sabato 29 agosto 2020

I CONTI SENZA L' OSTE DEL BIOLOGICO - Prima Parte

di ALBERTO GUIDORZI





Il concetto in senso ecologico di resilienza ha pervaso anche l’agricoltura e oggi, per molti, quest’ultima non è ritenuta durevole appunto per gli intrant (concimi di sintesi e fitofarmaci) che sono usati. Alla moderna agricoltura si assegna, inoltre, il termine di “convenzionale”; termine che a mio avviso è completamente inappropriato perché l’agricoltura moderna non ha più nulla di consuetudinario ed è piena di originalità.

Per contro si inventano nuove terminologie per definire altre agricolture, come la biologica, la biodinamica o la rigenerativa, che invece hanno tutto di convenzionale, appunto nel senso in cui lo abbiamo definito. Infatti, tutte queste agricolture alla moda sono un ritorno ai metodi consuetudinari antichi. Le si ammanta anche di “naturalezza” dimenticando che nell’uno e nell’altro caso esse sono artificiali perché inventate dall’uomo, che da sempre è stato animato dall’aspirazione (questa sì naturale!!!!) di disporre durevolmente di maggiori quantità di alimenti. Sotto questo aspetto è quindi più innaturale il coltivare biologico! Con tre compendi di altrettanti articoli di A. Mc Guire si dimostrerà, numeri alla mano, che il modo di coltivare biologico prima di tutto non è sostenibile e soprattutto è parassitario per la collettività. Per farlo si sono analizzati i processi di produzione e utilizzazione del “LETAME” elevato a simbolo assoluto di naturalezza. Si comincia rispondendo alla seguente prima domanda:

Il letame è una fonte durevole di rifornimento degli elementi chimici fertilizzanti asportati dai terreni? 

Da dove ci viene il letame? 
Esso è prodotto dagli allevamenti animali confinati, solo che si dimentica che questi non sono dei produttori primari, ma dei consumatori secondari (…assieme all’uomo). Il bestiame produce letame perché mangia vegetali (unici produttori primari). In altri termini possiamo dire che il bestiame allevato si nutre di “biomassa” e per giunta quasi esclusivamente di quella coltivata.   
Quanto letame possiamo produrre in un ettaro di terra coltivata?  
Per saperlo, visto che conosciamo il dato della biomassa prodotta nell’unità di superficie, occorre calcolare le perdite e sottrarle. Queste perdite sono dovute: 1° a quanto rimane incamerato nella carcassa animale che la mangia; 2° al suo funzionamento metabolico; 3° alle perdite di raccolta e trasporto della biomassa alla stalla e poi nella raccolta degli escrementi e dell’eventuale lettime. ASABE nel 2005 e NRCS nel 1995 hanno calcolato queste perdite rispettivamente tra il 57 e l’81% per le prime due cause, e tra un 4 e un 8% per la terza causa di perdita (ossia tra un 10 ed un 40% del letame fresco escreto). In totale dunque le perdite ammontano secondo un range che va dal 61% all’87%. Qui sotto quanto detto è sintetizzato in una vignetta.



Pur tenendo conto che gli allevamenti si nutrono di una varietà di vegetali, per semplicità di calcolo si è optato solo sull’ettaro di mais (esso infatti può essere usato come granella secca per il finissaggio dei bovini da carne, ma anche come silomais per le vacche da latte). Due quindi sono gli scenari prefigurati:



  • Scenario minimo, vale a dire produzione di 4 t/ha di letame             Lo scenario prevede che il bestiame da carne mangi 117 q di granella secca di mais ricavato da un ettaro medio di granoturco statunitense. Ora questo quantitativo di biomassa per il 70% e perso nell’alimentazione ed un restante 15% per il recupero e distribuzione del letame sul terreno. Si precisa che si parla di letame con il 33% di umidità.  
  • Scenario massimo, vale a dire produzione di 14 t/ha di letame Questo secondo scenario prevede che delle vacche da latte mangino le 74 t/ha di biomassa data da silomais al 65% di umidità. Di questa biomassa se ne perde il 57% in fase di alimentazione delle vacche ed un 20% nel recupero del letame e relativa distribuzione. Si torna a precisare ancora che si parla sempre di letame con il 33% di umidità.
E' bene dire a questo punto che se si osservasse l’ettaro dove sono state distribuite le 4 t di letame, quasi quasi non vedremmo che ciò sia avvento, mentre se fossero le 14 t appena appena si vedrebbe qualcosa. Si fa notare che in fatto di letame nei vecchi manuali di coltivazioni erbacee (Il mio data 1945) si legge di doverne distribuire 30-40 t al mais e alla barbabietola da zucchero e addirittura 50 alla canapa per assicurare le seguenti produzioni: 420 q di radici di bietola, 60 q di mais e 130 q di steli di canapa. Solo il frumento non veniva letamato in quanto doveva sfruttare la cosiddetta “forza vecchia”. Tuttavia anche negli stessi manuali si dice che tali copiose quantità di letame erano da integrare con concimi chimici per soddisfare gli asporti delle produzioni appena citate e che sono la metà di oggi. Sulle qualità dei vari letami un articolo informativo (qui).

Quanto letame occorrerebbe ridistribuire sull’unità di superficie per ripristinare gli asporti di N e conservare intatta la fertilità del campo a mais?


Se consideriamo lo scenario minimo 
  • Per conservare la produzione dei 117 q/ha di granella occorrerebbe distribuire 55 t/ha di letame per ripristinare le disponibilità di N (9,4 lb di N/t di letame)
  • Per quanto riguarda il P invece si dovrebbero distribuire 9,4 t di letame (fosforo: 7.5 kg/t di letame).  
Se consideriamo lo scenario massimo  
  • Le cose migliorano per l’azoto ma la saldatura non si raggiunge, mentre è possibile per il fosforo.
Insomma sia con 14 t di letame e tanto meno con 4 si riesce a ripristinare la fertilità e quindi con il solo letame l’agricoltura non è durevole, salvo accontentarsi di vedere diminuire sempre più le produzioni con le conseguenze che ben si immaginano.

Conclusioni


Al fine di trarre queste ultime, dobbiamo basarci su un’altra versione della situazione, cioè per fornire tutto l’azoto asportato da un ettaro di mais dovremmo coltivare 13,8 ettari di mais, trasformarli tutti in letame e distribuirli solo su un ettaro. Mentre per ripristinare il fosforo sono sufficienti 2,4 ha. Questo per lo scenario minimo, mentre se consideriamo quello massimo per ripristinare l’azoto occorrerebbe coltivare 3,9 ettari e per il fosforo l’ettaro coltivato trasformato in letame ripristinerebbe l’asporto.
Adesso si tratta di vedere come è evoluta la produzione di letame. Prima, dato che tutte le aziende agricole avevano anche un indirizzo zootecnico, il letame era disponibile in loco, seppure, come abbiamo visto, in quantità insufficienti. (Ndt: Mi si permetta a questo punto una digressione, prima queste aziende erano definite “intensive” in quanto i carichi di bestiame erano portati al massimo, mentre ora aziende del genere sono definite biologiche e non intensive). Ritornando all’attualità, oggi invece si è di fronte ad una concentrazione degli allevamenti e qui confluisce molta della biomassa prodotta in altri luoghi e, tra l’altro, molto distanti. È vero che qui si generano disponibilità enormi di letame, solo che questo letame è alla sola portata di coloro che sono più o meno confinanti con l’allevamento e che quindi potrebbero ripristinare la fertilità dei loro campi con il solo letame. Infatti, il discriminante è dato dalle spese di trasporto. Per tutti coloro il cui costo di trasporto è antieconomico, ma che comunque hanno fornito la biomassa necessaria a nutrire gli animali dell’allevamento, quel letame è indisponibile, cioè non può ritornare nei loro campi. In altri termini il letame è un elemento “durevole o rinnovabile” solo per qualcuno, mentre è una chimera per tutti gli altri, salvo che non tornino a dotarsi di allevamenti aziendali. Tuttavia se facessero ciò la loro organizzazione aziendale risulterebbe rivoluzionata rispetto all’attuale e spesso economicamente e organizzativamente non più sostenibile. È tanto vero ciò che, infatti, i regolamenti dell’agricoltura biologica e biodinamica che prevedono l’uso del solo letame (tal quale o in compost) non impongono agli aderenti l’obbligo dell’allevamento, se lo facessero assisteremmo ad un fuggi-fuggi generale dal coltivare biologico, visto che anche oggi gli animali d’allevamento mangiano ogni giorno. Una soluzione ci sarebbe, solo che si dovrebbe decidere di riciclare gli elementi fertilizzanti finiti nelle fogne delle città per effetto dell’alimentazione umana. Allo stato attuale dell’organizzazione sociale delle città la cosa è impossibile, anzi ben lo sanno i decisori politici che si trovano subito contestati quando parlano di distribuire nei campi i fanghi di depurazione.


ALLO STATO ATTUALE DUNQUE NON ESISTE LA POSSIBILITA’ DI UN RICICLO AI FINI DI UN’AGRICOLTURA DUREVOLE DEGLI ELEMENTI FERTILIZZANTI ASPORTATI CON LE BIOMASSE E PERTANTO IL PRODURRE STABILMENTE IN MODO BIOLOGICO È PURA UTOPIA.





Testo da cui è stato tratto il presente compendio

 
http://csanr.wsu.edu/can-manure-supply-n-and-p-to-ag/


Bibliografia dell’articolo originale

 
American Society of Agricultural and Biological Engineers. (2014). Manure Production and Characteristics (Standard No. ASAE D384.2).
Haynes, R. J., and R. Naidu. 1998. “Influence of Lime, Fertilizer and Manure Applications on Soil Organic Matter Content and Soil Physical Conditions: A Review.” Nutrient Cycling in Agroecosystems 51 (2): 123–37. doi:10.1023/A:1009738307837.
Magdoff, F., L. Lanyon, and B. Liebhardt. 1997. Nutrient Cycling, Transformations, and Flows: Implications for A More Sustainable Agriculture. Advances in Agronomy 60 (January): 1–73. doi:10.1016/S0065-2113(08)60600-8. 





ALBERTO GUIDORZI
Agronomo. Diplomato all' Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureto in Scienze Agrarie presso UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni presso la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia ; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.

5 commenti:

  1. Vero che le nostre vedute evidentemente sono molto divergenti, ma del "parassita" non me lo aveva mai dato nessuno.Saluti e buona continuazione per i suoi studi sul"letame".

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    1. In biologia, qualsiasi organismo animale o vegetale che viva a spese di un altro è un parassita. Ora visto che la terra che produce beni primari è fondamentalmente un bene comune uno che scientemente accetta di produrre un filone di pane per mq al posto di tre è un parassita della collettività. Non solo ma questo ha fatto da fondamento giuridico per eseguire l'esproprio dei latifondi quando il cibo era il solo bene indispensabile e quindi la pratica è entrato a far parte del bagaglio del legislatore.

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  2. Alberto

    è sempre un piacere leggerti
    sia per come scrivi, sia per quello che scrivi, istruttivo e, per le mode correnti, poco convenzionale ma interessante

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  3. Caro Alberto,
    dopo averti fatto i miei più sentiti complimenti sul tuo articolo vorrei dirti che, a mio parere, chi ha fatto i calcoli delle perdite sulla filiera foraggero-zootecnica è stato molto ottimista, sia per quanto riguarda la fase metabolica, sia per le perdite di sostanza secca del foraggio durante le fasi raccolta-trasporto-conservazione, sia nella fase di gestione del letame prima del suo interramento. A livello metabolico le perdite possono arrivare anche al 90%, soprattutto in animali che sono continuamente in movimento, come si vorrebbe a livello etico per garantire il benessere animale. Per quanto riguarda le perdite tra la raccolta e l'utilizzazione animale tu hai fatto riferimento al silomais che è una delle filiere più efficienti, ma in biologico si preferisce utilizzare fieno e qui le perdite aumentano in modo esponenziale. la fase di produzione del letame, prima della sua utilizzazione in campo, può ugualmente provocare perdite consistenti. Penso quindi che i calcoli dovrebbero essere rivisti ampliamente al ribasso.
    Rodolfo Santilocchi

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  4. Scusami, vedo solo ora il tuo commento. Grazie dell'aggiornamento che è molto importante, Forse, parafrasando il titolo, dovrei cambiarlo avvertendo che l'oste non solo era assente...era morto da anni!

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