minimi e delle modalità relative alle attività di agricoltura sociale” è stato approvato solo il 21 dicembre 2018 e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 20 giugno 2019, in forte ritardo rispetto ai tempi previsti dalla legge. E le Regioni ancora non si sono mosse per adempiere a quanto previsto dal decreto. Resta, quindi, un corpo di norme regionali, talora fra loro dissonanti, che non garantiscono una unicità di vedute e di interventi. Avviene così che gli operatori si trovano a dover agire in contesti disomogenei: in alcuni casi le normative regionali sono incentivanti o comunque in grado di assicurare un contesto normativo e amministrativo positivo per le iniziative, in altri gli operatori sono sostanzialmente lasciati a se stessi con scarse possibilità di interloquire positivamente con i poteri pubblici.
Nuova ruralità e politiche pubbliche
Per quanto riguarda, infine, l’evoluzione delle politiche pubbliche, il disegno di trasformazione del territorio e modernizzazione dell’agricoltura, tracciato così puntualmente dalla Costituzione, dall’approvazione della prima legge di rifinanziamento della Cassa (1957) in poi perde il carattere di un’azione organica. Si assiste, infatti, ad una frantumazione degli interventi: le politiche economiche, quelle sociali e quelle territoriali non dialogano più. Gli stessi tentativi di programmazione – dai due Piani Verdi (1961 e 1966) al Quadrifoglio (1977) fino alla Legge pluriennale di spesa (1986) – non solo non si discostano da un’ottica strettamente settoriale, ma non considerano mai la dimensione territoriale e non si coordinano, anche per questo, coi tentativi di introdurre modelli di Welfare basati sulla diffusione di servizi locali.
È come se le forme nuove dell’agricoltura e della ruralità nate dalla “grande trasformazione”, nell’imprimersi sui suoi antichi tratti, abbiano prodotto segni irriconoscibili o di difficile lettura; e quasi per nascondere il disorientamento e l’imbarazzo, i decisori politici abbiano scelto a bella posta di rinunciare a perseguire grandi disegni.
L’effetto più deleterio di questo abbandono è la devastazione del territorio provocata da una crescita urbana disordinata, che prende corpo nella più assoluta mancanza di strumenti di piano in grado di offrire un minimo di razionalità ai nuovi insediamenti e di curare in qualche modo la qualità del paesaggio. In tale contesto, la periurbanità, da fenomeno transitorio, assume un carattere permanente, come esito sia delle dinamiche diffusive della città che dei processi di rurbanizzazione derivanti dal trasferimento di popolazione urbana nei territori rurali. Un fenomeno complesso che ancora oggi non trova alcuna strumentazione di governo in grado di gestirne gli impatti.
A ciò si aggiunge, dalla fine degli anni Settanta, la lenta transizione da politiche di stampo meramente assicurativo e “riparativo” a modelli di Welfare caratterizzati – come poc’anzi abbiamo visto – dalla dotazione territoriale di servizi; che tuttavia prendono forma in una logica di economie di scala, mediante la concentrazione di interventi e strutture nelle aree del centro-nord e nelle grandi città, trascurando il Mezzogiorno e le aree a minore densità di popolazione, a partire da quelle di alta collina e di montagna. E ciò produce un’erosione delle reti di protezione sociale nelle aree rurali, già segnate da una cronica difficoltà di fornire servizi socio-sanitari a causa della dispersione degli insediamenti abitativi.
Di fatto, l’unica politica che per un lungo periodo influenza nel profondo l’agricoltura italiana è la PAC, che nata principalmente per favorire la crescita produttiva consegue rapidamente e con successo quell’obiettivo. Ben presto, tuttavia, si trasforma in uno strumento per accumulare eccedenze e dilatare senza alcun controllo la spesa comunitaria. Inoltre, diventa fonte di ulteriori squilibri e disparità di trattamento perché le risorse erogate, essendo proporzionali alle quantità prodotte, assicurano i maggiori benefici alle aziende più grandi e a quelle che producono in abbondanza.
In conclusione, dando uno sguardo d’insieme alle politiche pubbliche messe in atto dopo i grandi interventi di riforma degli anni Cinquanta e fino agli anni Novanta, si può dire con tranquillità che tali interventi, a differenza di quelli attivati nel periodo precedente, hanno sostanzialmente disatteso i due principi che il Costituente aveva posto a fondamento delle politiche agricole per qualificare la funzione sociale del settore primario: l’utilizzo razionale del territorio e il conseguimento di equi rapporti sociali.
Con l’avvio dei Programmi integrati mediterranei nel 1985, la successiva riforma dei fondi strutturali e infine con la nuova politica di sviluppo rurale dell’Unione europea nel 1999, prende corpo una politica agricola che torna ad assumere una forte connotazione territoriale. Sul versante interno viene introdotta, con la Legge 5 marzo 2001, n. 57, “Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati”, e il Decreto Legislativo 18 maggio 2001, n. 228, “Orientamento e modernizzazione del settore agricolo, a norma dell’art. 7 della Legge 5 marzo 2001, n 57”, la nozione di “distretto” in agricoltura. Questa viene mutuata – purtroppo solo parzialmente e quindi senza il respiro strategico del pays – dalla Legge di Orientamento per la gestione e lo sviluppo durevole del territorio, approvata in Francia alla fine degli anni Novanta.
L’aspetto più rilevante della nuova normativa riguarda la dilatazione del concetto di “agricoltura” alle attività di servizi, comprendendo in esse non solo quelle turistico-ricreative, ma anche quelle paesaggistiche, culturali, didattiche e sociali, nelle sue articolazioni educative, terapeutiche, riabilitative e di inclusione lavorativa di soggetti svantaggiati.
Accanto a siffatte innovazioni, vanno segnalate altre importanti acquisizioni come l’evoluzione del concetto di bonifica da intervento di “miglioramento” del territorio, subordinato a visioni produttivistiche o a esigenze di salubrità, ad azione di “mantenimento” e tutela del patrimonio naturale strettamente legato a fattori di carattere ecologico. Tali cambiamenti incominciano a prendere corpo solo negli anni Novanta con interventi attivi di tutela e valorizzazione, nonostante la Convenzione di Ramsar relativa alla tutela delle Zone Umide fosse del 1971.
Nello stesso periodo anche la legislazione a favore delle zone montane viene riqualificata, considerando queste come risorse ambientali di preminente interesse nazionale e passando, quindi, da una logica assistenziale, di cui erano intrisi gli interventi precedenti, ad una di tutela e valorizzazione della montagna in quanto patrimonio culturale e naturale delle popolazioni montane.
L’agricoltura e le regioni
Negli anni Settanta, si avvia il processo di regionalizzazione. E la politica agricola costituisce, fin dall’inizio, l’ambito in cui si manifestano le maggiori discrepanze e criticità nel rapporto tra le regioni e lo Stato. Nell’esaminare succintamente questi aspetti, vanno tenute in conto alcune peculiarità settoriali. In primo luogo, le amministrazioni regionali dell’agricoltura sono investite, fin dall’insediamento delle regioni, di compiti di programmazione e di gestione. Ma tali compiti, in assenza di risorse proprie e di un coordinamento effettivo di livello nazionale, risultano immediatamente di difficile attuazione. Si sguarniscono, infatti, le amministrazioni centrali delle professionalità più qualificate proprio nel momento in cui i dirigenti più preparati avrebbero dovuto svolgere un efficace coordinamento del trasferimento delle competenze dallo Stato alle regioni. Ad esempio, ai dirigenti dello Stato vengono riconosciuti sette anni di “abbuono” ai fini del prepensionamento. E molti di loro vanno in quiescenza anticipatamente. Nello stesso periodo, le regioni prevedono per i loro dirigenti stipendi molto elevati, incentivando così il passaggio degli statali nei ranghi regionali senza alcun disegno preordinato.
L’altra specificità agricola è che i responsabili politici e, ancor più, i dirigenti amministrativi regionali entrano ben presto in contatto con l’impostazione, le regole e gli strumenti della politica agricola comune e si coordinano tra loro per acquisire competenze e informazioni ed elaborare documenti di riflessione e di critica alle indicazioni nazionali e comunitarie.
La conflittualità tra le regioni e l’amministrazione centrale dell’agricoltura è il segnale di una crisi epocale della rappresentanza che investe non solo a livello nazionale, ma anche a quello globale, sia le istituzioni che le organizzazioni dell’agricoltura. Il primario non è più un mero settore produttivo ma il crocevia di problemi complessi e globali che vedono al centro i cittadini e le popolazioni in quanto tali.
Con l’ascesa della Lega Nord nell’Italia settentrionale e, soprattutto, a seguito del suo successo elettorale nelle elezioni regionali del 1991, s’incomincia a parlare di federalismo. L’iniziativa politico-culturale della Lega intende sostituire la “questione meridionale” con la “questione settentrionale”. E, soprattutto, ha la funzione di creare un diffuso sentimento di ostilità verso tutto ciò che vuol “entrare” nel Nord dall’esterno, creando lo spazio di una secessione di fatto nei sentimenti e nelle relazioni umane. A più riprese si costituiscono Commissioni bicamerali che accanto al tema della forma di governo affronta anche quello delle regioni. Non si parte mai da un’analisi puntuale e veritiera dell’esperienza regionale, ma esclusivamente dallo scontento delle popolazioni del Nord nei confronti dello Stato centrale.
Alla pressione esercitata dalla Lega Nord il centrosinistra risponde con la riforma del Titolo V della Costituzione, approvata dal Parlamento nel 2001 e confermata con un referendum a cui partecipa solo il 34 per cento degli aventi diritto. Una vera e propria iattura che introduce un modello di rapporto Stato-regioni inefficiente e capace di inceppare il funzionamento delle istituzioni. Si separano, infatti, in modo netto le competenze dello Stato e quelle delle regioni: lo Stato fa poche cose di grande rilievo istituzionale (competenza esclusiva dello Stato), le regioni fanno tutto il resto (competenza residuale delle regioni). Poi vi sono un certo numero di materie in cui si genera una sorta di “condominio”, in cui lo Stato fissa i principi fondamentali con le sue leggi lasciando alle regioni la disciplina di dettaglio.
Ma con la competenza di tipo concorrente, si va dritto all’esasperazione del conflitto d’interessi tra poteri. Inoltre, la parte riformata della Costituzione è caratterizzata dalla mancanza di quegli elementi unificanti e di coordinamento. Emerge in modo irrefrenabile il policentrismo autonomistico, con tanti centri di regolazione ma nessun momento unificante e di garanzia. Secondo i dati raccolti dal Sole 24 Ore a settembre 2019, la confusione sulle materie concorrenti produce dal 2001 al 2018 oltre 1.800 ricorsi davanti alla Corte Costituzionale. Nel 2018, le liti fra Roma e le regioni impegnano una sentenza su due della Consulta.
Per evitare che il sistema istituzionale si blocchi, la Corte costituzionale si vede costretta a evidenziare le competenze cosiddette “trasversali”, cioè riservate allo Stato, che però – sentenzia la Corte – non riguardano una materia, un oggetto specifico, ma tagliano trasversalmente più settori. E in questo modo si può consentire allo Stato di intervenire anche in materie che in astratto sembrerebbero riservate alle regioni.
Lo stesso principio di sussidiarietà, che la Costituzione riferisce esclusivamente alla competenza amministrativa, è interpretato dalla Corte costituzionale in modo ampio e flessibile, per spostare la competenza non solo verso il basso, più vicino al cittadino, ma anche verso l’alto, quando cambiano i presupposti storici, economici e gestionali per l’esercizio del potere. E così si può attribuire allo Stato la competenza in materia di tutela della concorrenza e per tutto ciò che riguarda la produzione, il trasporto, la distribuzione dell’energia. In tale quadro, la legge n.239 del 2004, in materia di centrali di produzione energetica, può attribuire i poteri esclusivamente allo Stato, in ragione della loro importanza strategica.
Nel corso della pandemia da Covid 19, il difficile rapporto fra Stato e regioni emerge chiaramente nel rimpallo reciproco di responsabilità e accuse – tanto da spingere il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a intervenire per chiedere maggiore collaborazione. Il confronto fra governo centrale e governi locali non si limita però alla dialettica politica. Fin dall’inizio della crisi sanitaria, prende la forma di uno scontro a colpi di ordinanze e ricorsi.
In realtà, le difficoltà di gestione della crisi sanitaria non sono da imputare al Titolo V della Costituzione, né esclusivamente alle regioni. Con una pandemia in corso, la Costituzione vigente consente comunque soluzioni di tipo “centralista”. La lettera q dell’articolo 117 cita espressamente la “profilassi internazionale” tra le materie in cui lo Stato ha competenza esclusiva. E all’articolo 120 c’è scritto che il governo può sostituirsi agli enti locali quando c’è “un pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica” oppure quando lo richiedono “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”. Ma i rapporti ormai esacerbati tra Stato e regioni suggeriscono un atteggiamento di forte cautela da parte del governo, fino al punto di non avvalersi delle prerogative costituzionali, per evitare contenziosi infiniti che finirebbero per danneggiare i cittadini.
Le nuove frontiere dell’art. 44 della Costituzione
Nonostante il recupero di un approccio territoriale all’interno delle politiche agricole a partire dagli anni Novanta, la politica di sviluppo rurale conserva ancora una forte impronta settoriale che pregiudica la possibilità di conseguire risultati concreti sul versante del miglioramento della qualità della vita e dell’attrattività delle aree rurali.
Nello stesso tempo, anche le politiche sociali continuano ad essere impostate in modo del tutto separato dalle altre politiche, nonostante si sia legiferato a livello nazionale per costruire un sistema di servizi sociali territoriali. Andrebbe ricostituito un nuovo nesso tra protezione sociale e sviluppo economico superando l’approccio tradizionale il quale guarda solo a come il potenziale di ricchezza che si produce nella crescita economica si può tradurre in benessere sociale. Dovremmo, invece, chiederci come il potenziale di ricchezza sociale che risiede nell’economia civile si può tradurre in crescita economica, in miglioramento della qualità della vita e dunque in sviluppo.
L’art. 44 della Costituzione può offrire indicazioni concrete ancor più stringenti per affrontare i problemi di oggi e del futuro. Esso ci parla, infatti, di giustizia sociale e di salvaguardia della dignità umana e, dunque, di rapporti di lavoro di qualità, di inclusione di soggetti svantaggiati e di “nuovi poveri”, di educazione delle nuove generazioni per fare in modo che diano un senso alla loro esistenza. Ci dice che dobbiamo prenderci cura del territorio abitandolo e, dunque, unificando la definizione delle regole dell’abitare, del coltivare e del costruire. La lingua tedesca chiama con la medesima voce l’arte di edificare e l’arte di coltivare. Il nome dell’agricoltore non suona coltivazione ma costruzione, Ackerbau, il colono è un edificatore Bauer, e quindi un popolo deve edificare i suoi campi come una città; e il termine antico tedesco, buan, da cui deriva quella voce, significa “abitare”. Per governare un territorio, che non è più agricolo in termini meramente produttivistici, dobbiamo, pertanto, anche noi unificare tutti questi significati.
L’art. 44 ci sollecita, infine, a riconoscere l’importanza della molteplicità e del pluralismo dei sistemi territoriali, delle forme di possesso e delle figure sociali, antiche e nuove, che operano nelle aree rurali. Continuare a ritenere gli usi civici o il part-time come anomalie da ricondurre alla razionalità mediante l’imposizione di criteri di uniformità, caricati di assolutezza, significa stare con la testa rivolta all’indietro. Se è, invece, il territorio rurale con le sue molteplici funzioni la fonte delle regole per la struttura agricola, allora non potranno essere né la condizione professionale dell’operatore, né la forma di possesso della terra, né ancora la dimensione fisica i criteri da far valere nell’intervento pubblico, bensì la coerenza del singolo progetto con gli obiettivi di una progettualità territoriale condivisa, la capacità di quel singolo operatore di interagire con una molteplicità di soggetti nelle reti distrettuali.
La nuova ruralità non ha nulla a che vedere con l’impulso nostalgico di sognare il ritorno all’agricoltura di una volta. Le condizioni di quella ruralità erano condizioni di miseria e di malattia. E l’agricoltura del passato era fatta di fatica e sofferenza. Un conto sono i valori, i comportamenti, l’etica di quel mondo; e altra cosa è la vita materiale. Il mondo non si può fermare. E non possiamo costringere nessuno a restare dov’è nato se l’esodo è, biblicamente, vissuto come liberazione dalla precarietà. Va, dunque, rimesso in moto il meccanismo di trasmissione generazionale. E l’immigrazione costituisce oggi una grande opportunità per alimentarlo.
Il flusso si svolge dal vaso troppo pieno del continente africano al vaso italiano ed europeo che si sta svuotando, come indicano i dati del nostro declino demografico. Ci sono due necessità da comporre: quella delle popolazioni africane di liberarsi dalla miseria; e quella delle popolazioni europee invecchiate di trasmettere a una nuova generazione il lascito ereditato dagli antenati. Ci vogliono però delle condizioni di base per amalgamare le due necessità. La prima è culturale: prendere atto che le migrazioni sono un fenomeno strutturale da governare nazionalmente e a livello europeo, mediante ingressi selettivi. La seconda è una condizione politica: occorre integrare in profondità gli immigrati, trattando i loro figli come i nostri, attraverso l’educazione, l’istruzione, il lavoro.
Quando il processo di integrazione si sarà avviato e fioriranno le comunità, si potranno più agevolmente sconfiggere alcuni mali provocati dalla società del benessere.
Questi mali vanno dal senso di solitudine agli atteggiamenti di rifiuto e opposizione al cambiamento, di sfiducia nella politica. In un contesto generativo di attività produttive che utilizzino le nuove tecnologie genetiche e l’intelligenza artificiale, si potranno aprire spiragli per i nostri giovani. Essi oggi continuano ad andarsene all’estero. Nel nuovo contesto da creare potranno, invece, decidere consapevolmente di restare o tornare. L’intelligenza artificiale può essere utilizzata per accorciare i tempi nell’individuare patogeni, come la Xylella, e salvaguardare così la biodiversità. Le tecnologie TEA e l’editing del genoma ci potranno essere utili per produrre cibo nelle aree aride.
Il grande compito della cultura oggi è quello di leggere il mondo in cui viviamo. L’agricoltura del futuro è un’agricoltura che non si difende, intimorita, dal mondo che cambia in continuazione, ma è un’agricoltura che sta nel mondo con gli strumenti utili per capirlo.
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Presidente dell'Accademia della Ruralità "Giuseppe Avolio". Dopo una lunga esperienza di direzione nelle organizzazioni di rappresentanza dell’agricoltura, nel 2005 ha promosso l’associazione “Rete Fattorie Sociali” di cui è stato presidente fino al 2011. Già Docente del Master in Agricoltura Sociale presso l’Università di Roma Tor Vergata. L'ultima sua pubblicazione con Mario Campli "Il mito don Milani e la democrazia", Informat Press, 2023.
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