Dell’insensatezza del Farm to Fork (FtF) abbiamo già detto; avevamo rimarcato l’insensatezza di aggravare il disavanzo della bilancia alimentare europea. Immancabilmente ci sono piombati addosso due avvenimenti che hanno confermato, se ve n’era bisogno, la scelta unicamente ideologica e non meditata, cioè: la scarsità delle produzioni cerealicole mondiali del 2021 (la siccità del 2022 non è solo europea purtroppo) e successivamente la guerra russo-ucraina. Eppure si sapeva che ciò avrebbe messo in forse alcuni approvvigionamenti mondiali, ossia: il 29% del fabbisogno del commercio mondiale di grano, il 19% dell'export di mais e l'80% di quello di olio di girasole.
Di fronte a ciò come si è comportata la Commissione? Ha lasciato intatto tutto quanto previsto per il 2030 salvo permettere di recuperare alla coltivazione il previsto 4% di superficie destinato a maggese. Ma nessuno ha detto loro che trattasi di un provvedimento bello sula carta ma totalmente inefficace dal punto di vista pratico perché alle terre rientranti nel 4% appartengono le terre meno fertili e meno trasformabili in terre arabili? Cioè già pensare di ricavare un 1% di produzione in più da quel 4% è una previsione ottimistica. Ma anche qui è arrivata la “tegola” che consiste nel rincaro dei concimi (i prezzi dell'ammonitrato, fertilizzante azotato, sono aumentati del 380%, dei fosfati del 208% e del potassio del 167%). Con questi prezzi dei concimi non vi è aumento dei prezzi agricoli alla fonte che possa compensare la maggiore spesa per produrre, anzi se FtF aveva previsto di dimezzare l’uso dei concimi del 50% entro il 2030 ci ritroveremo a diminuire del 50% le concimazioni già nel 2022 e constateremo da subito quali disastri ci aspettano se si continua sul progetto FtF.
Altra risposta che la Commissione si è inventata è quella di adeguare la direttiva UE del 2010 sulle emissioni industriali. Qualcuno si domanderà ma cosa c’entra l’agricoltura? Purtroppo ve l’hanno fatta rientrare perché è in progetto di considerare industriali tutti gli allevamenti al disopra delle 150 vacche, delle 10.000 galline, dei 500 maiali o delle 300 scrofe. Ma se oggi con 150 vacche si campa molto provvisoriamente, se ci si adeguerà alla direttiva si chiuderà bottega. Almeno si è prefigurato cosa capiterà al paesaggio agricolo se ridurremo drasticamente gli allevamenti agricoli. Come minimo i pascoli si ridurranno drasticamente e prenderà il loro posto il bosco (ma la tanto decantata biodiversità dove va a finire?). Che rotazioni faremo se ci vengono meno le colture foraggere e proteiche? Dove va a finire la sostanza organica dei nostri terreni (che tra l’altro è un pozzo di carbone) se areremo i prati pascoli? Come faremo a concimare organicamente i nostri campi? Senza letame spariranno anche i tanto decantati metanizzatori. Qualcuno ha fatto i conti che l’allargamento della direttiva agli allevamenti sopradelineati farebbe sparire circa 185.000 aziende agricole in Europa o, in altre parole, sparirebbero le produzioni di polli da carne della Germania e della Finlandia messe assieme. Dato poi che provvedimenti come questi altre nazioni esportatrici neppure si sognano di pensarle, significa che mangeremo polli brasiliani, bistecche argentine e ci toccherà bere latte di cammella che gli emirati arabi ci venderanno assieme al petrolio. Insomma la Commissione ha fatto l’intelligentissima scoperta che due mandrie da 75 vacche inquinano meno di una da 150 vacche!
Le due trovate della Commissione, stando al parere di due studiosi della Barclays Bank, gli economisti Fabrice Montagné e Christian Keller potrebbe comportare che "l'entità e l'intensità dell'attuale shock dell'offerta potrebbero avere conseguenze più gravi rispetto ai precedenti picchi dei prezzi delle materie prime, dato il potere delle pressioni inflazionistiche".
Ma fosse finita qui! No, ne hanno inventata una terza cioè quella di favorire il più possibile i “circuiti corti”, dando così credito al “localismo” di Alain de Benoist imperniato sulla democrazia partecipativa, economia locale e occupazione locale, al fine di diminuire l’impronta ecologica. Ce lo si “vende “, tra l’altro, come se migliorasse la produzione di determinati beni, la loro distribuzione e il loro consumo per il bene superiore di entrambi. Certo raccontata come in questa definizione: "la produzione locale di cibo al fine di ridurre il più possibile i costi di trasporto tra produttore e consumatore, per migliorare i contatti tra questi due attori economici per promuovere discussioni creative, e fornire lavoro a livello locale al maggior numero possibile di persone”, ne fa una cosa attraente. Se però analizziamo il progetto nel dettaglio potremmo, schematizzando, individuare tre figure: il produttore, l’intermediario e il consumatore. Al primo sarebbe assegnato il compito di cosa produrre, di vendere all’intermediario e fissare lui il prezzo. La situazione sembra idilliaca, ma la realtà presto diviene questa: l’intermediario comprerà solo i prodotti che è sicuro di vendere ed al prezzo che il consumatore sia disposto a pagare. Insomma dei tre compiti prima detti ne rimane in essere solo uno: quello di avere i rischi del produrre e di poter vendere ad un solo intermediario, se infatti ci fossero più intermediari il circuito non sarebbe più corto. L’intermediario sembra avere gli stessi diritti e doveri, mentre il consumatore sembrerebbe avere solo diritti, ma in pratica ha solo il diritto di rifiutare di comprare dall’intermediario, solo che essendo questo unico è un diritto teorico. Insomma il “circuito corto” esclude dal suo ciclo tutti i prodotti che il produttore non vuole o non può produrre, e impedisce al consumatore di acquistare al di fuori del “circuito corto”. Insomma noi italiani le banane le vedremmo con il lanternino, ma il ragionamento è pure vero se un prodotto da noi producibile ci fosse offerto a minor prezzo perché prodotto da un paese lontano che ha condizioni di produzione più economiche. In ultima analisi il cortocircuito presenta due grandi svantaggi: la mancanza di varietà nei prodotti offerti al consumatore e prezzi elevati o addirittura molto alti a causa della mancanza di concorrenza. Quali i vantaggi vantati? Sono due: costi di trasporto ridotto e le filiere corte generano più posti di lavoro. Circa il primo vi è da dire che circuito corto significa trasporti su gomma, mentre un circuito lungo che utilizza il trasporto marino è spesso più economico. Il secondo vantaggio si realizzerebbe solo se a occupare i posti che eventualmente si creano fossero i disoccupati, ma il reddito di cittadinanza che in nostri inetti politici hanno introdotto ci ha insegnato che questo non avviene. In conclusione, come possiamo vedere, i “circuiti corti” sono più un miraggio diffuso da politici desiderosi di discorsi facili e concetti semplici da esporre, che un nuovo modo di consumare.
Di fronte a ciò come si è comportata la Commissione? Ha lasciato intatto tutto quanto previsto per il 2030 salvo permettere di recuperare alla coltivazione il previsto 4% di superficie destinato a maggese. Ma nessuno ha detto loro che trattasi di un provvedimento bello sula carta ma totalmente inefficace dal punto di vista pratico perché alle terre rientranti nel 4% appartengono le terre meno fertili e meno trasformabili in terre arabili? Cioè già pensare di ricavare un 1% di produzione in più da quel 4% è una previsione ottimistica. Ma anche qui è arrivata la “tegola” che consiste nel rincaro dei concimi (i prezzi dell'ammonitrato, fertilizzante azotato, sono aumentati del 380%, dei fosfati del 208% e del potassio del 167%). Con questi prezzi dei concimi non vi è aumento dei prezzi agricoli alla fonte che possa compensare la maggiore spesa per produrre, anzi se FtF aveva previsto di dimezzare l’uso dei concimi del 50% entro il 2030 ci ritroveremo a diminuire del 50% le concimazioni già nel 2022 e constateremo da subito quali disastri ci aspettano se si continua sul progetto FtF.
Altra risposta che la Commissione si è inventata è quella di adeguare la direttiva UE del 2010 sulle emissioni industriali. Qualcuno si domanderà ma cosa c’entra l’agricoltura? Purtroppo ve l’hanno fatta rientrare perché è in progetto di considerare industriali tutti gli allevamenti al disopra delle 150 vacche, delle 10.000 galline, dei 500 maiali o delle 300 scrofe. Ma se oggi con 150 vacche si campa molto provvisoriamente, se ci si adeguerà alla direttiva si chiuderà bottega. Almeno si è prefigurato cosa capiterà al paesaggio agricolo se ridurremo drasticamente gli allevamenti agricoli. Come minimo i pascoli si ridurranno drasticamente e prenderà il loro posto il bosco (ma la tanto decantata biodiversità dove va a finire?). Che rotazioni faremo se ci vengono meno le colture foraggere e proteiche? Dove va a finire la sostanza organica dei nostri terreni (che tra l’altro è un pozzo di carbone) se areremo i prati pascoli? Come faremo a concimare organicamente i nostri campi? Senza letame spariranno anche i tanto decantati metanizzatori. Qualcuno ha fatto i conti che l’allargamento della direttiva agli allevamenti sopradelineati farebbe sparire circa 185.000 aziende agricole in Europa o, in altre parole, sparirebbero le produzioni di polli da carne della Germania e della Finlandia messe assieme. Dato poi che provvedimenti come questi altre nazioni esportatrici neppure si sognano di pensarle, significa che mangeremo polli brasiliani, bistecche argentine e ci toccherà bere latte di cammella che gli emirati arabi ci venderanno assieme al petrolio. Insomma la Commissione ha fatto l’intelligentissima scoperta che due mandrie da 75 vacche inquinano meno di una da 150 vacche!
Le due trovate della Commissione, stando al parere di due studiosi della Barclays Bank, gli economisti Fabrice Montagné e Christian Keller potrebbe comportare che "l'entità e l'intensità dell'attuale shock dell'offerta potrebbero avere conseguenze più gravi rispetto ai precedenti picchi dei prezzi delle materie prime, dato il potere delle pressioni inflazionistiche".
Ma fosse finita qui! No, ne hanno inventata una terza cioè quella di favorire il più possibile i “circuiti corti”, dando così credito al “localismo” di Alain de Benoist imperniato sulla democrazia partecipativa, economia locale e occupazione locale, al fine di diminuire l’impronta ecologica. Ce lo si “vende “, tra l’altro, come se migliorasse la produzione di determinati beni, la loro distribuzione e il loro consumo per il bene superiore di entrambi. Certo raccontata come in questa definizione: "la produzione locale di cibo al fine di ridurre il più possibile i costi di trasporto tra produttore e consumatore, per migliorare i contatti tra questi due attori economici per promuovere discussioni creative, e fornire lavoro a livello locale al maggior numero possibile di persone”, ne fa una cosa attraente. Se però analizziamo il progetto nel dettaglio potremmo, schematizzando, individuare tre figure: il produttore, l’intermediario e il consumatore. Al primo sarebbe assegnato il compito di cosa produrre, di vendere all’intermediario e fissare lui il prezzo. La situazione sembra idilliaca, ma la realtà presto diviene questa: l’intermediario comprerà solo i prodotti che è sicuro di vendere ed al prezzo che il consumatore sia disposto a pagare. Insomma dei tre compiti prima detti ne rimane in essere solo uno: quello di avere i rischi del produrre e di poter vendere ad un solo intermediario, se infatti ci fossero più intermediari il circuito non sarebbe più corto. L’intermediario sembra avere gli stessi diritti e doveri, mentre il consumatore sembrerebbe avere solo diritti, ma in pratica ha solo il diritto di rifiutare di comprare dall’intermediario, solo che essendo questo unico è un diritto teorico. Insomma il “circuito corto” esclude dal suo ciclo tutti i prodotti che il produttore non vuole o non può produrre, e impedisce al consumatore di acquistare al di fuori del “circuito corto”. Insomma noi italiani le banane le vedremmo con il lanternino, ma il ragionamento è pure vero se un prodotto da noi producibile ci fosse offerto a minor prezzo perché prodotto da un paese lontano che ha condizioni di produzione più economiche. In ultima analisi il cortocircuito presenta due grandi svantaggi: la mancanza di varietà nei prodotti offerti al consumatore e prezzi elevati o addirittura molto alti a causa della mancanza di concorrenza. Quali i vantaggi vantati? Sono due: costi di trasporto ridotto e le filiere corte generano più posti di lavoro. Circa il primo vi è da dire che circuito corto significa trasporti su gomma, mentre un circuito lungo che utilizza il trasporto marino è spesso più economico. Il secondo vantaggio si realizzerebbe solo se a occupare i posti che eventualmente si creano fossero i disoccupati, ma il reddito di cittadinanza che in nostri inetti politici hanno introdotto ci ha insegnato che questo non avviene. In conclusione, come possiamo vedere, i “circuiti corti” sono più un miraggio diffuso da politici desiderosi di discorsi facili e concetti semplici da esporre, che un nuovo modo di consumare.
Agronomo. Diplomato all'Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureato in Scienze Agrarie presso l'UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni per la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.
Ottima e razionale riflessione, che confligge con la retorica fuorviante di quei politicanti con la pancia piena, a ns. spese.
RispondiEliminaUn piccolo interrogativo sulla frase:
“ Dove va a finire la sostanza organica? Un vero pozzo di carbone”.
Mi aiuti a comprendere il sillogismo. Grazie.
I mangimi animali (fieni e granaglie) sono il frutto di captazione di CO2 dall'atmosfera (funzione clorofilliana). Ora se abbiamo un allevamento animale li usiamo e in parte ci vengono restituiti come deiezioni che normalmente sono sparse e incorporate nel terreno e quindi maggiore è il tasso di humus o sostanza organica del terreno maggiore è lo stoccaggio di carbonio nel terreno. Questo poi può ritornare in atmosfera con tempi molto lunghi (più corti se si rimuove il terreno troppo frequentemente, da qui il concetto di agricoltura conservativa). Ora se io elimino il bestiame il terreno prima impiegato per produrre mangimi verrà impiegato per produrre altri vegetali come ulteriori derrate alimentari e che anch'esse per prodursi hanno incamerato carbonio prendendolo dalla CO2 dell'aria, solo che residui di coltivazione e deiezioni umane rilasciano molto prima il carboinio immagazzinato perchè non lo fanno passando attraverso il terreno. Ecco come tale il terreno va considerato un pozzo per stoccarvi carbonio per tempi più lunghi.
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