sabato 3 ottobre 2020

LA DIFFICILE INTERAZIONE TRA RICERCA, SPERIMENTAZIONE E DIVULGAZIONE SCIENTIFICA

 

Il punto di vista di un agronomo ed imprenditore agricolo. Complessità e burocrazia come ostacolo alla conoscenza ed al progresso tecnologico. L’agricoltore è il mestiere della pazienza.

 



di GIUSEPPE SARASSO 

 Tratto da "I Tempi della Terra" |n° 6|

Foto - Daniel Cialdini

La specializzazione

Per gran parte del suo lunghissimo percorso evolutivo, la specie Homo Sapiens si è procurata il cibo esplorando vasti spazi per raccogliere i vegetali spontanei più utili alla propria nutrizione, oltre a cacciare e pescare. Solo negli ultimi 10÷12 millenni ha iniziato ad interferire con la biodiversità spontanea riproducendo e selezionando alcune specie “domesticate” tramite l’allevamento e l’agricoltura, attività che hanno permesso all’Homo di divenire stanziale, con la nascita di villaggi e poi città. Da allora è iniziata la specializzazione operativa, delegando il compito di procacciare il cibo per tutti ad una parte della popolazione, un tempo predominante, oggi ridotta ad una striminzita minoranza.  Anche la popolazione dedita all’agricoltura si è specializzata nella coltivazione, lasciando gradatamente ad altri la produzione delle attrezzature e dei fattori tecnici necessari e dedicandosi alla coltivazione di poche specie, quelle più adatte ai terreni ed ai microclimi locali ed alle richieste del mercato.Le conoscenze tecniche e scientifiche sull’agricoltura hanno raggiunto un livello di complessità tale da non poter più essere dominate per intero da un singolo individuo, pur se dotato del mitico cervello di Pico della Mirandola.

Le competenze richieste ad un agricoltore

L’obiettivo principale degli imprenditori o imprenditrici agricole attuali, non avendo la forza contrattuale di imporre dei prezzi, è quello di portare sul mercato quantità e qualità di prodotti sufficienti a mantenere la sostenibilità economica delle proprie aziende. In questa ottica si trovano ad effettuare continuamente scelte: dai piani colturali, all’approvvigionamento di sementi, macchinari, fertilizzanti, fitofarmaci, con relative tecniche d’impiego, senza tralasciare l’accesso al mercato dei prodotti, che da solo richiederebbe un approccio specialistico. Infine devono saper decifrare un’infinita serie di leggi e regolamenti scritti in burocratese, per cercare di adempiere a tutti gli obblighi imposti all’azienda, e magari riuscire anche ad intercettare i finanziamenti pubblici distribuiti tramite bandi scritti in modo altrettanto ermetico. Questo richiede loro una quantità di competenze che possono in parte aver acquisito tramite gli studi giovanili, ma neanche una laurea magistrale riesce a prepararli ad affrontare tutte le sfide sopraelencate. A differenza delle grandi industrie, che istituiscono al loro interno uffici specializzati per le pratiche burocratiche, le aziende agricole sono di norma di piccole o medie dimensioni, per cui gli imprenditori operano anche direttamente nei campi, attività che nelle stagioni più impegnative richiede orari settimanali di 60 e più ore. 

La stragrande maggioranza delle aziende agricole delega quindi l’attività burocratica (tenuta registri IVA, pratiche PAC, adesione ai bandi, ecc.) a soggetti esterni, che comunque non le esimono dal comunicare loro tempestivamente i dati da gestire, e dalla compilazione dei registri di campagna, infortuni, e dell’incombente registro dei combustibili.A partire dagli anni ’90 è iniziato il fiorire dei corsi d’aggiornamento, iniziati col patentino per i fitofarmaci, e seguiti da tutti gli altri (pronto soccorso, antincendio, uso di trattrice, carrello elevatore, escavatore, motosega…), obbligatori sia per l’imprenditore sia per i suoi dipendenti, con relativi costi in tempo e denaro a carico delle aziende. Per carità di patria ci asteniamo dal commentare la qualità di alcuni di questi corsi, che assorbono comunque tempo e risorse sottratte all’aggiornamento professionale. Lo scrivente, ormai pensionato, ex titolare di un’azienda agricola che da generazioni si è avvalsa dei servizi burocratici prestati da un sindacato, si permette di riscontrare un conflitto di interesse nella doppia attività dei sindacati agricoli: rappresentanza sindacale e fornitura di servizi burocratici. Il conflitto si è fin qui manifestato nello scarsissimo impegno a contrastare il continuo crescere degli obblighi burocratici appioppati alle aziende, molti dei quali di scarsa o nulla utilità.

Le fonti attuali dell’aggiornamento professionale in Italia

In tale contesto sorgono spontanee le domande sulla quantità di tempo che rimane a disposizione dell’imprenditore per dedicarsi all’aggiornamento tecnologico, e sul come fornirgli le relative informazioni in modo rapido ed efficace. L’agricoltore italiano è di solito pronto a migliorare le sue tecnologie, se gli forniscono un vantaggio competitivo sul mercato: più ricavi, più qualità, meno costi. Molto più restìo se non ottiene risultati visibili o misurabili. Ma è anche giustamente guardingo: quando gli si propone una innovazione, quello più audace la prova su piccole superfici per comprendere se e come sia applicabile con successo sui propri terreni, e se sia integrabile con tutte le altre tecniche che sta utilizzando. La maggior parte attende di vederla impiegata sull’appezzamento di un vicino, sentendone anche i pareri, per valutarla senza correre rischi. Le innovazioni normalmente vengono proposte dai fornitori. Nel settore della meccanica le novità sono visibili nelle fiere statiche, in quelle “in campo” dove si vedono i mezzi operare, od anche mediante esemplari concessi in prova gratuita per uno o due giorni. Per le sementi, vengono allestiti campi prova, dove le diverse cultivar vengono seminate vicine, al fine di una agevole comparazione. I nuovi fitofarmaci vengono proposti dai fornitori, che di solito li corredano di indicazioni sulle modalità di utilizzo. Il tutto utile, ma soggetto ad apprezzamenti visivi, meno accurati delle misurazioni strumentali che sarebbero necessarie.

La divulgazione delle scoperte scientifiche - esempi

Il problema della divulgazione non è nuovo: già a partire dall’antichità è stato dibattuto, ed è diventato importante in seguito alle molte scoperte scientifiche avvenute a partire dal XIX secolo. Se indagati con attenzione, il nostro passato e le esperienze straniere possono fornire degli spunti per disegnare il futuro dell’agricoltura italiana. 

Epica fu la battaglia tra il conte di Cavour e Lorenzo Valerio per il controllo della Associazione Agraria Subalpina, inquinata da rivalità politiche e dalla viscerale antipatia che correva tra il Re Carlo Alberto e Cavour. In contrasto col Presidente Valerio, il Conte aveva dichiarato inutile la costituzione dei “poderi modello”, che in effetti vennero avviati, ma non ebbero in seguito grande fortuna, quindi abbandonati. Successivamente, oltre a continuare ad occuparsi del Barolo a Grinzane e del riso a Leri, abbracciata da poco la carriera politica, l’undici ottobre 1850 fu nominato Ministro dell’Agricoltura. Nell’estate erano state segnalate per la prima volta in Piemonte alcune infezioni di Oidio sulla vite, ed egli iniziò immediatamente ad occuparsene. Nel successivo mese di Luglio 1851 intrattenne una fitta corrispondenza (136 tra circolari e lettere) con gli Intendenti generali e provinciali del Regno per essere aggiornato sulle infezioni; avuta conferma dell’aggravarsi del problema, il 26 luglio lo segnalò all’Accademia di Agricoltura di Torino, della quale era Socio Ordinario. Il 9 agosto l’Accademia nominò una commissione di studio, che il 3 ottobre forniva una dettagliata relazione, con il suggerimento di sperimentare i trattamenti con lo zolfo. Visti i buoni risultati delle sperimentazioni effettuate nel 1852, ad inizio Luglio del 1853 il Ministro inviava agli Intendenti provinciali 150 copie di una seconda relazione dell’Accademia, con le indicazioni per le modalità dei trattamenti, da divulgare tra i viticoltori. L’efficiente interpretazione Cavouriana della ricerca e divulgazione scientifica in agricoltura fu ben diversa da quella mostrata dai suoi recenti successori nel caso delle infezioni da Xylella Fastidiosa. 

Nella neonata Italia unita, in un contesto agricolo ancora molto arretrato, iniziarono a comparire i comizi agrari, e le cattedre ambulanti di agricoltura. Queste ebbero un buon successo, divulgando direttamente le innovazioni idonee ai contesti locali.  Alcune si trasformarono in stazioni sperimentali: Nazareno Strampelli riuscì a trasformare quella di Rieti, che dirigeva, in una gloriosa Stazione Sperimentale. La Stazione Sperimentale di risicoltura e colture irrigue fu invece fondata a Vercelli nel 1908, per iniziativa dell’Unione Agricoltori locale, attiva dal 1901, che la finanziò insieme ad altre Associazioni agricole, enti pubblici e banche dell’area risicola.  

Dal giugno 1911, per divulgare i risultati delle sperimentazioni eseguite, iniziò la pubblicazione di un “Giornale di risicoltura” quindicinale, che ebbe una buona diffusione. L’abbonamento annuale costava 4 lire, pari circa al prezzo all’ingrosso di 10 kg di riso lavorato, un po' di più del salario di una giornata di 8 ore di monda (3,5 lire). Per attualizzare i valori, il costo complessivo per una giornata di monda oggi (praticata ormai solo per l’epurazione delle coltivazioni da seme) supera i 100 € per 7 ore, ed il prezzo all’ingrosso di 10 kg di riso Carnaroli è di 10 € (L’evoluzione del rapporto tra salari agricoli e prezzo degli alimenti è uno dei misconosciuti risultati della Green Revolution). L’attività della Stazione Sperimentale fu intensa, come i contatti con gli agricoltori. Furono banditi concorsi a premi per la costruzione di macchine innovative, giudicate mediante prove operative pubbliche, seguite attentamente da molti osservatori. Vi furono premi per i migliori riproduttori di sementi, ed ai premiati venivano forniti gratuitamente campioni delle nuove varietà costituite, per testarne l’adattamento ai vari tipi di terreni prima di metterle in commercio. L’intensa attività sperimentale, indirizzata da un Consiglio di Amministrazione composto in maggioranza da agricoltori, forniva sempre alla rivista apprezzabili suggerimenti da divulgare.  Possiamo estrapolare quindi le principali ragioni dei successi ottenuti, che hanno portato in 30 anni al raddoppio delle produzioni per ettaro:

  1. Sperimentazioni multidisciplinari indirizzate a risolvere i problemi più pressanti delle aziende
  2. Interazione continua tra sperimentatori e destinatari dei risultati
  3. Sperimentazioni effettuate contemporaneamente su diversi tipi di terreni
  4. Dimostrazioni diffuse dei risultati raggiunti

·   Rivista redatta con linguaggio semplice e molte documentazioni fotografiche. Un attuale modello efficace può essere riconosciuto in quello del Rice-Check australiano. Presso il Centro Ricerche Agricole del New South Wales, nel 1986 è stato iniziato lo sviluppo di una metodologia scientifica di coltivazione del riso. I risultati, dopo trent’anni di applicazione, hanno prodotto miglioramenti continui ed importanti: la produttività media nazionale è passata da 6,3 a 10 t/ha, mentre in Italia nel medesimo periodo 1986-2016 è passata da 6,3 a 6,8 t/ha. Anche l’impatto ambientale della coltivazione è stato significativamente ridotto. Il progetto ha coinvolto operativamente agricoltori, agronomi di campo e ricercatori. Gli agricoltori si impegnano ad eseguire sulle loro coltivazioni tutte le osservazioni e misurazioni ritenute utili dai ricercatori, raccolte dagli agronomi di campo (extension service) e trasmesse ai ricercatori. Gli agronomi di campo illustrano i suggerimenti dei ricercatori agli agricoltori, che li mettono alla prova, continuando a rilevare dati. Nonostante le ricorrenti siccità che negli ultimi anni hanno ridotto drasticamente le superfici coltivate a riso, e le relative contribuzioni alla ricerca, dal 1986 le raccomandazioni vengono continuamente aggiornate. Nel link successivo la versione 2018:

https://www.dpi.nsw.gov.au/__data/assets/pdf_file/0007/829330/RGG-accessible-22Aug2018.pdf

Anche l’Università dell’Arkansas abbina alla ricerca l’attività di extension, che è molto di più della divulgazione, attuando un programma ispirato a quello Australiano; di seguito il link della pubblicazione 2019:

https://www.uaex.edu/farm-ranch/crops-commercial-horticulture/rice/2019%20Rice%20Management%20Guide.pdf 

I limiti italiani alla ricerca scientifica

Purtroppo non possiamo illustrare sistemi altrettanto virtuosi in Italia. I fondi per la ricerca agricola sono scarsi, sempre più indirizzati alle coltivazioni biologiche, che per motivi ideologici e di marketing rifiutano gran parte delle innovazioni introdotte dalla Green Revolution: fertilizzanti chimici, progressi della genetica, fitofarmaci di sintesi. Un certo fermento, più da parte privata che dalle Università, esiste solo in alcuni settori. Molto propagandate le sostanze biostimolanti, che non sempre mantengono le promesse, e le nuove attrezzature per il controllo meccanico delle infestanti, che forniscono risultati accettabili solo in terreni molto sciolti, tanto da permettere interventi a scadenza ravvicinata anche in stagioni piovose. 

Per i cereali biologici è d’obbligo abbandonare la coltivazione delle cultivar moderne, denominate oggi “convenzionali”, molto produttive, a taglia bassa e foglie erette, affamate di fertilizzazione azotata, resistenti alle malattie fungine ma poco competitive con le infestanti. Quelle “antiche” che dovrebbero rappresentare l’innovazione, sono meno esigenti di fertilizzazione azotata e utilizzano una parte molto importante della sostanza elaborata dalla fotosintesi per produrre culmi molto lunghi ed ampie foglie pendule, sopportando meglio l’imperfetto controllo delle infestanti, con le quali sono più competitive rispetto alle varietà moderne. Il tutto a scapito della quantità della granella prodotta, e della resistenza alle malattie fungine: in caso di primavere umide le aflatossine nei granelli superano facilmente i livelli tollerati dalla legislazione. Dal canto loro, le industrie produttrici di fitofarmaci stanno investendo notevoli risorse per servire il mercato del biologico, immettendo sul mercato principi attivi di origine “naturale”, per ora con un’offerta molto ristretta di prodotti efficaci. Ci troviamo quindi di fronte a due indirizzi di ricerca divergenti, uno per il biologico, che tende a ridurre l’impatto ambientale per ogni ettaro coltivato, ma essendo meno produttivo richiederebbe di incrementare le superfici coltivate, ed uno per il “sostenibile”, che vuole incrementare le produzioni per ettaro riducendo l’impatto ambientale per ogni tonnellata di cibo prodotta a parità di superficie coltivata.

La proposta del Green Deal da parte della Commissione Europea fa presumere una decisa svolta verso il “biologico”, ipotizzando un’apertura allo sdoganamento delle NBT, nuove tecnologie di miglioramento genetico, al momento ancora incerta, in quanto avversata da molte organizzazioni ambientaliste.  Le NBT sarebbero comunque finalizzate ad assecondare l’ideologia, quasi una religione laica, della natura “buona” e del rispetto della “biodiversità”.  Per migliorare la sostenibilità del “convenzionale”, che comunque nel 2030 secondo la strategia “From Farm To Fork” dovrà rappresentare ancora il 70% della superficie coltivata in Europa, vi saranno meno risorse. Per mantenere l’attuale consistenza della produzione agricola, occorrerà compensare il prevedibile dimezzamento produttivo del 30% della superficie prevista “biologica”. Quindi l’agricoltura “convenzionale” o “sostenibile” dovrebbe incrementare la propria produzione del 20% nonostante il dimezzamento dell’impiego di fitofarmaci e la riduzione del 20% dei fertilizzanti chimici. Senza un deciso miglioramento tecnologico, costituito principalmente da un ampio utilizzo delle NBT, questo traguardo non sarà raggiungibile: si dovranno incrementare le importazioni extra-UE fino a quando saranno disponibili, in alternativa ci toccherà sperimentare, dopo l’attuale pandemia, anche la carestia. La FAO, nella riunione di Roma del settembre 2019 ha pubblicato una stima che richiede, per nutrire adeguatamente tutto il mondo, un incremento della produzione globale agricola del 70%. L’Europa, in passati decenni preoccupata delle eccedenze di burro, latte, grano, arance, da smaltire in dumping sul mercato mondiale, oggi nonostante le immagini, per fortuna durate pochi giorni, degli scaffali dei supermercati tristemente vuoti, continua a interpretare la sicurezza alimentare come “genuinità” del cibo, ignorando la certezza della disponibilità. Come si è fatta trovare impreparata alla pandemia del Covid 19, è del tutto impreparata a possibili perturbazioni geopolitiche od anche solo speculative dell’attuale sistema di commercio mondiale delle derrate alimentari. Eppure le cronache del raddoppio speculativo dei prezzi del grano verificatosi durante l’inverno 2010/11, che ha causato le rivoluzioni nordafricane, dovrebbero aver insegnato qualcosa.

L’agricoltore è il mestiere della pazienza

La coltivazione richiede nel corso dello sviluppo della coltura un continuo adattamento all’evoluzione climatica annuale, mai uguale da un anno all’altro, e prevedibile in modo attendibile solo per due o tre giorni. Temperature, piovosità, sviluppo di infestanti e parassiti sono strettamente collegati, e solo con un continuo adattamento degli interventi agronomici si possono ottenere buoni raccolti. La gestione della fertilità del terreno è opera complessa; l’evoluzione delle tecniche agronomiche richiede lunghi tempi di applicazione per ottenere risultati soddisfacenti e consolidati. 

Le ideologie cambiano rapidamente, invece, come scriveva Cavour al suo fattore Corio nel 1847: “l’agricoltore è il mestiere della pazienza”. L’agricoltura deve costruire il futuro con lungimiranza, deve adattarsi a complessi sistemi biologici, con tempi di reazione molto più lenti rispetto ad una fabbrica di bulloni. L’esperienza pluriennale ha una sostanziale importanza, per cui l’idea “From Farm To Fork” che vuole rivoluzionare l’agricoltura europea in soli 10 anni, dei quali almeno due verranno impiegati per diramare i regolamenti operativi, pare alquanto azzardata, per i rischi che si possono correre. La sfida che l’agricoltura si trova di fronte è certamente ardua, richiede moltissima innovazione, in gran parte ancora da esplorare, vista la nuova direzione che si vuole imporre, e poi divulgare. La sperimentazione universitaria italiana propone di norma i risultati delle ricerche su riviste scientifiche, scelte tra quelle a migliore “impact factor”, in lingua inglese, utili per la carriera dei ricercatori, ma poco abbordabili per gli agricoltori, che al massimo leggono le poche riviste divulgative italiane. I contatti diretti tra Università ed agricoltori non sono istituzionalizzati, si limitano alle scelte dei ricercatori più volonterosi, che fanno riferimento ad alcune aziende collaborative. Purtroppo, per la variabilità dei terreni e del clima, è quasi impossibile attuare il postulato galileiano della ricerca scientifica: spostarsi nel tempo e nello spazio per ripetere l’esperimento significa modificare le condizioni sperimentali; solo una sperimentazione pluriennale diffusa in differenti condizioni pedologiche e microclimatiche, assistita da una robusta analisi statistica, può dare indicazioni direttamente applicabili. 

Di norma in letteratura si trovano ricerche annuali o biennali, mentre gli interventi sulla fertilità del terreno richiedono più anni, per valutarne i risultati. Allo stesso modo le strategie di contenimento delle fitopatie devono essere sperimentate in un range di eventi climatici molto variabili, prima di produrre linee guida attendibili. Disponendo di risultati sperimentali efficaci nella pratica, non solo in laboratorio, li si potrebbe divulgare tramite un sistema del tipo “extension service” mutuato dagli esempi virtuosi, con agronomi che nel tempo si sono guadagnati la fiducia degli agricoltori, requisito indispensabile per convincerli ad adottare rapidamente le innovazioni proposte. L’introduzione di innovazioni che dovranno modificare radicalmente gli approcci della difesa delle piante, della fertilizzazione e delle lavorazioni dei terreni dovrebbe prescindere dagli interessi commerciali dei fornitori. Il decennio previsto dal “From Farm To Fork” potrebbe essere necessario solamente per impostare un sistema di sperimentazione e divulgazione adeguati alla sfida, rimandando i risultati attesi ad anni successivi.



GIUSEPPE SARASSO

Proviene da una famiglia di risicoltori del Vercellese. Dopo la laurea in Scienze agrarie e l’abilitazione alla professione di agronomo, ha scelto di esercitare l’attività di imprenditore risicolo.

 

 

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