mercoledì 28 settembre 2022

PETIT PAYSAN – UN EROE SINGOLARE

di MICHELE LODIGIANI 





Il cinema di ambiente rurale, o prettamente agricolo, costituisce un genere che ha dato al nostro paese alcuni capolavori - fra gli altri e sopra gli altri “L’albero degli Zoccoli” di Olmi e “Riso amaro” di De Santis - ma che negli ultimi decenni è divenuto sempre più marginale, assecondando da una parte ed orientando dall’altra uno spettatore che, nella trasformazione dell’Italia da paese agricolo a potenza industriale, ha dimostrato una certa fretta di dimenticare il proprio passato, forse vergognandosene un po’. Probabilmente esistono ancora cineasti interessati alle campagne e alla vita di chi ci vive e vi opera - esiste perfino un Festival del cinema rurale riservato ai cortometraggi - ma difficilmente le loro produzioni escono dai confini dei circuiti di nicchia per arrivare alla distribuzione nelle sale.
La campagna, se c’è, costituisce tutt’al più lo sfondo di vicende che poco hanno a che fare con essa; sorte anche peggiore viene riservata all’agricoltore che, se c’è, viene solitamente rappresentato in forma macchiettistica e comunque filtrata da una visione culturale estranea al suo lavoro - quando non dichiaratamente ostile - che difficilmente va oltre il luogo comune. Dalla Francia - certo non esente dalla deriva (in) culturale appena descritta, ma tutt’ora legittimamente orgogliosa della propria “grandeur” agricola arriva questa singolare, interessante e pluripremiata opera prima del regista Hubert Charuel.La vicenda: Pierre è un giovane e appassionato allevatore di bovini da latte. La sua vita è faticosa e solitaria, scandita dagli orari regolari delle mungiture, da quelli imprevedibili dei parti, dall’intensa routine del governo della mandria, dall’inquietudine per le insidie sanitarie cui essa è continuamente soggetta. Fatiche, tuttavia, ripagate da soddisfazioni che non hanno prezzo: la contemplazione - antica quanto il mondo ma non per questo meno commovente - della vacca che pulisce con la lingua e allatta il vitello appena nato; le performance produttive dell’allevamento, che lo vedono primeggiare anche nei confronti di concorrenti più ricchi e tecnologicamente evoluti.
Quella di Pierre è una passione esclusiva, perfino ossessiva, che lascia poco spazio a tutto quello che non ha a che fare con il lavoro: egli si mostra indifferente alle “avances” della bella panettiera con cui la madre vorrebbe ammogliarlo e la sua vita sociale si riduce a qualche birretta in compagnia degli amici, alle cui insistenze a volte non può fare a meno di cedere. Tutto ciò, comunque, sembra bastargli: fra Pierre e le sue vacche si rinnova quotidianamente il patto che Uomo e Animale hanno stipulato fin dai tempi ancestrali della prima domesticazione, dove l’uno e l’altro non si vedono come semplici ingranaggi di un processo produttivo, ma si riconoscono piuttosto come alleati nel sostegno reciproco tanto a livello individuale che di specie. Questo delicato equilibrio è disgraziatamente stravolto da un fatto drammatico: in Francia si diffonde una epizoozia nuova e incurabile, la HDF (febbre emorragica dorsale), morbo in realtà inesistente nella pratica veterinaria, ma nei cui effetti sugli allevamenti si possono riconoscere facilmente quelli provocati dalla BSE (Encefalopatia Spongiforme Bovina, meglio nota come morbo della mucca pazza). Pierre è ansioso fino alla paranoia. Crede di riconoscere in una delle sue vacche i sintomi della malattia. Le rassicurazioni della sorella veterinaria, che visita accuratamente l’animale sospetto, non bastano a tranquillizzarlo; il suo scetticismo nei confronti della diagnosi (che si rivelerà in effetti sbagliata) rende inevitabile il ricorso al servizio pubblico e quindi la programmazione di una verifica ufficiale dell’intera mandria. 
Da qui il film, pur mantenendo piena coerenza con le premesse ambientali e narrative, cambia registro, trasformandosi in una sorta di “thriller zootecnico” condotto con notevole padronanza del mestiere.Si preferisce qui non dire di più per non compromettere la “suspense” che le vicende dello sventurato allevatore - cui non si può guardare senza partecipazione - sanno suscitare. Più ancora della buona fattura cinematografica - particolarmente apprezzabile quando si consideri che si tratta di un’opera prima - si vuole qui mettere in evidenza la profonda veridicità del film, proprio perché questo aspetto più di ogni altro lo distingue dalla gran parte delle pellicole che hanno per tema o per sfondo l’azienda agricola. L’eroismo di Pierre è fatto di piccoli gesti quotidiani, quelli comuni ad ogni allevatore che governa personalmente la propria mandria; la sua singolarità è solo un poco più estrema di quella di tutti coloro che hanno scelto un lavoro che impegna letteralmente notte dì per 365 giorni all’anno, in un mondo in cui il tempo libero costituisce un diritto intangibile, ancorchè spesso malamente impiegato. 
Così la sua vicenda, di per sé coinvolgente, assume un valore paradigmatico e induce a riflessioni serie sul presente e sul futuro della zootecnia in una società che sempre più la pone sotto accusa, la condanna senza conoscerla, le riserva uno stigma che riporta l’allevatore ai livelli più bassi della considerazione sociale, dove già si trovava fino a qualche decennio fa, sia pure per motivi (o, meglio, per pregiudizi) del tutto diversi da quelli di allora. Non a caso Hubert Charuel, il regista, è cresciuto in una azienda agricola, proprio in quella dove ha ambientato il suo film. In una bella intervista che si può trovare in rete (QUI) dimostra di conoscerne assai bene i problemi e le dinamiche: “Si lavora sette giorni alla settimana, bisogna mungere le vacche due volte al giorno, tutto l'anno, tutta la tua vita”. Essendosi trovato nella necessità di sostituire per 6 mesi la madre costretta all’inattività da un incidente dichiara: “Durante quei sei mesi di disciplina ultra-rigorosa, ero al meglio della forma fisica e mentale! Sono stato bene, me la sono cavata con le vacche”; ma confessa: “Alla fine ho capito che mi sentivo bene perché sapevo che sarebbe finita”. 
Da queste consapevolezze - certo non comuni e non solo nel mondo del cinema - nasce l’empatia del regista per il suo personaggio, la comprensione per i suoi eccessi e per i suoi errori, la credibilissima rappresentazione della famiglia agricola. “Petit Paysan” costituisce, sotto molti aspetti, il contraltare perfetto de “La fattoria dei nostri sogni”. Là, con pretese documentaristiche, si rappresentava un’agricoltura fasulla, idealizzata, in cui la natura (purché lasciata a se stessa) premiava con prodigalità chi vi si affidava passivamente; qui, anche se si tratta dichiaratamente di fiction, la realtà - della natura, degli uomini e degli eventi - è assai più presente. Se si vuole dare un futuro all’agricoltura (e all’umanità) è di essa che occorre tener conto.
 
L'articolo è uscito in orgine su "I TEMPI DELLA TERRA "
 
 


Michele Lodigiani
Agronomo, è agricoltore a Piacenza da più di quarant’anni. Per curiosità intellettuale e vocazione imprenditoriale è stato spesso pioniere nell’adozione di innovazioni di prodotto e di processo, con alterne fortune. Ha un rapporto di fiducia con la Scienza, si commuove di fronte alle straordinarie affermazioni dell’intelligenza umana (quando è ben impiegata), osserva con infinito stupore la meravigliosa armonia che guida i fenomeni naturali. 


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