di MICHELE LODIGIANI
Nella mia camera di adolescente, come in quelle di tanti altri ragazzi in quegli anni lontani A. I. (Avanti Internet), si alternarono nel tempo diversi “poster”, a testimoniare le passioni che in quell’età incerta si accendono e si spengono con grande facilità. Fra di essi ve ne fu uno che resistette più a lungo degli altri e che staccai dalla parete solo quando abbandonai definitivamente la casa paterna. Esso rappresentava un uomo solitario sullo sfondo di un paesaggio bello e sfumato, con lo sguardo perso verso un orizzonte indefinito. In basso questa frase di Henry David Thoreau: “If a man does not keep pace with his companions, perhaps it is because he hears a different drummer. Let him step to the music which he hears, however measured or far away”, che ad una mia libera e non molto brillante traduzione suona così: “Se un uomo non tiene il passo dei suoi compagni, forse è perché sente un tamburino diverso. Lascialo marciare alla musica che egli sente, per quanto ritmata o distante essa sia”.
Filosofo prima ancora che scrittore, pedagogo progressista, ambientalista ante litteram, intellettuale disobbediente e pacifista, Thoreau può essere a buon diritto considerato il padre nobile di una serie di correnti di pensiero che per rivoli diversi sono arrivate ai giorni nostri non solo senza esaurirsi, ma più impetuose che mai. Figlio di un piccolo fabbricante di matite (attività a cui egli stesso si dedicò in varie fasi della sua vita), laureatosi ad Harvard, intraprese e presto abbandonò l’insegnamento per contrarietà alle punizioni corporali - allora strumento ineludibile nella formazione di un ragazzo - e fondò insieme al fratello una nuova scuola in cui una pedagogia più libera si esprimeva, fra le altre cose, anche attraverso camminate di gruppo nella natura.
Insofferente nei confronti di una società che non gli pareva rispecchiare i valori essenziali quanto gli interessi mercantili, fra il 1845 e il 1847 si ritirò in una capanna autocostruita in riva al lago Walden, dedicandosi alla scrittura e alla contemplazione della natura e traendo da questa esperienza il suo libro di maggior successo, “Walden - Vita nei boschi”: “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto”. Nel suo saggio “Disobbedienza civile” affermò il primato della coscienza sulla legge, principio al quale si attenne coerentemente scontando con il carcere il rifiuto di pagare una tassa destinata a finanziare la guerra contro il Messico, che giudicava (giustamente!) immorale.
Questa esperienza, se pur breve (la prigionia durò soltanto una notte perché al mattino una zia - con sua grande contrarietà - provvide a pagare quanto la legge pretendeva), fu tuttavia l’occasione per riflessioni profonde e preveggenti sul rapporto fra istituzioni e libertà personali che influenzarono profondamente - fra gli altri - Tolstoj, Gandhi e Martin Luther King, orientandone il pensiero e le opere. “Ascoltare gli alberi” appartiene alla produzione più lirica e contemplativa di Thoreau ed è costituito da un’antologia di scritti tratti in prevalenza dal suo diario e in misura minore da altre opere, fra cui Walden. Il testo è dunque frammentario, ma i singoli capitoli come le tessere di un mosaico restituiscono un’immagine ben definita, piena di colori, luci, sfumature, ombre, suoni, percezioni e minuzie, scaturita da un’osservazione appassionata e partecipe del bosco nel suo insieme e ancor più degli alberi che singolarmente lo compongono, a cui l’autore riserva uno sguardo intenso e colmo di gratitudine, manifesta amicizia (di più: fraternità!) ed effonde una devozione quasi religiosa. Un libro di poche pagine, che forse indurranno qualcuno a più robuste e impegnative letture di un autore la cui biografia, tutta spesa a marciare al ritmo di un diverso tamburino, è assai più densa di idee che di fatti: se la sua vita è trascorsa quasi tutta nella natìa Concord e nei dintorni, da cui si è allontanato di rado e per brevi periodi, il suo pensiero ha travalicato lo spazio e il tempo diventando patrimonio universale e influenzando fortemente, ancorchè in una declinazione prevalentemente “pop”, anche la cultura dei nostri tempi. Un pensiero, tuttavia, che se da una parte dà voce al disagio del singolo nei confronti di una società troppo sicura di sé e tronfia nella propria “hybris” - come forse era la giovane America dell’’800 e come spesso è quella occidentale a noi contemporanea - riuscendo con grande efficacia a mostrarne le crepe, dall’altra si rivela debole e un po’ troppo semplificatorio se proposto come modello sociale. Anche in “Ascoltare gli alberi” traspare infatti, accanto alla devozione per la natura di cui si è detto, un certo disincanto per gli uomini assai prossimo alla misantropia e un’insistente contrapposizione fra l’armonia della natura e l’invadente inadeguatezza della nostra specie.
Di tutta la visione filosofica di Thoreau è proprio questa parte - assai più di quella improntata alla libertà e alla tolleranza - ad incidere maggiormente sulla cultura occidentale contemporanea e sul rapporto fra essa e la natura e, di conseguenza, l’agricoltura. Molte delle teorie che ispirano le varie “agricolture alternative” si richiamano infatti apertamente, amplificandola, a questa visione: esse si basano in una certa misura sulla convinzione che l’uomo sia un intruso nel concerto della natura, e che quanto è di derivazione umana sia in sè disturbante e disarmonico rispetto ad essa; la nostra specie, che attraverso l’agricoltura intensiva e l’allevamento osa assoggettare le altre, si macchierebbe quindi di “specismo”, uno dei nuovi peccati capitali che hanno soppiantato gli altri 7 (per altro ormai ritenuti tutt’al più veniali). Tutto ciò non è senza conseguenze. Sempre più questo approccio filosofico pervade di sé il sentire comune, e quindi le scelte politiche (si pensi gli obiettivi della PAC in corso di definizione), la legislazione, l’economia. Perfino la ricerca scientifica non ne è esente: mi riferisco alle suggestive tesi del prof. Stefano Mancuso che, autodefinendosi “neurobiologo vegetale”, sembra voler ribaltare perfino la tassonomia, a dispetto di Linneo e, ancor più, di Darwin. Ma noi non siamo una specie fra le specie, ma quella a cui Dio, o il caso o le dinamiche evolutive o ancora - se si preferisce - la natura stessa, hanno affidato un ruolo diverso da quello di tutte le altre: non ci è dato di abdicare dalle nostre responsabilità! Quand’anche fosse vano ogni nostro tentativo di porre rimedio alle tribolazioni intrinseche alla condizione umana, di mettere ordine dove abbiamo ereditato il caos, di arrivare a porre l’ultima pietra alla sommità della nostra infinita Torre di Babele, è questo il nostro compito, il nostro dovere, la nostra dignità, la nostra unica possibile felicità .
Da parte mia non ho dimenticato la lezione di Thoreau: la frase che una volta tenevo appesa in camera mia è ora su una parete del mio ufficio, ma ad essa se ne è aggiunta un’altra, quella con cui Albert Camus chiude il suo saggio “Il mito di Sisifo”. Sisifo, metafora dell’umanità, fu costretto per condanna di Zeus a spingere un pesantissimo masso fino alla sommità di una montagna, dalla quale immancabilmente esso ricadeva a valle costringendolo a reiterare in eterno la sua fatica. Così conclude Camus … e io con lui: "Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore che nega gli dèi e solleva i macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice."
L' articolo è uscito in origine su " www.itempidellaterra.it "
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