venerdì 26 maggio 2023

CHI L'HA DETTO CHE IL GRANO ANTICO E' SEMPRE PIU' BUONO?

Recensione del libro di Luigi Cattivelli “Pane Nostro, grani antichi, farine e altre bugie”

 

di ALESSANDRO CANTARELLI


Pane Nostro


(Nell’immagine di sinistra la copertina del libro. In quella di destra, una panoramica parziale delle strutture e delle parcelle sperimentali coltivate a cereale del Centro di ricerca per la Genomica e Bioinformatica del CREA a Fiorenzuola d’Arda (Pc), dove l’autore che ne è il direttore, assieme ai ricercatori che vi operano svolgono attività di ricerca di prim’ordine, nel solco dei preziosi insegnamenti dell’agronomo genetista Antonio Michele Stanca. Foto A. Cantarelli).


Tutto ha inizio da una cena al ristorante. L’ottimo pane offerto nel cestino, accompagnato dalla nota: “grano tradizionale della varietà Bolero, macinato a pietra”, in realtà non è prodotto con grano antico bensì con il grano di una varietà moderna, sovente impiegata in agricoltura biologica.
È probabile che un consumatore poco esperto ma amante dei cibi tradizionali, avrebbe apprezzato tale scelta, ma comunque Bolero è una varietà moderna. Inizia con questo curioso aneddoto il bel libro di Luigi Cattivelli “Pane nostro. Grani antichi, farine e altre bugie”, edito da Il Mulino e dal taglio prettamente divulgativo, pertanto indirizzato in primo luogo agli studiosi desiderosi di aggiornamento, comprendendo in primo luogo gli studenti ma ovviamente tutti coloro che, a vario titolo, desiderano essere semplicemente informati sulle effettive caratteristiche dei cereali destinati alla produzione di pane e pasta. L’autore non tralascia infatti opportuni approfondimenti sulle più recenti biotecnologie utilizzate nel miglioramento genetico, affrontando senza timore paure irrazionali cavalcate dal mainstream corrente, forniti dalla scienza.
Per arrivare nella parte conclusiva a quelli che saranno il pane e la pasta del domani, dal momento che l’agricoltura nei prossimi decenni dovrà affrontare alcune sfide epocali.
Scorrendone le pagine, è lo stesso autore a introdurci che “è esperienza di tutti come il marketing, a livello locale come nella grande distribuzione organizzata, faccia spesso leva su aspetti legati alla tradizione lasciando intendere che i prodotti come quelli di una volta abbiano proprietà superiori rispetto a quelli moderni”. Ma è davvero così?

Negli ultimi anni il grano sembra essere infatti oggetto di una crescente ostilità

Cosa c’è di vero in queste affermazioni? Questo testo vuole essere un contributo alla comprensione delle conoscenze scientifiche disponibili riguardo la principale fonte alimentare dell’umanità. Il grano fa osservare Cattivelli in termini economici si può definire come un bene a domanda rigida: una piccola diminuzione dell’offerta determina infatti un forte aumento di prezzo. Il grano è il tipico prodotto che sembra non interessare nessuno, a patto che ce ne sia sempre per tutti!A seguito della guerra in Ucraina, l’opinione pubblica ha scoperto che l’Italia importa almeno la metà del frumento che utilizza e, molte persone hanno chiesto allo stesso autore perché non si possa essere autosufficienti.
Una domanda strana osserva Cattivelli, per un Paese che da anni investe pochissimo nella ricerca sul frumento. Fino a ieri l’interesse era rivolto non tanto alla produzione, quanto alla ricerca dell’eccellenza, ossia alla ricerca di prodotti caratterizzati da proprietà benefiche (ad esempio i frumenti antichi).

Ci si accorge invece oggi che il re è nudo!

La lettura del libro aiuta il lettore a meglio comprendere il ruolo che il frumento ha avuto in passato, quello che ha oggi e avrà in futuro per l’alimentazione umana, nonché quanto questa pianta sia strategica per il futuro dell’umanità. L’autore argomenta il perchè l’essere competitivi nella produzione di grano, significhi in primo luogo garantire l’avvenire di un Paese. Per fare questo è necessario guardare ad esso con approccio scientifico e oggettivo, al di là delle tante fakes news diffusesi in questi ultimi anni.
Scopo di questo libro vuole essere la spiegazione dell’importanza nell’investimento in ricerca e coltivazione del frumento, ma anche del motivo per il quale non si possa sottovalutare l’elemento che sta alla base della nostra alimentazione. 
Il libro è suddiviso in sette capitoli, all’interno dei quali il lettore troverà approfondite argomentazioni che portano a concludere che ha poco senso parlare di varietà antiche o moderne, anziché cercare di capire da cosa dipendono effettivamente le caratteristiche dei diversi frumenti, in primo luogo il contenuto in proteine e la tenuta di cottura. L’autore infatti si chiede: 
  1. quanti anni deve avere una varietà per essere dichiarata “antica”? 
  2. cosa deve essere antico: la specie o la varietà? 
  3. una varietà moderna di una specie antica può essere considerata antica?
Queste domande accompagneranno il lettore attraverso l’affascinante storia del frumento coltivato, iniziata circa 12.000 anni fa nelle steppe del Medio Oriente con la fantastica sequenza iniziata dall’ibridazione, assolutamente eccezionale, di due generi diversi, rispettivamente Triticum e Aegilops.
 
  (Da. L. Cattivelli, Pane Nostro. Grani antichi, farine e altre bugie, cap. I).

A partire dai frumenti ancestrali diploidi (genoma AA), con 7 coppie di cromosomi ai quali appartengono specie come il Triticum monococcum o grano monococco, per definizione l’unico vero grano che possa effettivamente definirsi antico, derivano grazie alla selezione operata dall’uomo le varietà moderne impiegate dall’industria alimentare. Si apprende che nel corso dei millenni l’evoluzione dei frumenti è stata resa possibile dagli eventi naturali di ibridazione interspecifica e poliploidizzazione dell’intero genoma, che hanno determinato circa 9.000 anni fa la creazione dei grani tetraploidi a 14 coppie di cromosomi (genomi AABB), come il Triticum dicoccoides o farro selvatico, per arrivare circa 6.000 anni fa ai frumenti esaploidi definiti come tipi genomici AABBDD, aventi ben 21 coppie cromosomiche. Tra i grani tetraploidi vi troviamo anche specie quali ad es. il Triticum turgidum subsp. durum o grano duro, oppure specie come il Triticum turgidum subsp. turanicum o grano Khorasan (quando non ricorrano le condizioni per fregiarsi del marchio Kamut®), mentre tra gli esaploidi troviamo il Triticum aestivum o grano tenero. L’autore descrive le tappe evolutive che hanno segnato la storia dei frumenti coltivati, per arrivare a varietà quali il Gentil Rosso 48 o il Cologna 12 create dall’agronomo appartenente alla corrente selezionista Francesco Todaro, mentre varietà quali il Villa Glori, Damiano Chiesa e Mentana (che costituiranno l’ossatura della “Battaglia del grano” negli anni del Ventennio), così come la stessa varietà di grano duro Senatore Cappelli, furono invece create dall’agronomo Nazareno Strampelli.
La riduzione dell’altezza del grano fu resa possibile grazie all’introduzione dei geni Reduced high contenuti in alcune varietà giapponesi. Pietre miliari di questo percorso di miglioramento genetico, sono stati il gene Rht-8 introdotto dalla varietà Akakomugi attraverso il lavoro pioneristico di Strampelli, oppure negli anni del secondo dopoguerra il gene Rht-1 introdotto nel germoplasma occidentale dal padre della Rivoluzione Verde, l’agronomo statunitense Norman Borlaugh. Il cui merito di avere contribuito in maniera determinante alla lotta contro la fame nel mondo, gli valsero il premio Nobel per la Pace nel 1970. 

Ma leggendo il libro si scopre che il cammino è lungi dall’essersi concluso, anzi. E menomale, guai, se così fosse!
 
Nel dettaglio il lettore apprende così che l’aspetto curioso dell’aumento di produzione legato alla riduzione dell’altezza della pianta, non ha determinato un aumento significativo della biomassa totale della pianta (ossia il suo peso, radici escluse). 
 
 
 

 (Da. L. Cattivelli, Pane Nostro. Grani antichi, farine e altre bugie, cap. I).



L’aspetto che colpisce è che nelle varietà moderne di grano si scopre che alla raccolta i semi rappresentano circa il 50 % del peso totale, mentre nelle varietà antiche ne costituivano circa il 30%. Un gap del 20% che ha permesso di sfamare milioni di persone, con buona pace di chi non vuole sentire ragioni su quello che ha rappresentato la Rivoluzione Verde per il benessere dell’umanità. Il frumento ci ricorda Cattivelli l’essere una pianta globale: cresce praticamente ovunque e in quasi tutti i paesi del mondo rappresenta una delle maggiori colture. Viene riportato che i meccanismi che controllano la vernalizzazione e la resistenza al freddo sono diversi e indipendenti gli uni dagli altri; il gene Vrn controlla la vernalizzazione, mentre il gene Cbf la resistenza al freddo ed entrambi sono localizzati sul genoma l’uno in prossimità dell'altro e si apprende così che questo fatto spiega in termini genetici come molto spesso i due caratteri si trovino abbinati.
Assieme ai geni che permettono alla pianta di percepire la lunghezza del giorno (fotoperiodo), quindi a pochi altri fattori, è stato possibile selezionare varietà di frumento flessibili nella data di spigatura, ossia capaci di fiorire nelle migliori condizioni in quasi tutte le aree del pianeta. A questo proposito, l’Autore si addentra nei perché siano state trovate tracce dell’erbicida gliphosate (entro i limiti di legge), nei frumenti canadesi, ossia provenienti dalle aree più settentrionali del pianeta e del perché questo non sia accaduto negli ambienti di coltivazione mediterranei. Un argomento, quello delle tracce del gliphosate nei frumenti coltivati, che tante polemiche ha suscitato negli anni recenti e che ancora suscita un vivace dibattito. Osserva al riguardo Cattivelli che se da un lato sono soprattutto i grani “di forza”, destinati ai prodotti ad alta lievitazione (si pensi ai panettoni, alla pizza o al pane) ad essere importati, nel caso del grano duro si tende invece a importare grani ad elevato tenore proteico.
Nel libro non vengono d’altra parte tralasciati gli aspetti concernenti l’interpretazione della normativa sull’origine del grano, da parte di alcuni importanti produttori del Made in Italy, per soffermarsi sulle problematiche della filiera produttiva.Il taglio del genetista negli argomenti trattati si palesa anche nella descrizione del frumento duro, tetraploide, con circa 65.000 geni mentre quello tenero, esaploide, ne presenta circa 100.000; la diversa consistenza dell’endosperma (la parte interna del seme o cariosside) nelle due specie, dipende prevalentemente da due geni specifici, noti come Pin-A-D1 e Pin-B-D1 che si trovano l’uno a fianco dell’altro sul genoma D del grano tenero, mentre risultano completamente assenti nel grano duro.
Questi geni sono quelli che codificano per due proteine tra loro simili, le puroindoline, che legandosi ai granuli di amido determinano una consistenza farinosa dell’endosperma: questa piccola differenza permette di comprendere il grande impatto sulle caratteristiche tecnologiche delle farine che si ottengono dai due distinti frumenti. Ma si fa presto a dire pasta ed infatti il lettore/consumatore più interessato avrà senz’altro rilevato, negli ultimi anni, la presenza sugli scaffali dei negozi e supermercati di confezioni di pasta di un noto marchio commerciale, fatta con il 100% di grano Aureo. Ma questa varietà è antica o moderna? Cattivelli nell’argomentare la risposta, conduce il lettore alla scoperta di quanto sia cambiato col trascorrere dei decenni il concetto stesso di qualità della pasta e come lo stesso sia diverso da paese a paese. Da noi è fondamentale la capacità di rimanere al dente, ossia consistente, al termine della cottura ma vi sono paesi dove si consuma pasta fatta esclusivamente con farina di grano tenero (noodle).
Non viene per nulla tralasciata la tematica inerente il contenuto amidaceo dei prodotti a base di frumento, la conseguente risposta insulinica, ma anche la relazione tra contenuto in amilosio (che è una delle due tipologie di amido, assieme all’amilopectina) e indice glicemico. Si apprende così che una mutazione del gene waxy codificante per l’enzima Granule-Bound Starch Synthase (responsabile della produzione di amilosio), porta a ridurre drasticamente questo tipo di amido; al contrario una mutazione in uno o più geni coinvolti nella sintesi dell’amilopectina –le amido sintasi (Starch Sintase I, SSII e SSIII) e gli enzimi di ramificazione (Branching Enzyme Ie BEII)- può ridurre il contenuto di amilopectina e di riflesso aumentare il contenuto di amilosio.
La genomica applicata ai frumenti risulta essere quindi di grande supporto della prevenzione o nella profilassi di una malattia di crescente impatto nel mondo occidentale: il diabete. Non si poteva a questo punto rinunciare a trattare anche del glutine, la principale frazione proteica del frumento costituita da due classi di proteine: gliadine e glutenine.Viene descritto come l’”indice di glutine” sia un valore percentuale utilizzato per descriverne la qualità: frumenti con contenuti proteici simili possono avere indici di glutine anche molto diversi ed è diretta conseguenza della composizione delle frazioni proteiche che lo compongono. L’autore ci spiega che questo parametro molto usato dall’industria di trasformazione, in realtà è poco noto ai consumatori; il marketing per compiacere il mondo salutistico gioca sull’equivalenza “basso indice di glutine= poco glutine”, cosa non necessariamente vera, dal momento che vengono impiegati frumenti con elevato contenuto proteico e quindi di glutine, ma con basso indice di glutine (ad esempio, i frumenti antichi). Viene altresì affrontato in maniera rigorosa il problema della celiachia, in considerazione del fatto che circa un terzo della popolazione italiana è costituito da individui geneticamente predisposti a questa patologia, tuttavia solo il 3 % la sviluppa.
Emerge che diversi studi hanno analizzato il rapporto tra malattia e frumento, senza trovare alcuna associazione tra l’uso dei frumenti moderni e la diffusione della patologia. L’esistenza e la diffusione di alcune patologie connesse all’uso del frumento, da non confondersi con la celiachia, non devono quindi avere come conseguenza una demonizzazione del suo impiego e consumo. Vi sono infatti composti noti con l’acronimo FODMAP (oligosaccaridi, disaccaridi, monosaccaridi e polioli fermentabili), responsabili della “sensibilità al frumento”.
Tuttavia osserva l’autore con stile ma in maniera decisa sulla base delle più recenti acquisizioni, che non esistono evidenze scientifiche a sostegno dell’ipotesi che il ridurre o il togliere il frumento dalla propria alimentazione, così come il consumo di frumenti particolari, abbiano un qualsivoglia valore preventivo verso lo sviluppo di tali patologie. Si scopre allora che l’affermazione più comune, ma anche la più irrazionale, sia che i grani antiche hanno sfumature di odori e sapori unici, che il grano moderno non può avere. Non pochi lettori forse non saranno d’accordo sul fatto che la diversità di sapori e profumi di tanti tipi di pane è principalmente dovuta a differenze nella lavorazione e in misura minore all’uso di farine con proprietà tecnologiche differenti (ad esempio, diversa qualità e quantità di proteine), tuttavia devono sapere (e su questo troveranno ampie argomentazioni), che queste differenze non dipendono dall’epoca in cui le varietà sono state selezionate! Così come oggettivamente certi decantati “sapori unici” in tipi di pane ottenuti da varietà antiche, sono difficilmente misurabili in modo oggettivo con una strumentazione analitica. 
A parità di condizioni agronomiche i frumenti antichi, meno produttivi, hanno più proteine e più glutine; tuttavia, esiste una certa diversità genetica per cui singole varietà (sia moderne, sia antiche), possono scostarsi dalla tendenza generale.

Sull’accusa frequente rivolta ai frumenti moderni, di essere stati “rimaneggiati” geneticamente dall’uomo, non vi è niente di più falso!

Viene infatti dimostrato che l’associazione tra frumenti moderni, mutagenesi e radiazioni, utilizzate per indurre le mutazioni, è qualcosa di cui si trova menzione solo in siti non propriamente “scientifici”. L’autore approfondisce anche il motivo del successo commerciale del Triticum turanicum, noto commercialmente come Kamut®, mediante l’analisi di ben 114 lavori riportati dalla letteratura in materia, al fine di verificare se siano effettivamente tali i tanto decantati vantaggi nutrizionali, in primo luogo i componenti bioattivi con valenza antiossidante.Lo stesso discorso vale anche per il farro monococco e non mancano le sorprese. Alla domanda se i frumenti antichi siano diversi da un punto di vista nutrizionale o salutistico quando confrontati con i frumenti moderni, la risposta è che sulla base dei dati disponibili al momento, non è possibile trarre una conclusione certa.
Per quanto attiene invece la debolezza del glutine, essa non è un carattere esclusivo dei frumenti antichi (che comunque non ne presentano un minore quantitativo in termini assoluti), così come risulta altrettanto vero che non tutti i frumenti moderni siano caratterizzati da glutine tenace.

Quanti luoghi comuni vengono smentiti in questo libro!

L’Autore non tralascia di citare alcune fakes che si trovano in Internet, nel capitolo dedicato alle Bugie in rete, alcune di queste davvero curiose e divertenti. Come quella del sito che promuove prodotti a base di grano duro Senatore Cappelli, sostenendo che questa varietà sarebbe esente da “contaminazione da mutagenesi”, in quanto le varietà di grano duro “moderne” sarebbero “OGM irradiate”. Nel testo vengono stigmatizzate queste affermazioni, in quanto prive di evidenze scientifiche: ad oggi in nessuna parte del mondo si coltiva grano duro OGM ed inoltre non esiste alcuna correlazione tra la mutagenesi fatta per ridurre l’altezza delle piante (carattere peraltro ottenuto anche a seguito di mutazioni naturali) e la modifica delle proteine del glutine. Uno scenario senza precedenti si prospetta per l’agricoltura europea, nel bene e nel male.
Da un lato l’effetto dei cambiamenti climatici, dall’altro l’esigenza, oggi molto sentita, di ridurre l’input chimico in agricoltura: esigenza che è stata concretamente delineata nella strategia europea del Farm to Fork, che richiede agli Stati membri di ridurre l’uso dei fitofarmaci del 50% e quello dei fertilizzanti del 20% entro il 2030. 
Per continuare a mangiare il pane la pasta che conosciamo, sarà necessario modificare le piante di frumento, selezionando varietà resistenti a malattie nuove o riemerse, in grado di tollerare le alte temperature e capaci di risparmiare acqua o di ricavare adeguate quantità dal suolo. La soluzione per mantenere la capacità produttiva attuale riducendo l’input chimico, passa inevitabilmente attraverso la genetica: selezionando piante geneticamente più resistenti e capaci di un uso più efficiente dei fertilizzanti si potrà ridurre la chimica in agricoltura pur mantenendo la capacità produttiva. Si apprende che una nuova frontiera è rappresentata dei frumenti esaploidi “sintetici”, ovvero le nuove varietà (alcune di esse hanno già trovato notevole successo), ottenute ripercorrendo la strada evolutiva che ha portato alla nascita del frumento tenero riproducendo l’incrocio tra il frumento duro (tetraploide) e la forma selvatica Aegilops tauscii (diploide).
Ma anche che molte varietà di frumento duro, sia moderne che antiche, hanno la spiacevole caratteristica di accumulare cadmio nei semi quando vengono coltivate su terreni ricchi di quel metallo, che è tossico per la salute. Grazie agli risultati degli studi ad oggi si è riusciti a identificare il gene responsabile di questa spiacevole caratteristica e pertanto, sarà possibile nei prossimi anni selezionare piante prive della capacità di accumulare cadmio!

Quante utili informazioni si scoprono nel leggere questo bel libro!

Non poteva giustamente mancare una indiretta e lieta nota biografica nel paragrafo Una montagna di geni da studiare. Rappresentano infatti autentiche pagine di vita, le partecipazioni negli anni 2006-2007 ai primi incontri internazionali su come sequenziare il genoma del frumento, con molti ricercatori che apparivano decisamente scettici, allora, sulla possibilità di raggiungere tale traguardo.
Fu creato allo scopo un Consorzio Internazionale (International Weath Genome Sequencing Consortium), in quanto era evidente che nessun paese avrebbe avuto le risorse necessarie per finanziare da solo tutti e 21 i cromosomi del frumento tenero. Tutti potevano però contribuire sequenziadone uno. Vi partecipò anche l’Italia attraverso un progetto finanziato dal Ministero dell’Agricoltura, dedicato al sequenziamento del cromosoma 5A.

L’obiettivo fu raggiunto nel 2018.

Fa osservare Cattivelli che a partire dal 2010 si è assistito ad una vera e propria rivoluzione tecnologica: la Next Generation Sequencing (NGS), basata su alcune nuove tecnologie che hanno permesso di semplificare e rendere più economico il sequenziamento del DNA. Si apprende con stupore che oggi si possono ottenere tratti di sequenza lunghi anche più di 20.000 basi (contro le 150 del 2015), potendo arrivare a ricostruire la sequenza perfetta, pressoché ininterrotta, di tutti i cromosomi.
Coloro i quali fossero rimasti ai fondamenti della genetica o di miglioramento genetico insegnati venti o trenta anni fa a scuola o nei corsi universitari, senza mai avere valutato queste recenti acquisizioni nella loro portata, troveranno in questo testo delle interessanti illustrazioni e motivo di ulteriore approfondimento.
In parallelo al lavoro di sequenziamento del genoma del frumento tenero, l’Autore ci descrive che nel 2016 è stato creato un Consorzio Internazionale a guida italiana (l’Autore ne era il coordinatore, n.d.r.), allo scopo di coordinare il sequenziamento del genoma del frumento duro, utilizzando le stesse tecnologie impiegate con successo per il frumento tenero. Grazie al lavoro del Consorzio, come ricorderanno anche i lettori di Agrarian Sciences nell’aprile del 2019 è stato pubblicato su Nature genetics anche il genoma del frumento duro!



(Il contributo di Luigi Cattivelli su Agrarian Sciences del 23 aprile 2019, in cui viene data notizia della pubblicazione sulla prestigiosa rivista Nature genetics del genoma di grano duro).



Non poteva ovviamente mancare un puntuale riferimento nel libro all’importanza della marker assisted selection, ma il sistema CRISP-Cas9, altamente specifico, ha infatti permesso tra il 2010 e il 2012 di mettere a punto la tecnologia del genome editing. Viene infatti ben descritta questa nuova tecnologia nei tratti essenziali, che consente di indurre mutazioni in punti predeterminati del genoma; le mutazioni indotte sono quindi verificate tramite sequenziamento del DNA e, se di interesse, selezionate. Un fatto di primaria importanza è quanto il genome editing possa offrire la possibilità di indirizzare modifiche genetiche in modo controllato e in punti precisi del genoma, anche attraverso la sola correzione di una “lettera” (nucleotide) nella sequenza di un gene, permettendo così di introdurre nuovi caratteri senza dovere ricorrere all’inserimento di geni da altre specie come quando si interviene attraverso la produzione di OGM. Un’altra possibilità offerta recentemente dalla moderna biotecnologia, consiste nel trasferimento diretto di un gene da una specie di frumento all’altra: è la tecnica denominata cisgenesi. L’Autore non manca di riportare quanto sia il genome editing che la cisgenesi rientrino sotto la più generale definizione di New Genomic Techniques (NGT), note anche in Italia come Tecnologie di evoluzione assistita (TEA).Quindi quanto le stesse TEA siano al centro del dibattito pubblico, con la discussione in atto sulla loro regolamentazione presso il Parlamento europeo, per il quale è attesa la pronuncia nel 2024.
Nel libro viene spiegato quanto queste nuove biotecnologie siano diverse dagli OGM, a partire dal fatto che non si assiste ad un trasferimento di geni chimerici tra specie distanti tra loro: nel caso del genome editing poi, non si ha alcun trasferimento di geni ma solo l’induzione di mutazioni. Trattandosi di mutazioni (ovviamente migliorative per il carattere desiderato), viene opportunamente spiegato quanto sia pressoché impossibile dimostrare a posteriori l’origine delle stesse (naturale o a seguito di genome editing): questo fatto implica di conseguenza l’impossibilità di una tracciabilità basata su dimostrazioni sperimentali.
Una svolta epocale, anche nel dibattito pro o contro l’utilizzo delle biotecnologie in agricoltura, ma quanto il mondo politico sarà in grado di apprezzarne l’importanza, l’impatto? Per i lettori più esigenti non manca nemmeno l’analisi del “miglioramento genetico evolutivo”, ossia quella tecnica che in luogo della selezione attraverso le conoscenze avanzate, propone di seminare miscugli di sementi e di affidarsi alla selezione naturale e alla selezione operata dalle condizioni climatiche. L’autore osserva l’essere questo un sistema di miglioramento genetico certamente molto poetico e affascinante, ma che prescinde nientemeno da un secolo di miglioramento genetico: siamo proprio sicuri di potere fare a meno della scienza genetica e volere tornare all’Ottocento?
Ma quanti altri argomenti sono stati adeguatamente trattati in questo libro, ma che per motivi di spazio non sono potuti essere menzionati! Primo fra tutti la tematica biodiversità e della sua salvaguardia.
Oppure il caso del grano tenero transgenico brasiliano che porta il gene HB4 del girasole, grazie al quale la pianta di grano offre migliore risposta produttiva in condizioni di carenza idrica; questo per citare solo un esempio.
Gli opportuni rimandi bibliografici a riviste scientifiche internazionali, descritti in un’apposita sezione in calce ai capitoli del libro, consentono al lettore di effettuare, se lo vorrà, ulteriori approfondimenti.

Non rimane che consigliare caldamente la lettura di “Pane nostro”, encomiabile fatica divulgativa di Luigi Cattivelli.


 

 


Alessandro Cantarelli
Laureato in Scienze Agrarie presso la Facoltà di Agraria di Piacenza, con tesi in patologia vegetale. Dal febbraio 2005 lavora presso il Servizio  Territoriale Agricoltura Caccia e Pesca di Parma (STACP), della Regione Emilia Romagna (ex Servizio Provinciale), dapprima come collaboratore esterno, successivamente come dipendente. E’ stato dipendente presso la Confederazione Italiana Agricoltori di Parma. Ha svolto diverse collaborazioni, in veste di tecnico, per alcuni Enti, Associazioni e nel ruolo di docente per la formazione professionale agricola. Iscritto all’Ordine dei dottori Agronomi e Forestali ed alla FIDAF parmensi.




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