di LUCA CORELLI GRAPPADELLI
Foto 1. Esempio di frutticoltura promiscua precedente al BigBang
di Massalombarda. Pero di dimensioni mastodontiche, fotografo nel territorio di
Faenza. “La frutta (è prodotta) da piante che furono piantate dai nostri vecchi
tra i filari di viti o nelle adiacenze delle case coloniche (…) ve ne sono in
numero più o meno grande che hanno un'età che varia dai 20 a 90 anni o forse più.” (R. Rondinini, 1927).
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Gli inizi
Il pesco è la specie cui si attribuisce, in Romagna, la rivoluzione della Frutticoltura, che si fa risalire agli inizi del ‘900, nei territori di Massa Lombarda e Lugo, in provincia di Ravenna. Adolfo Bonvicini, imprenditore illuminato, e Adolfo Bellucci, titolare della Cattedra Ambulante di Agricoltura di Ravenna, sono i due nomi generalmente accreditati come gli iniziatori di questa rivoluzione. La frutticoltura era già nota e praticata in numerose aree italiane, dal Trentino-Alto Adige al Piemonte, dal Veronese alla Toscana, alla Campania e alla Sicilia, ma in forme nettamente arcaiche rispetto a ciò che si veniva realizzando a Massa Lombarda. La rivoluzione romagnola, nelle parole di Roberto Rondinini – Cattedra Ambulante di Agricoltura di Faenza, fu la trasformazione in sistemi di coltura specializzata delle preesistenti colture promiscue, in cui la vite era “maritata” ad alberi, spesso gelsi – ma anche da frutto, che le davano sostegno nelle alberate.Ciò richiese prima di tutto la trasformazione dell’albero, che passò da dimensioni mastodontiche ed ingestibili come quelle del pero raffigurato nella foto 1 (si noti l’uomo alla base dell’albero per farsi un’idea delle dimensioni) ad una altezza inferiore ai 5 m, permettendo la gestione da terra dell’intera chioma dei peschi di foto 2. Alberi di dimensioni così ridotte potevano essere disposti in numero elevato sull’intero campo e non più solo ai suoi bordi, erano più facili da coltivare e da raccogliere e si avviava un’evoluzione tecnica nella conduzione delle chiome che ha contraddistinto l’intera Regione Emilia Romagna per molti decenni a seguire, dandole allora una posizione di leadership ancora attuale.
Foto 2. Campanile (frazione di Lugo, 1927). Impianto di giovani
peschi allevati in modo razionale. Si nota la riduzione della taglia degli
alberi, alti pochi metri.
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L’espansione e consolidamento
Questa rivoluzione fu un vero e proprio Big Bang della frutticoltura che, come l’analogo fenomeno fisico che ha dato vita all’Universo, si propagò ben presto verso altri territori, prima della regione e poi del resto del Paese. L’intera Romagna si scoprì vocata a questo tipo di produzioni agricole, che si estesero al Ferrarese, alla fascia più settentrionale del Bolognese (nei territori limitrofi al Reno) e al Modenese, ove si affermarono altre specie da frutto, ma si riproduceva il modello massese. La rapidità di questo cambiamento e l’efficacia nel migliorare le condizioni socio-economiche sulla società che ne era investita sono testimoniate da due eventi che si tennero nel settembre del 1927: la seconda Esposizione Nazionale di Frutta (dal 5 al 20 settembre a Massa Lombarda) ed il secondo Congresso Nazionale di Frutticoltura (20 settembre a Lugo). Questi due eventi suggellavano il compimento dell’impresa di modificare per sempre un territorio donandogli nuovi orizzonti anche di benessere. Bene ha fatto la città di Massa Lombarda, nel 2017, a ricordare questi eventi ponendo su una rotonda all’ingresso orientale (quello che guarda verso la Romagna) del centro storico, una riproduzione, stampata in 3-D, di un seme di pesco, L’Anma (nòcciolo) in dialetto romagnolo (foto 4).
Foto 4. Massalombarda (RA, 2017). L’Anma (nòcciolo
in dialetto romagnolo) fa bella mostra di sé all’ingresso del centro storico
della città culla della frutticoltura moderna italiana.
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Nel 1927 la Frutticoltura Industriale (come veniva chiamata prima che l'industriale assumesse un altro significato) era una realtà economica assai importante. Le specie coltivate erano aumentate, ed il numero di Paesi verso cui si esportava alquanto elevato, come dimostrato dal manifesto pubblicitario della F.lli Bonvicini e Figlio (foto 5) che attesta la produzione di susine, pere, pomodoro, pesche, mele e vino, dando anche conto del numero di vagoni spediti ed in spedizione, e l’elenco dei paesi europei (ma c’è anche l’Egitto) verso cui si esportava. E non mancava, già allora, un fenomeno che si è consolidato dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri, ovvero la meridionalizzazione di queste imprese, che riconoscevano il potenziale produttivo dei territori di altre parti d’Italia (in questo caso la Campania), verso cui era opportuno espandere e consolidare il modello di coltivazione messo a punto nel Nord, come dimostrato dalla ragione sociale riportata nel manifesto della Frutta Bonvicini (foto 6): “Società anonima meridionale produzione frutta ed ortaggi”. Questi tratti sono ancora modernissimi oggi, quando, come già detto, le principali cooperative ortofrutticole romagnole hanno succursali e soci coltivatori nelle regioni del Nord, come del Centro e del Sud Italia. Non passa molto però, che si possono osservare fenomeni negativi poi divenuti ciclici, al di là di questioni sociali che non si vogliono nascondere (es. il limitato beneficio di questa rivoluzione per le classi bracciantili, che non partecipavano ai guadagni possibili invece ai mezzadri), ma che sono competenza di altri studiosi. Per restare alle questioni tecniche, si osserva già nel 1927 il problema dello scarso controllo e pianificazione degli impianti. Nelle parole di Francesco Dotti (all’epoca Cattedratico Ambulante, ma in seguito Professore di Frutticoltura alla Statale di Milano): “Si impiantano varietà pregiate, come Fior di Maggio, Amsden, Bella di Roma tra le precoci; il Tardivo di Massalombarda e l’Hale fra le tardive. Si è limitato assai l’impianto con Buco Incavato, già coltivato in abbondanza”. Se si riflette che il Buco Incavato era la varietà che aveva permesso – più di ogni altra – questa rivoluzione, non si può non concludere che l’entusiasmo dei frutticoltori doveva essere “andato oltre”.
Foto 6. Manifesto pubblicitario della ditta Frutta Bonvicini
(1927) “Società anonima meridionale per la produzione di frutta ed ortaggi”,
con sede in Roma e terreni a Paestum (SA).
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Corsi e ricorsi
Trascorso il periodo fascista e quello bellico, in cui le attività proseguirono, per ovvii motivi, con problematiche assai diverse, la frutticoltura della Regione Emilia Romagna riprese ben presto a farsi sentire, come testimoniano gli Atti di un altro Congresso Nazionale di Frutticoltura, il terzo, tenutosi a Ferrara nel ‘49. Si coglie assai bene, soprattutto negli interventi del pubblico, riportati nella prima parte del volume, la forza della spinta innovativa che questa produzione primaria specializzata aveva creato e la presenza sempre attuale delle questioni tecniche che si sollevavano. A proposito di pere, ad esempio, Arturo Ansaloni, titolare degli omonimi vivai di San Lazzaro di Savena (Bologna) dichiarava, circa la tipologia di piante che veniva richiesta dal mercato: “In Emilia oggi non solo non si piantano più peri innestati sul cotogno, che si piantano molto di rado, ma si vogliono i peri innestati sul franco (…) la Williams sul cotogno qui nessuno la vuole più coltivare, invece dall'estero provengono ordini specialmente dal Nord ed anche dall'estremo Sud di piante innestate su cotogno”. Questo fa riflettere sulla ciclicità con cui si ripresentano – pur se a distanza di decenni – problematiche tecniche, a causa del mutare di condizioni al contorno. Oggi infatti la produzione vivaistica italiana, una delle prime al mondo, per il pero è orientata esclusivamente su cotogni, per cogliere i benefici della rapidità di messa a frutto impartita da questi portinnesti, a confronto con i franchi. E tuttavia, nuovi problemi sono apparsi, legati a fisiopatie che colpiscono il pero su cotogno, per cui oggi si discute di degenerazione degli impianti di pero, sindrome di deperimento che sfocia nella morte di alberi adulti, che in modo assai chiaro colpisce prevalentemente gli alberi innestati su cotogno (foto 7).
Foto 7. Esempio di ‘degenerazione’ di impianti di pero, le cui
cause non sono del tutto note, ma la cui comparsa è frequentemente legata ai
portinnesti di cotogno. (Foto cortesia del dr. G. Pallotti).
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La coltura del pero è esemplificativa, certamente assieme al pesco, delle conseguenze di una mancanza di vera integrazione totale della filiera, e non solo in Emilia-Romagna. Essa infatti ha attraversato numerosi cicli di crescita, stimolata da elevata redditività degli impianti legati ad un’offerta inferiore alla domanda, per poi cadere nella fase recessiva dell’eccesso di offerta con conseguente crollo dei prezzi al produttore, a cui seguivano espianti, riduzione dell’offerta, ripresa della domanda e recupero dei prezzi, e il ciclo poteva ricominciare. Basti ricordare alcuni convegni dedicati alla specie nel corso degli anni ‘80 e primi anni ‘90, cominciando dal convegno del 1980, Aggiornamento della coltura del Pero, tenutosi al Centro Operativo Ortofrutticolo di Ferrara. In quella circostanza il Professor Silviero Sansavini dell’Università di Bologna commentava, suo malgrado, una pericoltura in declino, stanti gravi ed annosi problemi: “La coltura del pero, dopo aver pagato non pochi tributi alla inveterata abitudine di seguire, anche al di fuori di ogni ragionevole e responsabile orientamento programmatorio, le contingenti situazioni o tendenze di mercato, se opportunamente ridimensionata ed aggiornata, presenta una sua validità…”. Si erano appena chiusi gli anni ‘70, con le crisi di mercato ricorrenti, il costante ricorso all’AIMA, la perdurante presenza di varietà che o non trovavano il favore dei consumatori o erano troppo difficili da coltivare con risultati aleatori e avversità difficili da controllare, come Psylla e maculatura bruna; il tono era certamente pessimistico, quasi da De Profundis.
Dopo 5 anni esatti in un altro convegno sempre a Ferrara (Rilancio della coltura del Pero, 1985), si dava conto del calo degli ettari e quintali nel periodo 1974-1984 (-10mila ha e -3 milioni di quintali in Emilia Romagna; -20mila ha e -4,3 milioni per l’intera Italia) che avevano però – riducendo le produzioni – iniziato a raddrizzare la barca della pericoltura, che agli inizi degli anni ‘90 stava riprendendo fiato – ripartendo da una forte contrazione è fisiologico – come testimoniato da un altro convegno, questa volta a Verona, del 1993, in cui apparivano segni di ripresa vigorosa della specie. I temi scientifici di quegli anni riguardavano molto i cotogni, soprattutto il fortemente nanizzante ‘EMC’, le nuove forme di conduzione del frutteto che cercavano di ridurre il vigore naturale della specie fin dalla messa a dimora (su terreno baulato per limitare l’espansione radicale) e le altissime densità, per realizzare finalmente nel pero quella nanizzazione delle piante e riduzione del periodo improduttivo che si erano ormai consolidate nel melo. Nel passato quindi, i meccanismi di mercato hanno dominato, in assenza di altri strumenti di regolazione ed equilibrio come la pianificazione degli impianti e la concentrazione dell’offerta, passaggio fondamentale quest’ultimo, ma ancora non riuscito, per riequilibrare lo svantaggio nei confronti della domanda, che è – essa si! – concentrata in pochissime mani e ha quindi un grande potere di determinazione della redditività per il produttore.
Anche il pesco ha conosciuto un grande fermento evolutivo dagli anni del dopoguerra, testimoniato soprattutto negli Atti dei Convegni Peschicoli che, a partire da metà degli anni ‘50, si sono tenuti con calendari più o meno regolari, per oltre 50 anni. Negli anni del boom economico italiano questa specie è stata un cavallo di battaglia della frutticoltura – soprattutto romagnola e ferrarese – cui ha fornito una fortissima spinta propulsiva, con una raffica di innovazioni genetico-varietali, di forme di allevamento e tecniche di potatura degli alberi, di meccanizzazione delle diverse operazioni colturali mai osservate altrove. Grazie a tecnici instancabili si superarono i vecchi vasi – alquanto elaborati e dispendiosi nella fase di allevamento – con la palmetta (foto 8 e 9), nelle sue varianti che via via si sono succedute, sempre più libere e anticipate permettendo di passare dalle scale ai carri raccolta, dapprima trainati e poi semoventi, che aumentavano a dismisura l’efficienza della manodopera.
Foto 8. Pesco allevato a Palmetta regolare, allevata a ‘tutta
cima’ (senza ricorrere a tagli di ritorno). Notare la struttura regolare
degli alberi, con le branche contrapposte, e l’ampia distanza tra i singoli
alberi lungo il filare.
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Foto 9. Versione moderna della palmetta, allevata con un solo
palco di branche, inserite molto in basso ed allevate a formare due assi
verticali del tutto simili al principale.
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Foto 10. Vasetto ritardato in pre-potatura. L’asse centrale dell’albero è già stato asportato. Si nota la tendenza a raddrizzarsi della sommità delle branche, iniziando così un’accrescimento in altezza che nella seconda parte della vita del frutteto può divenire, se eccessiva, un grave aspetto negativo. |
Foto 11. Fusetto allevato secondo gli schemi adottati negli anni ‘90-2000, basati sulla formazione di branche permanenti in basso, e un rinnovo più frequente del legno a frutto nella parte mediana ed apicale. |
Anche il pesco ha conosciuto cicli di crisi strutturali, del tutto simili a quelle descritte per il pero, con la differenza che negli ultimi 20 anni questa specie è entrata in una crisi involutiva apparentemente senza ritorno, con un declino che si è fortemente accentuato negli ultimi 15 anni, sia per quanto riguarda le superfici coltivate (fig. 1) che le quantità prodotte (fig. 2), non solo a livello regionale (è l’Emilia Romagna ad evidenziare il maggiore calo) ma in tutto il Paese, anche se le regioni meridionali hanno in parte attenuato questo calo, meno accentuato che al Nord. La combinazione seriale di annate di produzione elevata a cui corrispondono prezzi alquanto inferiori al costo di produzione, perfino delle aziende diretto coltivatrici, con annate di mancata produzione per effetto di eventi meteorologici (es. le gelate tardive, la cui incidenza sembra in aumento, comportando costosi apprestamenti antibrina, foto 12) sembra erodere sempre più le prospettive di sopravvivenza di questa specie in Romagna.
Foto 12. Impianto di pesco allevato a fusetto e dotato di apprestamenti di protezione antigrandine e di ventilatore antibrina, la cui efficacia è però limitata agli eventi caratterizzati da inversione termica, mentre negli ultimi anni sono state più frequenti gelate dovute a fenomeni convettivi (aria fredda proveniente dai Balcani-Siberia). |
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Figura 2. Trend delle superfici coltivate a pesco e nettarine in
Italia, negli ultimi 15 anni (Fonte: ISTATI).
Le problematiche attuali
Pur se ancora saldamente presenti nel panorama della Romagna, i frutteti di pero e pesco sono in costante – e rapido – declino. Per entrambe le specie si registrano difficoltà che rendono sempre più difficile ricavare un profitto dalla coltivazione. Le problematiche attuali del pero sono tante: preoccupante restringimento del panorama varietale, con Abate Fétel pressochè unica presenza nei nuovi impianti, di fatto monovarietali a dispetto della necessità di impollinazione incrociata della specie; redditività più che mai sul filo del rasoio; avversità biotiche crescenti che stanno obbligando a passare a sistemi di esclusione antinsetto per l’inefficacia di altre forme di controllo; cambiamento climatico che solleva domande sulla vocazionalità delle aree pericole italiane nell'arco dei prossimi 30-50 anni. Ancora, in territori che hanno fatto da leader nelle scelte tecniche, oggi si rincorrono pratiche messe a punto in altri distretti, caratterizzati da diverse condizioni ambientali, quali Olanda e Belgio, in cui si combinano la fertirrigazione alla potatura radicale, a cui spesso da noi si aggiunge l’uso di brachizzanti, realizzando così un conundrum tecnico totalmente incomprensibile, ancorchè inadeguato ad affrontare le problematiche di controllo della vigoria degli alberi in distretti, come quelli emiliano-romagnoli, caratterizzati da alta vigoria naturale.Ma sono sempre gli aspetti economici i più pressanti, e l’Abate Fétel è un caso di studio molto interessante, ma anche preoccupante. Le numerose analisi del Prof. Pirazzoli e collaboratori dell’Università di Bologna che vengono ormai regolarmente presentate in occasione dell’evento Futurpera di Ferrara (ma che Pirazzoli aveva iniziato a svolgere assieme a Domenico Regazzi fin dal 1985) dimostrano una situazione assai critica per questa varietà che è sempre meno in grado di fornire produzioni ettariali capaci, con i livelli di prezzo correnti, di raggiungere almeno il break-even point e quindi di generare un profitto per il frutticoltore. Colpisce ad esempio come le rese ettariali di Abate Fétel nei primi anni '80 fossero essenzialmente le stesse del 2020, sulle 25 t/ha. Solo che ai costi e prezzi 1985 con Abate Fétel vi erano profitti a partire da produzioni di 21 t/ha e prezzi sulle 680 Lire/kg (0,35 €) – ovvero si guadagnava sempre, date le produzioni e i prezzi più frequenti per questa varietà. Oggi, la stessa analisi a valori 2016 alza a 30 t/ha la soglia a cui il ricavo eguaglia i costi, mentre per avere un profitto di 2000 € (non lontani dai 4-5 milioni di lire dell'analisi 1985) occorrerebbe arrivare a 32 t/ha. Ma le produzioni medie stentano a farcela, non essendo cambiate in 40 anni, caso piuttosto unico tra tutte le specie da frutto che coltiviamo.
Peraltro, sul tema dell'organizzazione della filiera si esprimeva ripetutamente il Prof. Franco Alvisi nel 1980 e nel 1985, sottolineando come occorresse un potenziamento strutturale di quella che oggi chiamiamo filiera, che doveva divenire capace di “conferire un più rispondente assetto alla fase produttiva e di esplicare più efficientemente la fase commerciale [del pero], avvalendosi anche di adeguati supporti promozionali per agevolare il collocamento della nostra produzione”. Forse, dopo 40 anni, la nascita di strutture di vendita come Opera e Origine Group, che hanno cercato di riunire l’offerta delle pere dell’Emilia Romagna, significa che si stanno realizzando quegli auspici? O, come pensano alcuni, che forse invece non si è ancora capito del tutto il pensiero di Alvisi, perché una sarebbe stata meglio di due?
Il ruolo della ricerca
Anche sul fronte della ricerca si possono trovare spunti di riflessione. Anzitutto occorre segnalare che in Europa ed in Italia le procedure burocratiche per la presentazione di progetti sono totalmente squilibrate e richiedono investimenti di tempo notevoli. L’impegno preventivo richiesto nella preparazione di un progetto europeo è oggi di circa un anno, se si è il coordinatore. Stante l’altissima competizione – favorita da politiche di accorpamento delle specie su tematiche cross-cutting che non tengono in nessun conto le attività produttive specializzate, come la frutticoltura – è molto facile che l’investimento di tanto tempo non si concretizzi in un finanziamento, la cui assenza può essere devastante: con cosa sostituire le mancate risorse di tanto tempo investito? Poi c’è il tema, spesso ricordato, della mancata rispondenza delle ricerche alle necessità dei produttori. Esso è reale, ma di difficile soluzione, poiché i ricercatori non sono liberi di imporre all’Europa o alle Regioni le proprie tematiche preferite. Infatti, i bandi emessi dagli enti finanziatori specificano gli ambiti e le finalità delle ricerche che desiderano finanziare. I ricercatori cercano nei bandi quegli ambiti in cui pensano di poter avere più chance di successo e lì propongono i propri progetti, adattandosi quindi ai bandi, e non viceversa. Si concorda sul fatto che non sempre i bandi ricomprendano temi di interesse dei produttori; su questo si potrebbe incidere con azioni condotte coralmente, a livello di ecosistema della ricerca.Sarebbe ad esempio opportuno rivisitare il capitolo portainnesti (soprattutto per il pero, ma anche per il pesco) per verificare, nella ricerca dei vantaggi del cotogno: rapidità di messa a frutto, frutteti pedonali, riduzione dei tempi di potatura, semplicità di gestione della chioma, non si sia per caso perduto un po' di quel mancato aumento delle produzioni messo in evidenza da Pirazzoli (e non solo da lui). Si potrebbe riflettere sui problemi di reimpianto che affliggono anche il pero, accentuati dall'accorciamento della vita degli impianti su cotogno. Potrebbe essere utile ad esempio studiare il modo ottimale di ‘calmare’ un pero autoradicato, ovvero accorciarne il periodo improduttivo iniziale, per renderlo competitivo con i cotogni. In alcune aree della Romagna ove i terreni non consentono l’uso dei cotogni, è possibile rendersi conto della longevità e della produttività di impianti di Abate Fétel autoradicati che, a quasi 40 anni di età, fanno impallidire i loro cugini su cotogno (foto 13). Quei frutticoltori possono oggi far sfoggio di una lungimiranza che – quando misero a dimora questi impianti – per molti era un serio errore tecnico, viste le riserve che si esprimevano sulla giovanilità degli alberi e il loro lento entrare in produzione.
Foto 13. Impianto di Abate Fétel autoradicata in vitro, di 30 anni di età, in comune di Bagnacavallo (RA), durante la raccolta. Si apprezza l’uniformità degli alberi, e la completa mancanza di fallanze, nonostante l’età dell’impianto. In primo piano, il tecnico Domenico Abeti (cooperativa Agrintesa), convinto sostenitore e promotore di questa soluzione tecnica. |
Foto 14. Applicazione di intelligenza artificiale alla
peschicoltura di precisione. Riconoscimento di frutticini nell’immagine presa
con un normale smartphone tramite una rete neurale convoluta. I quadratini
gialli sono posti attorno ai frutti dall’algoritmo implementato, per consentire
di verificare visivamente l’accuratezza della individuazione.
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L’entità delle cifre è soprattutto legata alle dimensioni delle singole entità produttive. A titolo di esempio, nell’anno fiscale 2017-18, Horticulture Innovation Australia Ltd ha avuto un budget dedicato alla ricerca di circa 4,6 milioni di dollari australiani, corrispondenti a circa 2,7 milioni di euro (Ashley Zamek, HIAl, com. pers.). Lo Stato di Washington, a confronto, disponeva per il 2018 di circa 4 milioni di US $ (Mike Willet, Washington Tree Fruit Research Commission, com. pers.). Tutti gli intervistati hanno sottolineato come ifinanziamenti decisi dalle organizzazioni dei produttori orientino gli interventi di altri enti finanziatori, e come questo sia un fattore molto importante: se sono gli stessi frutticoltori che finanziano ricerca su determinati problemi, è probabile che questi siano i più scottanti, e quindi su di essi l’ente finanziatore potrà intervenire senza temere di spendere male fondi pubblici.
Una cosa che questi paesi hanno in comune è la semplicità delle modalità di proposta delle idee di ricerca, il che libera tempo da dedicare alla ricerca. Per la prima scrematura spesso basta una paginetta. La successiva presentazione del progetto richiede di solito una settimana di lavoro, e la scelta di quelli da finanziare è fatta – in tempi assai brevi – da un comitato di esperti dell’organizzazione dei frutticoltori. Il confronto con la situazione italiana ed europea è impietoso.
Considerazioni conclusive
Il pesco è la specie che ha dato il via ad una rivoluzione economica, sociale e culturale nella Romagna. Oggi esso è la specie in crisi più acuta, tra tutte quelle che si coltivano in questi territori. Eppure, non mancano esempi di peschicoltori capaci – nel 2021 – di produrre frutta di elevata qualità e quantità, ben apprezzata e remunerata da canali distributivi alternativi alle cooperative. Questo non può non sorprendere, in una regione che ha tanto contribuito alla fortuna di queste strutture! O, forse, indica come sia sempre possibile – e urgente – innovare le attività produttive e riuscire ad attestarsi sul mercato implementando nuovi schemi di organizzazione del lavoro, ad esempio individuando l’epoca ottimale di raccolta per offrire frutta di maggior sapore, rinnovando le modalità operative (che devono per forza diventare molto più flessibili nella fase di stoccaggio e lavorazione), per arrivare a vendere con nuovi schemi commerciali che sfruttino le possibilità offerte dai social media di fidelizzare il cliente, secondo modelli in sviluppo in altri paesi avanzati, che sfruttano le possibilità commerciali offerte dalla rete e dalla logistica.Anche nella attuale crisi del pero si ripresentano elementi che, nella prospettiva storica di una settantina d'anni, sono costantemente presenti: 1) la difficoltà di fare reddito in contesti in cui i fattori di produzione hanno costi che crescono più velocemente dei prezzi alla produzione (penalizzati anche da andamenti altalenanti da un anno all'altro); 2) la ancora troppo frammentata offerta che deve riuscire a rimontare una posizione di debolezza storica a fronte della domanda; 3) il calo delle superfici (che però storicamente è stato più di una volta invertito, in presenza di annate di buona redditività della specie); 4) un continuo restringersi del panorama varietale, su cv ultracentenarie (ovvero per nulla migliorate) che evidenziano notevoli problematiche in conservazione; 5) la resa ettariale essenzialmente uguale a quella di 70 anni fa. Quest'ultima ha senz'altro cause genetiche, ma anche determinanti ambientali e colturali.
Per entrambe le specie qui trattate è chiaro che la situazione attuale non schiude orizzonti di ottimismo. Tuttavia è in momenti di forte crisi che si riescono a fare i progressi più significativi. L’auspicio è che non si vogliano abbandonare due veri assi portanti di una attività primaria che ha cambiato – trascinando un’indotto industriale, economico, tecnico – un intero territorio. Si tratta di riuscire a fare sistema, magari sull’esempio di altre realtà frutticole italiane che hanno fatto scuola, in anni recenti, in questo senso. Per questo è fondamentale un rinnovato coinvolgimento delle organizzazioni dei produttori, su più livelli.
Ringraziamento L'autore è grato al prof. Silviero Sansavini (Università di Bologna) per la lettura critica e per le numerose occasioni di confronto e discussione sulle tematiche qui trattate. |
Luca Corelli Grappadelli
E' Professore ordinario di Arboricoltura generale e coltivazioni arboree, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-Alimentari, UNIBO.
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