di FLAVIO BAROZZI
Esattamente dieci anni fa la Società Agraria di Lombardia riportava all’attenzione del pubblico, in ristampa anastatica, un antico e pregevole testo dal titolo “Contributo allo studio critico degli Scrittori agrari italici: i Latini”, scritto da Luigi Savastano ed originariamente edito nel 1917 nell’ambito degli Annali della Regia Stazione Sperimentale di Agrumicoltura e Frutticoltura di Acireale.
Fa piacere rileggerne oggi le pagine e trovarvi le ragioni della eterna centralità dell’agricoltura come settore davvero “primario” per l’economia e l’esistenza stessa dell’umanità. Vi si riscontrano anche le testimonianze della continua evoluzione dell’agricoltura, delle pratiche e delle tecniche agrarie, costantemente indirizzate alla ricerca di nuove strade per migliorare la produttività e l’efficienza nell’uso delle risorse disponibili, oltre alla vivacità del dibattito che già tra gli antichi greci e gli antichi romani caratterizzava il confronto sui temi agrari. Basti pensare, a questo proposito, alle profonde differenze che si riscontrano tra il pensiero di due grandi personalità dell’antichità quali Columella (più attento alle questioni “tecniche”) e Plinio (più portato alle valutazioni “naturalistiche”).
La lettura del testo, di sorprendente vivacità stilistica, tanto da non sembrare scritto oltre cento anni fa, rivela aspetti assolutamente interessanti. Conferma il legame quasi “etico” tra le funzioni originarie del cittadino romano -agricoltore e soldato al tempo stesso- tanto caro a Catone, e così fondamentale per la creazione stessa della civiltà latina, in cui i valori del lavoro e quelli del dovere militare si fondevano nella figura del civis romanus.
Sottolinea l’importanza che gli antichi romani attribuivano alla cultura tecnica agraria, al punto che al momento della distruzione di Cartagine l’unico testo della biblioteca cittadina che i conquistatori ritennero a Roma anziché donarlo a Massinissa -l’alleato re di Numidia- fu il trattato di agricoltura di Magone, il grande agronomo punico.
Il volumetto di Savastano non trascura alcuno degli Scriptores antichi che “…perseguono la direttiva di un’agricoltura vera, perché positiva, e positiva perché pratica…”
Ma tra tutti fa giganteggiare due figure, oltre a quella del citato Catone: Publio Virgilio Marone e Lucio Giunio Moderato Columella. Del primo che “…poetizza l’agricoltura ed ama l’agricoltore” e per lui compone le Georgiche -definite “il poema dell’agricoltura” - l’Autore coglie il carattere “più romano di tutti…” nel definire ancora “l’agricoltore e il soldato, i due fattori del binomio romano che sviluppandosi crearono la civiltà e l’impero di Roma”. Del secondo Savastano sottolinea la precisione e la chiarezza tecnica, il rigore metodologico e l’onestà intellettuale che ne fanno tuttora un esempio ed un punto di riferimento per tutta la cultura agraria. Ne coglie pure il travaglio verso una società che comincia a dare segni di decadenza e di perdita di rispetto verso il valore fondamentale del lavoro, e nei confronti della quale Columella esprime opinioni su cui anche noi moderni, opulenti e forse decadenti contemporanei dovremmo meditare.
Come dovrebbero far meditare il disprezzo verso l’agricoltura e gli agricoltori di Lucrezio (che sembra precorrere odierne “mode radical/chic” purtroppo sempre più diffuse) o la vena di tristezza che traspare dagli scritti di Palladio, rivolti all’agricoltura del tardo Impero, sempre più caratterizzata dall’abbandono delle tecniche più evolute per lasciare spazio al latifondo incolto ed improduttivo. Il lavoro di Palladio appare anzi come “…demolizione della ricca Villa di Varrone e Columella e poi…ricostruire una misera casupola rustica”, che sembra delineare una forma di “decrescita” ante litteram non propriamente felice. L’osservazione di Savastano per cui “…egli non ha una parola entusiastica per l’agricoltura; solo le superstizioni sono aumentate, anzi raccolte con diligenza..” assume agli occhi di chi l’osserva -come chi scrive- partendo da una formazione rigorosamente scientifica, un sentore di profonda inquietudine verso le attuali derive antiscientifiche e tecnofobiche.
Per contro, la riflessione forse più significativa e carica di forza emerge da una celebre espressione di Cicerone. Che non era agricoltore né agronomo, a differenza di tanti altri scrittori latini che dai campi avevano tratto ispirazione ed esperienza. Eppure credo che proprio a Cicerone si debba la frase che meglio di tutte ed in maniera sempre attuale esalta l’agricoltura affermando che tra le attività umane “…nessuna è migliore, è più fruttuosa, più dolce, più degna dell’uomo libero”.
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