di PIERMARIA CORONA
Introduzione
I boschi italiani rappresentano la più grande infrastruttura verde del Paese, e la loro tutela e valorizzazione è una responsabilità non solamente dei proprietari, ma anche della intera società, essendo un bene comune, legato alla storia e alla cultura, nonché il principale strumento a scala territoriale per la limitazione del rischio idrogeologico, la lotta ai cambiamenti climatici, la salvaguardia della biodiversità e del paesaggio, la depurazione e regimazione delle acque.
Il futuro del nostro Paese dipende anche da come percepiamo, tuteliamo e gestiamo questo patrimonio, fondamentale e rinnovabile risorsa per lo sviluppo socioeconomico soprattutto delle aree interne e montane. In questa nota estesa viene proposta una riflessione generale sul tema, alla luce dei principali e più recenti dati disponibili sul settore.
Quadro di riferimento
In Italia, oltre il 36% della superficie territoriale è coperto da foreste, per un totale di quasi 11 milioni di ettari: in dettaglio, ci sono 9.165.505 ettari di bosco (circa 1.500 m2 per abitante) e 1.816.508 ettari di altre terre boscate (come definite dalla FAO, 2012); nell’ultimo decennio la superficie forestale è aumentata di oltre mezzo milione di ettari, circa 64.000 campi da calcio ogni anno, un nuovo campo ogni 9 minuti (RRN, 2020).
I boschi italiani contengono oltre 11,8 miliardi di alberi (circa 200 alberi per abitante), appartenenti a oltre un centinaio di specie diverse (Gasparini e Tabacchi, 2011). I soprassuoli misti, con almeno due specie arboree prevalenti, rappresentano oltre la metà della superficie forestale, e quelli con almeno quattro specie oltre il 20%. Il 4% della superficie forestale è coperto da specie arboree non autoctone (a es. Robinia pseudoacacia, Eucalyptus sp.p.).
I soprassuoli boschivi sono prevalentemente di origine naturale e caratterizzati da rinnovazione naturale, per seme nelle fustaie, che rappresentano poco meno della metà della superficie forestale, e propagazione vegetativa nei cedui. I rimboschimenti rappresentano circa 0.6 milioni di ettari.
I boschi italiani contengono 1,4 miliardi di metri cubi di legno, con una media di circa 151 m3 per ettaro (Gasparini e Tabacchi, 2011). L’incremento corrente annuo di volume legnoso raggiunge 40 milioni di m³ (Cazzaniga et al., 2019).
Vengono fissati annualmente, in media, quasi 8 milioni di tonnellate di carbonio atmosferico, pari a circa 30 milioni di tonnellate di CO2 sottratte annualmente dall’atmosfera (Tabacchi et al., 2010; Barbati e Corona, 2015). Lo stock di carbonio organico all'interno delle foreste italiane ammonta a 1,2 miliardi di tonnellate, ovvero, in media, 142 tonnellate per ettaro per i quattro pool: biomassa epigea, necromassa, lettiera, suolo (quest'ultimo da solo rappresenta quasi il 60% dello stock di carbonio nei boschi).
I due terzi dei boschi sono di proprietà privata. La estensione delle proprietà è mediamente molto limitata (circa 3 ettari), soprattutto per quelle private dove oltre un milione di proprietari possiede meno di un ettaro di bosco. Le proprietà pubbliche, di cui oltre il 70% è patrimonio dei Comuni, sono più ampie: mediamente intorno a qualche centinaio di ettari, ma con casi anche di varie migliaia di ettari.
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Box 1 - Disturbi
La maggior parte dei boschi italiani (oltre due terzi) è in buono stato fitosanitario: i fattori biotici sono i principali responsabili dei danni per defogliazione e in particolare il 20% è attribuibile a insetti fitofagi, mentre il 5% è dovuto all’azione di funghi. Gli altri fattori che provocano defogliazione degli alberi sono la siccità e i picchi di temperature alte nella stagione estiva.
Peraltro, il patrimonio forestale del nostro Paese è fortemente minacciato dagli incendi, che negli ultimi decenni hanno percorso grandi superfici (mediamente, poco meno dell’1% della intera superficie forestale ogni anno) e anche perdite di vite umane: l’Italia è il terzo Paese più interessato dagli incendi boschivi in Europa, dopo Spagna e Portogallo. Le cause sono quasi esclusivamente di origine antropica (dolosa o colposa), legate in prevalenza, direttamente o indirettamente, al progressivo abbandono di aree agricole e di pascolo, alla carenza di una appropriata gestione del territorio e, in una certa misura, anche all’approccio di difesa concentrato principalmente sulla lotta agli incendi attivi piuttosto che sulla prevenzione.
Un ruolo non secondario lo stanno avendo i cambiamenti climatici: se da un lato le foreste assorbono e trattengono carbonio, svolgendo quindi un ruolo determinante nel mitigare gli effetti di tali cambiamenti, dall’altro, l’aumento delle temperature medie annuali, l’alterazione del regime delle precipitazioni e il verificarsi di eventi meteorologici estremi (per intensità e frequenza) ne mettono a rischio funzionalità e salute, esponendole sempre più a siccità, incendi e tempeste da vento.
A livello europeo i fenomeni di quest’ultimo tipo sono la causa di oltre la metà dei danni al patrimonio forestale. Nel nostro Paese negli anni recenti si sono avute tempeste particolarmente intense e dannose in Toscana nel 2015 e, soprattutto, in Nord Italia nell’autunno del 2018 con la tempesta Vaia, caratterizzata da raffiche superiori a 200 km/h e che ha interessato una superficie totale di oltre due milioni di ettari e provocato l’atterramento di oltre 12 milioni di metri cubi d legname.
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Box 2 - Vincolistica
I boschi costituiscono beni di precipuo interesse pubblico. In tal senso, la gestione forestale, anche nelle proprietà private, è condizionata da una serie di indicazioni vincolanti e prescrizioni definite giuridicamente dalle Regioni e Provincie autonome nel quadro della normativa di indirizzo nazionale oggi rappresentata dal Testo Unico in materia di Foreste e Filiere Forestali (TUFF, D.Lgs. 34/2018).
Peraltro, quasi il 90% delle foreste italiane è soggetto a vincolo idrogeologico (ai sensi del R.D.L. 3267/1923) e tutte sono soggette al vincolo paesaggistico (D.L. 42/2004). Un ulteriore vincolo di carattere naturalistico interessa oltre un terzo del patrimonio forestale, cioè quello incluso nelle aree protette (ai sensi della L. 394/1991) e/o nei siti della Rete Natura 2000, per complessivi quasi 4 milioni di ettari.
Le foreste italiane sono le più “vincolate” in Europa, ma ciò non significa che siano anche le più tutelate. L’insieme di vincoli imposti va a limitare significativamente la disponibilità del bene da parte del proprietario, e possono giungere fino alla completa indisponibilità, a esempio nelle aree di Riserva integrale all’interno di Parchi naturali. Se però questi vincoli non sono abbinati a strumenti di compensazione e valorizzazione delle utilità ecosistemiche rischiano di avere effetti parziali, favorendo conflitti e agevolando l’abbandono gestionale: i vincoli sono istituti per finalità di interesse pubblico di cui beneficia tutta la comunità ma i cui costi, in termini di limitazioni della disponibilità del bene, ricadono solo sulla proprietà. Una politica che mira alla tutela intesa come maggiore cura e protezione deve limitare i conflitti e l’abbandono e deve mirare alla creazione di legami tra proprietari, portatori di interesse e superfici boscate: se si vuole aumentare la tutela delle foreste vanno, appunto, rafforzati questi legami con strumenti che, oltre a definire i limiti dell’esercizio della proprietà ai fini dell’interesse pubblico e a sanzionare le illegalità, compensino i proprietari per le limitazioni alla disponibilità del bene, favoriscano la gestione dei beni di interesse pubblico e coinvolgano i proprietari anche premiando le modalità di gestione virtuosa.
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Produzioni legnose
Il tasso di prelievo di massa legnosa dai boschi italiani viene stimato intorno al 35% dell’incremento naturale annuo (Cazzaniga et al., 2019), nonostante circa l’80% della superficie forestale sia potenzialmente disponibile al prelievo, cioè non soggetto a limitazioni significative (Gasparini e Tabacchi, 2011).
Se valutate in termini di superfici interessate, la maggior parte delle utilizzazioni avvengono a carico di popolamenti di latifoglie, mentre in termini di massa legnosa non si ha una differenza sostanziale rispetto ai boschi di conifere (RAF, 2019). Le superfici oggetto di interventi selvicolturali interessano prevalentemente popolamenti governati a ceduo (circa il 50% di superficie in più rispetto a quelli a fustaia), ma la massa legnosa prelevata nelle fustaie è maggiore di oltre il 50% rispetto ai cedui. La quantità di legname da opera prodotta annualmente dalle fustaie è tendenzialmente in regressione (ovviamente prescindendo da situazioni particolari e contingenti quali quelle legate alla utilizzazione del legname abbattuto dalle recenti tempeste di vento). Nei cedui invece, tranne quelli di faggio, il livello delle utilizzazioni legnose si mantiene relativamente sostenuto, sebbene si registri la tendenza alla concentrazione delle utilizzazioni legnose nelle zone più facilmente accessibili.
Le utilizzazioni forestali nelle proprietà private interessano una superficie pari a circa il doppio rispetto a quelle in proprietà pubbliche, con una massa legnosa prelevata superiore di circa il 50% rispetto a quella prelevata in proprietà pubbliche. La proprietà forestale privata risulta un elemento fondamentale nell'ambito dell'assetto produttivo del settore forestale in gran parte delle Regioni italiane: di conseguenza, le strategie di sostegno alle pratiche selvicolturali da parte dei soggetti privati rappresentano un tema strategicamente importante e non trascurabile sotto il profilo della politica forestale nazionale.
La suddivisione delle utilizzazioni legnose per tipo di assortimento evidenzia come il legname da lavoro (legname da trancia e da sega, per paste e altro legname per uso industriale) costituisce poco più di un terzo del materiale legnoso complessivamente prelevato; la maggior parte di questa produzione (60%) è concentrata nel Nord-Est del Paese, dove sono presenti le più importanti fustaie produttive del Paese. Per quanto riguarda la legna da ardere, il 90% proviene da formazioni boschive di latifoglie ed in particolare da querceti misti con governo a ceduo predominanti nel Centro Italia e rappresentano più del 50% dei boschi commercialmente produttivi.
La capacità produttiva complessiva dei boschi italiani, vale a dire la quantità di legname che sarebbe potenzialmente utilizzabile ogni anno, è elevata: escludendo le perdite dovute a cause naturali e la massa legnosa in aree soggette a vincoli ambientali e naturalistici, si stima una disponibilità potenziale media non inferiore a circa 30 milioni di metri cubi di legname all’anno (Tabacchi et al., 2010). Solamente una parte di questa massa legnosa è in realtà economicamente ritraibile dai boschi, trattandosi, in vari casi, di soprassuoli scarsamente accessibili, spesso anche per inadeguata presenza di idonea viabilità forestale, dove il costo delle utilizzazioni, con le attuali tecniche e con l’attuale prezzo di mercato del legname, supera i ricavi delle vendite: condizioni realistiche sotto il profilo tecnico-finanziario per l’utilizzazione delle produzioni legnose dei boschi italiani si hanno comunque per almeno il 50% in più di massa prelevabile all’anno rispetto all’attualità. Peraltro, anche in questa ipotesi il tasso di prelievo legnoso dai boschi italiani rimarrebbe significativamente inferiore alla media europea, che è pari a circa il 70% (Forest Europe, 2020).
Sulla base dei dati presentati si evince come non sia vero che nelle foreste italiane si tagli troppo, come ripetutamente sostenuto da campagne di fake news lanciate negli ultimi anni sui social media: il tasso di prelievo in Italia è uno dei più bassi dei Paesi dell'Unione Europea e di gran lunga inferiore all'incremento legnoso annuo, tanto è che Forest Europe (organismo europeo che si occupa della gestione sostenibile delle foreste) ha raccomandato all'Italia di "aumentare il prelievo in modo sostenibile" (Forest Europe, 2020). Questo perché a fronte di una relativamente modesta pressione produttiva sugli ambienti boschivi, il nostro Paese è caratterizzato da una forte dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento di legno.
L'Italia è tra i principali Paesi produttori ed esportatori di mobili a livello mondiale e importa dall’estero oltre due terzi del suo fabbisogno di legno, che, nel complesso, ammonta a oltre 50 milioni di metri cubi all’anno (Marchetti et al. 2018). Tra l’altro, è il primo importatore mondiale di legna da ardere ed il quarto di cippato e scarti in legno.
Questa dipendenza dall’estero per la materia prima legno è causa di numerose problematiche (wood insecurity), quali quelle relative alla possibilità che il legname importato provenga da attività illegali o da forme di gestione non sostenibile nelle zone di origine. Dunque, il risparmio nell’utilizzo delle foreste in Italia, oltre ad avere costi economici e anche ecologici diretti, legati al trasporto della materia prima verso il nostro Paese, comporta, indirettamente, anche un danno ambientale a scala globale, con ineludibili criticità sotto il profilo etico. Va inoltre tenuto anche conto che è prevista una significativa riduzione della disponibilità di legname sul mercato globale nei prossimi decenni, in parte perché le risorse disponibili a livello mondiale stanno diminuendo, in parte perché molti Paesi cosiddetti in via di sviluppo stanno aumentando i livelli di trasformazione interna dei prodotti forestali.
Vi sono, dunque, importanti motivazioni e significativi margini per un calibrato incremento dell’approvvigionamento di risorse legnose dai boschi italiani nel contesto di una puntuale pianificazione forestale e di una razionale selvicoltura secondo criteri di sostenibilità. Premesse l’opportunità di preservare i lembi esistenti di boschi vetusti e i boschi di particolare valore naturalistico e l’utilità di una loro espansione in determinate condizioni, è possibile adottare, in varie situazioni, interventi selvicolturali coerentemente pianificati per il miglioramento della produzione legnosa nazionale (Fares et al., 2015).
Produzioni non legnose e utilità ecosistemiche
Il valore commerciale dei prodotti forestali non legnosi (sughero, tartufi, miele, castagne, funghi, piccoli frutti, pascolo, ecc.) è ufficialmente valutato, per ampio difetto (considerato che una parte molto rilevante non è registrata), in circa 100 milioni di euro all’anno. Peraltro, in talune aree questi prodotti possono garantire redditi superiori a quelli ritraibili dalle utilizzazioni legnose, come nel caso della sughericoltura in Sardegna, del pascolo ovicaprino in Sicilia e Sardegna, del pascolo bovino nei lariceti alpini o della vendita dei permessi per la raccolta dei funghi in varie aree prealpine e appenniniche.
Le utilità ecosistemiche sono quelle che si ottengono dai sistemi naturali e che forniscono alla società un’ampia gamma di benefici: di supporto (es. formazione del suolo), di approvvigionamento (es. prodotti legnosi e non legnosi), di regolazione (mitigazione climatica, controllo dell’erosione, depurazione delle acque) e valori culturali (estetici, spirituali, educativi, ricreativi). Si registra una crescente attenzione, anche normativa (v. art. 7 comma 8 del TUFF), verso queste utilità, sebbene i sistemi per la loro effettiva remunerazione (v. anche art. 70 della L. 221/2015) non abbiano ancora trovato estese applicazioni in ambito forestale, tranne forse il caso del mercato volontario di compensazione del carbonio che nel 2018 ha raggiunto un valore pari a 0,9 milioni di euro (RAF, 2019).
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Box 3- Arboricoltura da legno
In Italia quasi centomila ettari di terreni agricoli sono dedicati all’arboricoltura da legno (Mattioli et al., 2019).
In particolare, la pioppicoltura, che interessa circa 50.000 ettari e fornisce circa la metà del legname nazionale a uso industriale (Levarato et al., 2018), offre interessanti possibilità di reddito nelle situazioni, quali quelle della pianura padano-veneta, dove i pioppi ibridi trovano condizioni di crescita ottimali (Coaloa et al., 2020). Al contrario, nella gran parte delle situazioni l’arboricoltura con latifoglie a legname pregiato è attualmente al limite della sostenibilità economica o addirittura in negativo: il problema più rilevante, oltre alla non infrequente modesta attitudine produttiva dei terreni investiti e alle carenze gestionali, è l’aleatorietà del mercato del legname ritraibile a fine turno. Interessanti produzioni possono, peraltro, essere ottenute dalle piantagioni policicliche con pioppo misto a specie a arboree a legname pregiato (noci, farnia, ecc.) che presentano risultati finanziari paragonabili e talvolta superiori a quelli ottenuti dai migliori pioppeti in purezza. Considerandone i vantaggi di natura ecologico-ambientale (riduzione input energetici, maggiore biodiversità, elevato stoccaggio del carbonio), oltre a quelli di carattere economico-finanziario, anche questo tipo di piantagioni può rappresentare una opportunità per aumentare le superfici coltivate ad arboricoltura da legno e ridurre il forte deficit nazionale di legno di pioppo. Una delle conseguenze di questo squilibrio tra le esigenze dell’industria italiana di trasformazione e la capacità produttiva di materia prima nazionale, soprattutto per quanto riguarda il legno per compensati e tranciati, è rappresentato dalla relativa fragilità dell’industria, sempre più legata dalle scelte di mercato dei Paesi stranieri (Corona et al. 2018).
Sono, dunque, evidenti le esigenze e le opportunità per una rinnovata espansione dell’arboricoltura da legno in Italia, a cominciare dalla pioppicoltura (in purezza o con impianti misti policiclici): in questa prospettiva, gli incentivi previsti dai programmi di sviluppo rurale possono rappresentare efficaci strumenti di supporto per lo sviluppo di questo segmento della filiera legno.
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Box 4 - Pianificazione e certificazione della gestione forestale
La pianificazione forestale di dettaglio è relativamente poco diffusa a livello nazionale: secondo RAF (2019), soltanto il 18% della superficie forestale è gestito mediante piani di gestione forestale e strumenti equivalenti. In tal senso, risulta pressante una loro maggiore diffusione, a varie scale (v. art. 6 del D.Lgs. 34/2018), a favore di una gestione integrata e multifunzionale delle proprietà boschive pubbliche e private.
Analogamente maggiore diffusione meriterebbe la certificazione forestale, per una promozione della gestione forestale sostenibile anche in termini di comunicazione e riconoscimento nei confronti del grande pubblico oltre che per collegare al meglio e in modo sinergico i proprietari boschivi con le aziende della filiera legno in possesso delle certificazioni di catena di custodia. I due sistemi di certificazione attivi in Italia (FSC - Forest Stewardship Council e PEFC - Programme for Endorsement of Forest Certification schemes) attualmente interessano solamente il 9% della superficie forestale nazionale (RAF, 2019): la diffusione maggiore si riscontra nelle Provincie di Trento e Bolzano e nelle regioni Friuli Venezia-Giulia, Lombardia, Toscana e Piemonte. La certificazione della gestione sostenibile delle piantagioni di legno, e in particolare della coltivazione del pioppo, riguarda circa il 10% di questa tipologia colturale.
La catena di custodia FSC® evidenzia un forte interesse per l'industria dell’arredamento e della trasformazione secondaria della carta (stampati, imballaggi, in carta e cartone), mentre la certificazione della catena di custodia PEFC è impiegata maggiormente nei settori della prima trasformazione del legno e dell'edilizia.
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Filiera legno
In Italia il macrosettore foreste-legno comprende 320.000 addetti, con 77.000 imprese e un turn-over annuale di circa 42 miliardi di euro (Assopannelli, 2018). La filiera, grazie soprattutto all’efficacia dell’industria del mobile, garantisce un saldo commerciale positivo nonostante la dipendenza dall’estero per le materie prime legnose. Con il 15% delle imprese è il secondo settore dell’industria manifatturiera italiana.
La struttura della filiera viene tradizionalmente suddivisa in quattro macroentità: la produzione forestale (selvicoltura e utilizzazioni forestali), effettuata da imprese, singole e associate di utilizzazione; la prima trasformazione che comprende la produzione di materiali semilavorati, le imprese del comparto dei pannelli a base di legno e dell'imballaggio; la seconda lavorazione, formata dall'industria della carta, del mobile, e altre produzioni in legno; la filiera energetica della biomassa legnosa. Le componenti risultano legate fra di loro da scambi intersettoriali che presentano frequenti collegamenti e competizione nell’approvvigionamento delle materie prime. Il crescente interesse degli ultimi anni, sia politico che imprenditoriale, per l’utilizzo delle biomasse legnose per fini energetici ha generato variazioni di mercato, con una crescente competizione nell'uso della materia prima tra settore energetico e industriale (in particolare, con significative ripercussioni sul comparto industriale dei pannelli in legno). Attualmente, circa due terzi della massa legnosa prelevata nel nostro Paese hanno un utilizzo a fini energetici, e la quota di questo specifico utilizzo rispetto al fabbisogno totale di legno, includendo anche le importazioni, è addirittura pari all’80% (Cazzaniga et al., 2019).
La selvicoltura e le utilizzazioni delle produzioni legnose e non legnose rappresentano il 6% del valore aggiunto dell’agricoltura italiana e il 0,13% del prodotto interno lordo nazionale e occupa direttamente oltre 27.000 addetti (non sono inclusi in questo conteggio i cosiddetti operai forestali stagionalmente assunti principalmente a fini di assistenza occupazionale da parte di amministrazioni pubbliche). Il settore coinvolge quasi 6000 imprese forestali, singole e associate (cooperative, consorzi, società o conduzione familiare), il 72% delle quali sono società individuali e solo il 7% società di capitali. Nell’ultimo decennio il numero delle imprese è rimasto complessivamente invariato ma è diminuito nel centro Italia (Lazio, Marche) mentre è aumentato al Nord (Valle d’ Aosta, Lombardia, Fiuli Venezia-Giulia). La maggior parte delle imprese forestali risulta di piccole dimensioni e associa alla raccolta e commercializzazione di legname altre attività quali ad esempio la manutenzione delle aree verdi e della viabilità pubblica (sgombero neve), ingegneria naturalistica o lavori agricoli.
Gli operatori forestali nelle amministrazioni regionali sono circa 47.000, di cui il 6% nelle regioni del Nord, il 2% nelle regioni del Centro e il 92% nelle regioni del Sud.
Il settore della prima trasformazione del legno, che comprende le segherie e le aziende specializzate nel taglio e dimensionamento di legno per l’edilizia e per l’arredo, contava nel 2017 poco più di 25.000 imprese e oltre 100.000 addetti. Rispetto ai dati del 2008 si è registrata una diminuzione del 28% nel numero di imprese e del 34% nel numero di addetti. Il 60% delle imprese mostra un volume d’affari inferiore a 100.000 euro e oltre due terzi di queste un volume inferiore a 50.000 euro. Il 60% degli addetti e il 48% delle imprese si trova in Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Marche e Umbria.
Strategie gestionali
La gestione forestale rappresenta lo strumento principale per valorizzare le funzioni ambientali, sociali ed economiche del bosco (Marchetti et al., 2018). La Risoluzione del Parlamento europeo del 28 aprile 2015 sulla Strategia forestale europea ha evidenziato come la mancata gestione responsabile delle risorse forestali possa direttamente compromettere il conseguimento di importanti obiettivi sociopolitici dell’Unione, quali la transizione energetica, la mitigazione e l’adeguamento al cambiamento climatico, e la realizzazione della strategia Europa 2020 e di quella sulla biodiversità. In una prospettiva globale e multifunzionale è auspicabile una rinnovata attenzione anche al ruolo produttivo del bosco, attraverso una gestione volta sia a garantire la conservazione del capitale naturale che a coglierne le potenzialità da un punto di vista socioeconomico ed etico. Sotto il profilo finanziario la politica di sviluppo rurale rappresenta il principale strumento per il perseguimento degli impegni internazionali sottoscritti dal Governo italiano in materia ambientale, climatica ed energetica connessi al settore forestale. Sotto il profilo operativo il riferimento è alla gestione forestale sostenibile per massimizzare le utilità ecosistemiche preservando il capitale naturale, con un atteggiamento responsabile volto a valorizzare anche produttivamente, ove possibile e opportuno, le risorse forestali nazionali secondo un approccio di intensificazione sostenibile (Lombardi et al., 2020).
In molte realtà si continua ad assistere alla marginalizzazione economica delle attività tradizionali legate alla gestione del bosco che, tra l’altro, vanno lentamente a depauperare il “paesaggio umano” della montagna senza il quale la stessa offerta turistica (sulla quale è spesso virata in modo monotematico l’economia di molti territori) viene penalizzata. Con il venir meno delle pratiche di ordinaria gestione forestale si perdono professionalità e cultura legate alla gestione dei boschi, nonché l’opportunità di garantire una concreta tutela del territorio e di generare occupazione e imprenditorialità per molte aree interne del Paese, una negazione dei principi della bioeconomia. In molte aree il rapporto tra le attività di utilizzazione forestale e l’industria del legno si è, di fatto, disarticolato, e sempre più viene a concentrarsi nella legna da ardere, il prodotto a minor valore aggiunto ottenibile dai boschi. L’opzione di utilizzo dei boschi non per la produzione di legname impiegabile nei settori dell’edilizia, dei mobili e di altri prodotti ad alto valore aggiunto ma a fini di produzione di energia segue una logica opposta a quella dell’economia circolare, secondo la quale le biomasse a fini energetici dovrebbero derivare, in base al principio “a cascata” fatto proprio dalla Strategia forestale dell’Unione Europea, dal riutilizzo dei prodotti a fine ciclo e degli scarti di produzione.
Tra l’altro, l’utilizzo a fini energetici dei prodotti forestali in Italia si basa, in vari casi, sulla trasformazione in grandi centrali, ubicate sul territorio in modo non ottimale rispetto all’approvvigionamento. La sostenibilità ambientale ed economica della filiera foresta-legno-energia risiede invece nello sviluppo di piccoli impianti (di dimensione inferiore a 1-2 MW) e nella filiera corta di approvvigionamento. La filiera dovrebbe comunque essere migliorata incentivando un approccio a cascata nell’utilizzo dei materiali e delle biomasse legnose e, soprattutto, dimensionando gli impianti sulle reali potenzialità di approvvigionamento locale, verificando la disponibilità di aree forestali gestite e suscettibili di interventi selvicolturali volti alla produzione di biomassa in prossimità dei centri di trasformazione finale. In questo quadro l’approvvigionamento per i settori della bioenergia andrebbe configurato anche rispetto alla opportunità di soluzioni almeno parziali di problematiche emergenti di assetto del territorio quali l’abbandono e imboschimento naturale generalizzato della montagna, il mantenimento della pervietà e della sicurezza idrogeologica degli alvei, l’assetto delle interfaccia tra aree boscate e infrastrutture in aree forestali anche nei confronti della incidentalità dovuta all’incremento faunistico e del miglioramento del valore paesaggistico e turistico della viabilità, interventi che potrebbero trovare in vari casi un minimo di giustificazione economica.
Azioni operative
I proprietari di boschi vanno aiutati a coniugare la gestione sostenibile, la rinaturalizzazione e la conservazione della biodiversità con la possibilità di non deprimere le produzioni forestali e i relativi redditi: nessuna delle funzioni richieste al bosco può essere perseguita senza un coinvolgimento diretto dei proprietari, tale da permettere una concreta attivazione dei molteplici aspetti economici, sociali e ambientali che contraddistinguono la gestione sostenibile. I proprietari italiani di boschi si trovano però, generalmente, a operare in condizioni di difficoltà per la frammentazione delle superfici gestite e l’inadeguato accesso a un mercato sempre più globale e competitivo, aggravate spesso dalla carenza di infrastrutture a livello locale e di idonee forme di integrazione gestionale e cooperazione commerciale.
In questo contesto, le azioni operative per il rilancio e la valorizzazione delle produzioni forestali nazionali possono essere orientate a (Corona et al., 2019):
-promuovere accordi territoriali di settore, favorendo l’attivazione di sinergie di filiera e di reti interaziendali (reti di impresa), caratterizzate da processi produttivi a basse emissioni di carbonio;
-promuovere l’associazionismo delle proprietà silvopastorali e delle attività agro-silvo-pastorali (attraverso consorzi, cooperative, associazioni fondiario tra pubblico-privato e privato-privato, condomini forestali, Banca delle Terre pubbliche, ecc.);
-promuovere investimenti ecocompatibili per le infrastrutture di accesso alle foreste, integrate con la viabilità ordinaria al fine di rendere meno costosi e più sicuri i lavori forestali, aumentare il valore di macchiatico, favorire il presidio antincendi boschivi e la valorizzazione turistica (cicloturismo, ippoturismo, ecc.);
-favorire la gestione forestale attraverso meccanismi di "sostituzione" temporanea della proprietà al fine di recuperare, ove opportuno e possibile, le capacità ecologiche e produttive di quelle abbandonate e silenti e prevenire eventuali processi di degrado per l’incolumità pubblica;
-favorire forme di integrazione pubblico-privato al fine di garantire la valorizzazione quantitativa e qualitativa dei prodotti forestali, attraverso la regolamentazione normativa della possibilità di concessione delle proprietà forestali pubbliche alla gestione di privati, la definizione di contratti di vendita pluriannuali dei lotti di proprietà pubblica (consentendo alle imprese boschive di investire in attrezzature specializzate), ecc.;
-prevedere che i piani di gestione forestale una volta approvati non debbano nuovamente seguire ulteriori iter autorizzativi per gli interventi previsti sui singoli aspetti ambientali, paesaggistici, ecc.;
-riconoscere la responsabilità sociale dei gestori e delle imprese forestali nell’erogazione di beni e utilità per l’interesse e l’incolumità pubblica, sostenendo azioni fiscali a supporto del settore (es. promozione di aliquote IVA agevolate per i prodotti di origine legnosa, ecc); in questo contesto, particolare rilevanza può avere la defiscalizzazione degli interventi di manutenzione boschiva: questo tipo di agevolazione era stata introdotta dalla L. 448/2001 e attuata nel 2002 (Art. 9 L. 388/2000), 2003 (Art. 2, co. 5, L. 289/2002) e 2004 (Art. 2, co. 12-15-16 L. 350/2003) come estensione oggettiva del beneficio concesso ai contribuenti in relazione al sostenimento di spese per la realizzazione di interventi di restauro su unità immobiliari e parti comuni di edifici residenziali; pur considerando la difficoltà di valutazione del minor gettito fiscale per lo Stato, questo strumento, oltre al concreto beneficio finanziario per gli interventi di recupero e valorizzazione colturale dei boschi nel caso di interventi a macchiatico negativo, avrebbe il grande ruolo, sotto il profilo culturale e sociale, di comparare il bene "bosco" al bene "casa", in una visione operativa pienamente conforme a quello che è il concetto di ecologia;
-promuovere e valorizzare nell’ambito delle filiere a materia prima rinnovabile legno, la sua capacità di stoccare carbonio atmosferico e il principio dell'uso a cascata delle risorse legnose (residui forestali e delle imprese di lavorazione del legno); la valorizzazione del materiale secondo la più opportuna destinazione d’uso può, a esempio, essere conseguita favorendo la realizzazione di piattaforme logistiche per la concentrazione e selezione del materiale da inviare alle diverse destinazioni (industriale, artigianale, energetica);
-valorizzare i prodotti forestali legnosi e non legnosi nazionali promuovendo i sistemi di tracciabilità e certificazione basati su schemi volontari orientati al mercato, favorendo il ricorso a marchi di origine, o legati al territorio, e azioni di marketing e comunicazione di prodotto e territori e incentivando le politiche di “acquisti ecologici” di prodotti derivanti da foreste gestite in modo sostenibile da parte dei settori pubblico e privato.
Considerazioni conclusive
La tutela della foresta non può essere perseguita unicamente in una logica conservativa. Al contrario, richiede una selvicoltura razionale e attenta, determinante per lo sviluppo socioeconomico delle aree interne e montane in un quadro di compatibilità ambientale: promuovere la selvicoltura significa, infatti, favorire gli aspetti positivi della bioeconomia e una economia verde, conservando e generando posti di lavoro e capacità reddituali e agevolando la competitività delle imprese e industrie di settore. In questa direzione, si registrano l’introduzione di innovazioni tecniche e di prodotto, nonché l’aggiornamento degli strumenti normativi, tra cui il TUFF, e programmatici, tra cui la Strategia forestale nazionale in fase di finalizzazione.
Il crescente interesse verso beni in grado di soddisfare consumi responsabili, di qualità e con forti legami con il territorio può sostenere, se orientato da idonee politiche di programmazione, pianificazione e investimenti infrastrutturali, filiere locali a ridotto impatto ambientale, con particolare riferimento alla domanda di: legno come materiale da costruzione ottimale per le esigenze del costruire e dell’abitare sostenibile (a esempio, bioedilizia e arredo con legno massiccio/lamellare); prodotti non legnosi con occasioni di reddito collegate soprattutto alla connessa fruizione turistico-ricreativa e culturale dei territori (marketing territoriale); biomassa legnosa per energia.
È opportuno che vengano individuate opportunità di sviluppo in grado di integrare questi aspetti, riservando particolare attenzione al ruolo della proprietà forestale e alla creazione di forme di collaborazione tra operatori economici, con una particolare attenzione alla comunicazione e alla divulgazione dei principi di bioeconomia. Su queste basi, la selvicoltura può rappresentare in Italia uno dei settori più dinamici della cosiddetta green economy, in grado anche di contribuire in modo significativo alla stabilizzazione delle popolazioni rurali, alla limitazione dell’ulteriore urbanizzazione del nostro Paese e al rafforzamento di una reale cultura della gestione sostenibile del territorio e di concreti contrasto e adattamento al cambiamento climatico. In relazione a quest’ultimo aspetto, è contestualmente opportuno puntare su prevenzione e controllo, rafforzando la resistenza e resilienza degli ecosistemi forestali attraverso una migliore gestione del territorio. Temi che possono trovare ampio spazio nel Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, nel quale auspicabilmente sia garantita adeguata attenzione anche al sostegno delle filiere forestali.
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L' articolo è uscito in origine su www.itempidellaterra.it
Piermaria Corona
E' Professore presso il Dipartimento per la Innovazione nei sistemi Biologici, Agroalimentari e Forestali (DIBAF) dell’Università degli studi della Tuscia, nonché ex direttore del Centro Foreste e Legno, del Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’Economia Agraria (CREA).
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