di ALBERTO GUIDORZI
Premessa
Una decina di anni fa in un mercatino di robivecchi vidi un pacco legato con lo spago che conteneva una ventina di numeri della rivista mensile “il Riso”. Per 10 euro comprai il tutto e lo riposi nel mio archivio. Sul n° 7 del luglio 1958 (cioè più di 60 anni fa, ossia l’anno d’inizio del MEC- Mercato Comune Europeo, tanto per darne una collocazione ed un contesto storico) ho reperito un articolo a firma di A. Gualazzi dal titolo: “l’impresa contadina padana nella nuova realtà economica” nel rileggerne il contenuto ho fatto il confronto con la situazione di oggi, dove da una parte si pontifica ancora sulle piccole aziende fino a fare delle microaziende orto-frutticole biologiche degli esempi da imitare al punto da illudere la caterva di consumatori “sanoecobucolici” di oggi che lì stia l’avvenire dell’agricoltura della sicurezza quali-quantitativa per alimentare del paese e soprattutto per far da base del nostro agroalimentare da esportare.
L’articolo inizia citando un articolo del Codice Civile (che non so se esista ancora) che definisce la Minima Unità Colturale (MUC) come: “l’estensione di terreno necessario e sufficiente per il lavoro di una famiglia agricola e per esercitare una conveniente coltivazione secondo le regole della buona tecnica agraria”. È implicito derivarne: 1° che al di sotto della MUC non si poteva coltivare convenientemente, cioè non si poteva campare, salvo non poter contare su altri introiti; 2° inoltre la MUC doveva permettere di assorbire totalmente la capacità lavorativa del “coltivatore diretto” (figura magica per quei tempi unitamente alla Piccola Proprietà Contadina). Se poi questo avesse avuto famiglia l’azienda doveva assorbire anche questa forza lavoro e di conseguenza la MUC doveva avere un’estensione più ampia. Le statistiche del tempo dicevano che vi erano 3.500.000 aziende sotto i 10 ettari e 400.000 sopra i 10 ettari.
Che evoluzione ha avuto l’agricoltura italiana in 60 anni?
Successivamente l’articolo cerca di calare il tutto nella realtà della bassa pianura lombardo-piemontese dove si coltivano cereali e foraggi trasformati in azienda. A quei tempi inoltre esisteva ancora l’imponibile di manodopera, grosso modo calcolato in una persona ogni 4 ettari, ma che normalmente aumentavano a 5/6 ha. Dunque un coltivatore diretto come minimo doveva gestire almeno 4 ettari se voleva campare lui e il salariato imposto, se poi aveva in famiglia un’altra unità lavorativa (normalmente la moglie) allora occorreva aumentare di 2/3 la superficie. In definitiva si arrivava a 7 ettari. L’articolo poi riportava il carico salariale annuo pari a 2200 ore uomo e altrettante per la donna. Il che equivaleva alle circa 40 ore settimanali medie. Sui 7 ettari il carico salariale totale lo faceva equivalere a 800.000 lire di costi, da imputarsi su una PLV che per i 7 ettari era calcolata pari a 1,8/1,9 milioni di lire. Attualizzando il tutto ad oggi abbiamo rispettivamente circa 10.900 € di carico salariale su 24/26.000 € di PLV.
Ora un’azienda del genere trasferita ad oggi, visto che le stalle aziendali sono sparite, potrebbe coltivare solo mais, frumento e soia e pertanto potrebbe contare su una PLV di 7/8.000 €. Ecco perché oggi la Coldiretti vaneggia a voler mantenere queste aziende, infatti, aveva torto a quei tempi dove già si diceva unanimemente che per il futuro era auspicabile un aumento della superficie dell’azienda diretto coltivatrice, appunto per tener conto delle previsioni sui prezzi e soprattutto perché non si credeva nell’aumento delle produzioni unitarie dei cereali (pensate si credeva di avere raggiunto pressoché il top invalicabile!). Per questo si ipotizzavano i 10 ettari. Inoltre a quei tempi era già in atto uno sfoltimento della manodopera agricola salariata ed anche di componenti giovani delle famiglie contadine (emigrazione nell’industria). Tuttavia non si può scordare che la società di allora considerava il disporre di cibo sufficiente la massima aspirazione e per raggiungere l’obiettivo la manodopera famigliare era valutata solo marginalmente da un punto di vista economico.
Ora un’azienda del genere trasferita ad oggi, visto che le stalle aziendali sono sparite, potrebbe coltivare solo mais, frumento e soia e pertanto potrebbe contare su una PLV di 7/8.000 €. Ecco perché oggi la Coldiretti vaneggia a voler mantenere queste aziende, infatti, aveva torto a quei tempi dove già si diceva unanimemente che per il futuro era auspicabile un aumento della superficie dell’azienda diretto coltivatrice, appunto per tener conto delle previsioni sui prezzi e soprattutto perché non si credeva nell’aumento delle produzioni unitarie dei cereali (pensate si credeva di avere raggiunto pressoché il top invalicabile!). Per questo si ipotizzavano i 10 ettari. Inoltre a quei tempi era già in atto uno sfoltimento della manodopera agricola salariata ed anche di componenti giovani delle famiglie contadine (emigrazione nell’industria). Tuttavia non si può scordare che la società di allora considerava il disporre di cibo sufficiente la massima aspirazione e per raggiungere l’obiettivo la manodopera famigliare era valutata solo marginalmente da un punto di vista economico.
Che evoluzione ha avuto l’agricoltura italiana in 60 anni?
Da questo link (qui) si evince che nel 2016 vi erano in Italia 1.145.705 aziende agricole e solo il 26% superava i 10 ettari (cioè quel numero fatidico preconizzato 60 anni fa), di cui però solo il 5% era superiore ai 50 ha. Nel restante 74% sotto i 10 ettari il 58% era minore di 5 ha e il 16% era compreso tra i 5 e i 10 ettari; dunque totalmente in controtendenza con le preconizzazioni del 1958. Tralasciamo di addentrarci nella disamina dei cambiamenti avvenuti a livello di situazioni di mercato, di mondializzazione sia a livello di produzione che di scambi e fermiamoci ad analizzare solo quel 58% delle aziende agricole italiane con meno di 5 ettari e che da tempo sono da annoverarsi nella categoria delle microaziende che hanno dovuto inventarsi una intensificazione colturale per sfruttare la filiera corta, il Km0 e la domanda di produzioni certificate e tracciate.
Microaziende orticole biologiche
Prima di parlare delle microaziende biologiche che è lo specchietto per allodole di un’opinione pubblica che crede che in campagna si possa vivere d’aria e del canto dei grilli, è giusto far notare i dati totalmente anomali e completamente in controtendenza del biologico in Italia, il che ci fa dire che il fenomeno da un punto delle statistiche pubblicate è completamente fasullo. Nel 2016 le statistiche dicevano che l’azienda biologica media italiana poteva contare su 28 ha contro gli 8,4 ha della media aziendale convenzionale italiana; in particolare al Nord l’azienda bio media era di 21,2 ha contro una media aziendale generale di 10,5 ha, mentre al sud i dati sono rispettivamente di 39,4 ha e 9,8 ha. Un dato che è spiegabile solo se si ammette che molta superficie ormai improduttiva è dichiarata biologica solo per lucrare sui contributi suppletivi, infatti, non è credibile che tutte le aziende biologiche rientrino in quel misero 19% di aziende che hanno una superficie compresa tra i 20 ed i 50 ha (vedi link precitato).
Microaziende orticole biologiche
Prima di parlare delle microaziende biologiche che è lo specchietto per allodole di un’opinione pubblica che crede che in campagna si possa vivere d’aria e del canto dei grilli, è giusto far notare i dati totalmente anomali e completamente in controtendenza del biologico in Italia, il che ci fa dire che il fenomeno da un punto delle statistiche pubblicate è completamente fasullo. Nel 2016 le statistiche dicevano che l’azienda biologica media italiana poteva contare su 28 ha contro gli 8,4 ha della media aziendale convenzionale italiana; in particolare al Nord l’azienda bio media era di 21,2 ha contro una media aziendale generale di 10,5 ha, mentre al sud i dati sono rispettivamente di 39,4 ha e 9,8 ha. Un dato che è spiegabile solo se si ammette che molta superficie ormai improduttiva è dichiarata biologica solo per lucrare sui contributi suppletivi, infatti, non è credibile che tutte le aziende biologiche rientrino in quel misero 19% di aziende che hanno una superficie compresa tra i 20 ed i 50 ha (vedi link precitato).
Detto ciò è molto più credibile quindi che le aziende veramente e seriamente biologiche siano quelle che coltivano specie a maggiore valore aggiunto quali le orticole e le frutticole, ma che per i gravosi carichi di manodopera non possono essere molto estese e quindi rientrino in quel 58% che contano meno di 5 ha (anzi quasi tutte di molto meno superficie perché i 5 ettari sono già troppi). Inoltre la sopravvivenza dipende dalla vendita diretta in azienda o in luoghi di prossimità all’azienda stessa. Le esperienze fatte in molti altri paesi europei come la Francia il Belgio, la Germania ecc. sono molto istruttive su queste esperienze e tra l’altro sono molto più avanzate delle esperienze italiane. Non per questo, però, hanno una valenza innovativa, innanzitutto fanno lobby e quindi spingono la politica ad essere prodiga di sostegni, vista anche la benevolenza con la quale i consumatori “sanoecobucolici” vedono acriticamente queste esperienze, e come i media amplificano e portano ad esempio queste gestioni delle terre. Inoltre i molti guru europei, considerati dei “maitres à penser” delle modernità, e che portano ad esempio le loro aziende così condotte, omettono di dire che la produzione di beni agricoli rappresenta la minore attività economica; la maggiore è data dall’addestramento e dimostrazione a pagamento di volontari vogliosi di apprendere i modi di coltivazione per cercare di avvicinarsi alla natura (il nuovo totem moderno). È più questa seconda attività che concorre al fatturato aziendale che non la vendita dei prodotti. Insomma hanno convinto media e persone, che hanno abbracciato l’ideologia ambientalista, che la loro sarà l’agricoltura di domani, senza però che vi sia una convalida economica e sociale. Il pensarlo è minato da due pregiudizi:
- che la svolta permette di mantenere le strutture fondiarie esistenti;
- che comunque viene meno la figura dell’agricoltore che vive del suo intraprendere.
All’inizio partono con buoni propositi nel senso di dare senso alla loro vita partecipando con maggiore coerenza ai modelli agricoli. Solo che presto si accorgono che comunque devono ricavare denaro per vivere e per farlo devono lavorare 60/70 ore alla settimana. Molte ricerche su queste aziende, varianti da 0,5-2 ettari e ad alta intensità di manodopera non meccanizzata, mostrano che la compensazione del lavoro non va oltre i 7/9 €/ora. Un esempio è la Permacoltura dove si ha una parte ad orto e una parte di agroforesteria e che quindi come modello può anche soddisfare esigenze di agricoltura sostenibile, ma se poi la rilevanza economica latita non si può pensare che l’esperimento abbia seguito. Abbiamo inoltre un altro aspetto da non sottovalutare che è quello della complessità tecnica; l’operare per rispondere ad una esigenza di biodiversità con 40-50 varietà o specie botaniche diverse non è da tutti, specialmente se si è iniziato digiuni di conoscenze bioagronomiche. Trovare un punto di equilibrio, però significa semplificare, ma guarda caso è proprio quello che ha fatto l’agricoltura convenzionale che ha rincorso la specializzazione; è bene ribadire a questo proposito che la scelta non è derivata su basi di scienza agronomica, anzi, ma piuttosto obbligati dall’evoluzione del mercato, che, guarda caso, è determinato proprio da quei consumatori che hanno preteso il piatto sempre più pieno ed a prezzi sempre più decrescenti, cioè quelli che ora colpevolizzano l’evoluzione dell’agricoltura. Per di più se esperienze del genere dovessero moltiplicarsi entra in ballo la concorrenza a rendere più aleatorio l’operare. La soluzione sarebbe consorziarsi per ampliare l’offerta e limitare la concorrenza.
Insomma il paragone tra il “ieri” e “l’oggi” ci dice che l’agricoltura italiana non solo non è evoluta rispettando quelle che erano le prefigurazioni passate e già presenti nell’agricoltura della sussistenza, ma gli si vorrebbe imprimere un cambiamento verso un ritorno al passato. Se gli agricoltori del 1958, che rappresentavano per giunta, il 50% della popolazione attiva del tempo, potessero vedere questa non evoluzione, anzi involuzione, penso proprio che direbbero: “ma che discendenti abbiamo generato? Valeva la pena faticare tanto e mangiare poco e male per far venire al mondo dei nipoti tanto incapaci?”
ALBERTO GUIDORZI
Agronomo. Diplomato all'Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureato in Scienze Agrarie presso l'UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni per la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.
Agronomo. Diplomato all'Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureato in Scienze Agrarie presso l'UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni per la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.
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