venerdì 8 maggio 2020

FENOMENOLOGIA DI CARLIN PETRINI

 

 di MICHELE LODIGIANI

 

  Tratto da "I Tempi della Terra"


                                                                           

Slow Food - storia di un'utopia possibile Carlo Petrini in conversazione con Gigi Padovani
 

Il libro che presentiamo oggi, uscito nel 2017, non è soltanto il racconto delle storie intrecciate di Slow Food e del suo carismatico leader, ma anche una testimonianza di prima mano sul clima culturale che si è andato affermando negli ultimi decenni e una efficace denuncia – presumibilmente del tutto involontaria – della frattura fra la realtà e la sua rappresentazione che caratterizza i nostri tempi.

Davvero impressionante la carriera di Petrini! Esordisce nel movimento giovanile della San Vincenzo di Bra, cittadina che gli diede i natali nel 1949, dimostrando immediatamente le sue doti organizzative. Il vento del ’68 spinge tuttavia in tutt’altra direzione: l’ex vincenziano fonda un circolo culturale che promuove spettacoli di varia natura, dal quale nascono successivamente un periodico, “In Campo Rosso”, e ancora l’emittente “Radio Ombre Rosse” (le cui frequenze furono in seguito acquistate, paradossi della sorte, da Berlusconi). All’impegno politico comincia a sovrapporsi quello enogastronomico: partecipa attivamente alla nascita de “Il Gambero Rosso” (come inserto de “Il Manifesto”), collabora con diverse riviste nazionali, fonda la “Libera e Benemerita Associazione Amici del Barolo”, primo nucleo di Arci Gola, dal quale si staccherà qualche anno dopo (e siamo nel 1986) per creare un’associazione autonoma: nasce Slow Food, «Movimento per la tutela e il diritto al piacere». Ma questo è solo l’inizio! Ecco allora la “Slow Food Editore” (con il suo best seller “Osterie d’Italia”), il “Salone del Gusto” e “Terra Madre” (la globalizzazione positiva), l’”Università delle Scienze Gastronomiche” e ancora un’infinità di iniziative grandi e piccole, sempre all’insegna del cibo “buono, pulito e giusto”, che hanno fatto di Petrini un ineludibile “maître à penser”, “uno dei 50 uomini che potrebbero salvare il pianeta” secondo il Guardian, un “ambasciatore speciale” della FAO, il presidente della “Fondazione Campagna Amica” di Coldiretti, un Accademico dei Georgofili, uno scopritore di talenti, l’esegeta del Papa.
Non c’è che dire! Una storia davvero degna di essere raccontata, non dissimile per molti versi da quelle di tanti capitani di industria che, con analoga dedizione, hanno creato imperi economici. In effetti Slow Food è anche, fra le altre cose, una fiorentissima attività imprenditoriale: il fatturato della “casa madre” si aggira intorno ai 24 milioni di euro, ma non considera le molte attività collegate, che hanno autonomia giuridica, né l’Università. E’ presumibile che il movimento di denaro indotto da tutte le attività in qualche modo connesse (che coinvolgono, si dichiara, più di un milione di persone) sia davvero degno di una multinazionale. Anche se Petrini ostenta una certa indifferenza verso il denaro, il successo economico è forse da ritenersi il maggior merito di Slow Food, che ha saputo promuovere in varie forme e in molti casi anche canalizzare il prodotto di molti imprenditori (piccoli, grandi e grandissimi) con una efficacissima strategia di marketing.
Questo è quanto il libro racconta, in modo piuttosto piacevole, lineare e, si presume, sostanzialmente attendibile. Quali, allora, le ragioni che inducono a parlare di frattura fra la realtà e la sua rappresentazione? Più di una!
In primo luogo il passo letterario. La scrittura è a quattro mani, allo scopo – secondo l’editore (… che per altro è lo stesso Slow Food Editore) – di sollevare Petrini dal “comprensibile imbarazzo di raccontar sé stesso” (imbarazzo superato senza troppo sforzo: il testo è in buona parte costituito dalla semplice trascrizione dei racconti dello stesso Carlin), ma più probabilmente – si è indotti a pensare – per maggiore adesione alla struttura del poema epico a cui il libro, forse inconsapevolmente, si richiama. Oltre alla narrazione in terza persona, infatti, vi sono altri elementi che confermano questa ipotesi: la rappresentazione del mythos, cioè il racconto di un passato glorioso e perduto in cui, con riferimento alla fattispecie, il cibo era “contadino” e quindi “buono, pulito e giusto” per definizione (oltre che poco, soprattutto per i contadini stessi, ma su questo punto il poema sorvola); le gesta dell’eroe, il personaggio al centro della narrazione, che non ne sbaglia una e domina la scena per forza (come Achille), astuzia (come Ulisse), devozione alla patria (come Ettore), pietas (come Enea) o per tutte queste cose insieme e molte altre ancora (come Carlìn); il ruolo dell’antagonista, nel nostro caso una figura collettiva che riunisce in sé il produttore di cibo industriale, il manager della multinazionale, l’agricoltore convenzionale, insomma tutti gli elementi costitutivi di un sistema alimentare che Petrini definisce “criminale” (la citazione è testuale); la celebrazione della catarsi, il rito di purificazione attraverso cui il corpo (e per metafora la società) si libera da ogni contaminazione, un passaggio forse doloroso ma certamente liberatorio che consente anche al più spregiudicato antagonista di ravvedersi e di mondarsi, conformandosi al dettato di Slow Food, da ogni precedente malefatta; il manifestarsi nelle faccende umane degli Dei, raccolti in un pantheon assai variegato e molto terreno: alcuni di essi numi ispiratori (fra gli altri l’immancabile Latouche, il profeta della decrescita, e Dario Fo), altri semplici comparse o citazioni (una lunga teoria di nomi, prevalentemente orientati politicamente, dalla “sinistra intelligente” che si raccoglieva intorno al Manifesto, alla “gauche caviar” di Repubblica), altri ancora generosi dispensatori di grazia (di tasca propria o di tasca nostra), uno solo da uomo elevato a vice Dio per poi nuovamente umanizzarsi (Papa Francesco). In una certa misura, pertanto, l’attendibilità del racconto va parametrata alla forma letteraria prescelta: neanche l’Iliade è da prendere proprio alla lettera!
Se la scrittura si rifà dunque all’archetipo letterario per eccellenza, la matrice sociologica è di più recente impronta. Frequentatore non molto assiduo della facoltà di Sociologia di Trento (fucina di ben altri disastri), Petrini dimostra di aver messo ben a frutto le poche lezioni seguite, scegliendo fortunatamente un percorso tutt’affatto differente da quello di un altro famoso (famigerato!) studente di quell’università, Renato Curcio. Questi, infatti, prese sul serio le analisi d’accatto dei molti intellettuali (?) che in quegli anni straparlavano dell’imminente rivoluzione e si propose, nelle forme drammatiche che conosciamo, come avanguardia armata di un immaginario movimento popolare. Ebbe per qualche anno un certo successo, raccogliendo la rabbia di alcuni sognatori che ne condividevano la fede e ne seguirono la sorte. Chi scambia i propri sogni per la realtà, la storia ce lo insegna, è tuttavia destinato a vivere incubi e, spesso e soprattutto, a farli vivere agli altri. Fu così che le Brigate Rosse (e le tante sigle analoghe che superarono il movimento delle origini in “purezza” e conseguente violenza) terminarono la loro triste parabola con un duro risveglio nel grigiore delle carceri, popolate da pentiti, dissociati e irriducibili, lasciando come unica traccia una lunga scia di sangue innocente, come unico risultato un rafforzamento di quello stato che si proponevano di abbattere e come unica eredità una legislazione d’emergenza non sempre degna di una democrazia liberale. Carlin, per fortuna sua e nostra, era di tutt’altra pasta. Di carattere bonario, certo non indifferente all’ideologia ma più che altro incline alla goliardia, fece una lettura assai più realistica dell’Italia di quegli anni, che non aspirava affatto all’egualitarismo dei soviet, ma se mai alla concretizzazione del sogno piccolo borghese delle “mille lire al mese” (attualizzate e indicizzate all’inflazione), al godimento del benessere diffuso, a raccogliere i frutti generati dagli straordinari ma assai faticosi anni della ricostruzione post bellica. L’Italia cresceva, la spesa alimentare aumentava in termini assoluti ma diminuiva enormemente in termini di incidenza sulla spesa totale (da più del 50% negli anni ’50 del secolo scorso a meno del 20% di oggi), liberando risorse per il tempo libero, i viaggi e molte altre destinazioni, e anche per la “tutela e il diritto al piacere”. Petrini fece propria, quindi, la lezione di un altro autorevole frequentatore – in questo caso in vesti di docente – dell’Università di Trento, il professor Francesco Alberoni, raffinato analista dei rapporti amorosi ma anche ispiratore della linea del “Mulino Bianco” della Barilla, che riusciva a sfruttare astutamente e con grande successo commerciale la nostalgia per la naturalità dei bei tempi andati che in un paese ormai avanzato, ma sempre un po’ restio alla modernità come il nostro, era in grande crescita. Da queste premesse nasce probabilmente l’audace decisione di “sdoganare” la crapula, di rivendicare la gozzoviglia come patrimonio nazional popolare della sinistra, di lasciarsi alle spalle non solo il grigiore alimentare del socialismo reale, ma anche la severa sobrietà del PCI berlingueriano: erano, d’altronde, gli anni del “riflusso”, dell’”edonismo reaganiano” e della “Milano da bere” e le nuove tendenze finirono per contagiare anche molti insospettabili orfani delle ideologie, la cui decadenza era in atto da tempo e che poco dopo furono seppellite dalle macerie del muro di Berlino. Che fare? se Lenin finiva nella pattumiera della storia, l’interrogativo con cui egli titolava una delle sue opere più significative riacquistava improvvisa attualità!

“…

Per ora rimando il suicidio

e faccio un gruppo di studio

le masse la lotta di classe i testi gramsciani

far finta di essere sani

far finta di essere sani

…”

cantava Gaber qualche anno prima, e proprio nei testi gramsciani Petrini trovò la cassetta degli attrezzi per uscire dall’impasse (o, meglio, per trarne fuori la sua parte politica: lui in ogni circostanza ha dimostrato di sapere “che fare?”), rivitalizzando e orientando verso nuovi obiettivi il concetto di “egemonia” del pensatore sardo, la strategia che nell’elaborazione teorica del comunismo nazionale aveva da tempo sostituito, superandolo, il principio marxista di “dittatura del proletariato”: “L’egemonia – dichiara il nostro verso la fine del libro – non si deve basare sulla forza, sul dominio, sul governo, ma sulla condivisione e sulla capacità di propagare le idee con autorevolezza e consenso”. E’ un disegno esplicito, consapevole e lucido, che Slow Food ha saputo realizzare con straordinaria efficacia, ereditando e finalizzando allo scopo l’intero meccanismo sociale che la sinistra aveva saputo imporre nel Paese (non certo con la forza ma, appunto, egemonicamente) dal dopo guerra al fatidico 9 novembre 1989. Assai difficile in quegli anni per un intellettuale che non fosse “organico”, o almeno politicamente schierato, essere riconosciuto come tale, veder recensito un proprio libro o un proprio film, partecipare a trasmissioni televisive; la scena era infatti dominata dalla “sinistra intelligente” … e a volte anche da quella cretina: l’appartenenza era una dote indispensabile, il talento non sempre! Il meccanismo, dunque, si rimise in moto, ma perduta la bussola delle ideologie occorreva trovare una nuova rotta, cioè nuovi temi che intercettassero un sentire diffuso – con buone possibilità di divenire “egemonico” – e quindi nuove parole d’ordine che ne esprimessero con efficacia e immediatezza il messaggio. Di questo cambiamento Slow Food riuscì ad essere insieme effetto e causa: da una parte allargava il proprio orizzonte, attribuendo alla semplice “tutela del piacere” valenze culturali e sociali un po’ posticce e infatti neppure citate nel manifesto costitutivo, che era se mai tutto improntato ad un tono goliardico/edonistico; dall’altra, proprio in forza della nuova “mission” che si dava, cominciava ad esercitare un’influenza sul modo di porsi non solo nei confronti del cibo, ma anche dei sistemi di produzione, dei modelli di sviluppo, dei rapporti economici che con il tempo è diventata, anche con il concorso di molti altri attori e movimenti, pervasiva, appunto “egemonica”. Insomma: questa volta la rivoluzione – quanto meno quella culturale – è riuscita e, come tutte le rivoluzioni, da fenomeno liberatorio e innovativo si è rapidamente trasformata in strumento di conservazione e, in termini intellettuali, di censura quando non di oppressione. Se alcune delle ragioni originarie di questa rivoluzione avevano una certa fondatezza – l’abbandono frettoloso di alcune tecniche agronomiche utili, la perdita di alcune tradizioni gastronomiche, un’eccessiva disinvoltura ambientale nei processi produttivi, ecc. – i metodi emozionali anziché razionali con cui esse si sono affermate, la visione manichea con cui si è guardato ai problemi, la pretesa esclusività delle ricette virtuose, la demonizzazione di chi esce dall’ortodossia, la frequente mistificazione della realtà, sono essi stessi diventati una parte del problema anziché costituirne una soluzione. Ed ecco, dunque, che nel “petrinismo” emergono enormi contraddizioni che solo un forte pregiudizio ideologico impedisce di vedere.
La prima, più evidente e più grave in termini di responsabilità sociale, è che i modelli produttivi proposti hanno inconfutabilmente scarsa capacità produttiva e se il loro impiego fosse generalizzato porterebbe inevitabilmente alla necessità di mettere a coltura quanto residua delle terre vergini e forestate o, in alternativa, condannerebbe alla fame una parte ancora più rilevante dell’Umanità, la cui preoccupazione non è propriamente il recupero delle tradizioni gastronomiche, ma piuttosto quella di assicurarsi le condizioni di sussistenza. Si dirà, giustamente, che la questione alimentare non è soltanto di natura quantitativa, ma riguarda anche la conservazione dei prodotti, la loro distribuzione, le politiche alimentari, quelle commerciali, la gestione delle risorse, ecc. ecc. E’ vero: sono tutti aspetti determinanti nella soluzione di un problema che la “rivoluzione verde” ha attenuato e rinviato, ma certamente non risolto; tuttavia in un mondo demograficamente tutt’altro che stabile, e in cui chi è ai primi stadi del benessere desidera migliorare la propria dieta, il soddisfacimento dei bisogni quantitativi deve comunque restare un obiettivo prioritario e ineludibile.
C’è dell’altro. La lotta contro la “mercificazionedel cibo, che intenderebbe salvaguardarne anche la componente culturale e la valenza sociale, è combattuta attraverso le più spregiudicate tecniche di marketing, proprie dell’aborrito sistema “criminale”, e non è per nulla tesa alla valorizzazione delle caratteristiche intrinseche del prodotto e/o del lavoro del produttore, quanto a gratificare l’inconscio dei consumatori che, con un sovrapprezzo relativamente modesto, si rifanno una verginità ambientale (che magari sentono un po’ compromessa dal loro SUV), proprio come il marketing finalizzato alle vendite di certe automobili non accenna neppure alle soluzioni meccaniche che le caratterizzano o alla realtà industriale che le ha ideate e prodotte, ma piuttosto ne identifica il possesso con un’affermazione di virilità dell’acquirente. E’ noto che l’acquisto di prodotti biologici – e in generale di quelli percepiti come più “etici” per una serie di motivi – è più elevato nelle fasce di reddito maggiore e più scolarizzate: sarebbe davvero interessante effettuare un’indagine di mercato sugli altri consumi di chi acquista questa categoria di prodotti e capire in che misura essi siano coerenti con uno stile di vita conforme o rappresentino piuttosto una scelta compensativa, una sorta di riparazione per altri peccatucci. L’effetto è paradossale: la componente ideale (in termini sociali, ambientali, ecc.) che si vorrebbe incorporata nel prodotto ne risulta completamente annullata e, anzi, a volte ribaltata. Il meccanismo è noto e molto ben documentato, con dovizia di esempi, in un testo che Petrini sorprendentemente non cita: il famoso “No logo” di Naomi Klein – saggista assai considerata nel mondo “no global” – che illustra quanto il “sistema” sia tremendamente abile nel fare proprie le tendenze volte ad abbatterlo, piegandole ai propri fini e trasformandole in efficacissimo strumento di marketing e ancor più, in forma subliminale, di “corporate reputation management”. Ovviamente Klein invita a vigilare e a contrastare questi fenomeni; Petrini al contrario li sollecita, blandisce chi li promuove, conferisce indulgenze (plenarie o parziali) a chi, già membro di rilievo del “sistema criminale”, mostra segni di ravvedimento (il rito della catarsi, di cui si diceva sopra): ecco allora che la Barilla collabora con l’Università di Pollenzo, la Lavazza sceglie i volti di alcuni leader di Terra Madre – ritratti, ca va sans dire, da grandi fotografi – per il proprio calendario intitolato per l’occasione “Gli eroi della Terra”, Autogrill apre punti vendita in tutta Europa con un format ispirato ai principi di Slow Food (i Benetton, proprietari di Autogrill, lo sono anche di Maccarese, la più grande azienda agricola italiana, oltre che di circa 900.000 ettari in Patagonia: davvero credibili come paladini dei piccoli agricoltori!). Nessuno di questi bravi imprenditori, evidentemente, prova imbarazzo nel rendersi “testimonial” di un sistema nato e cresciuto per contrastarli; o forse lo prova, ma per necessità o convenienza si piega alla “ragion d’azienda”: l’anticonformismo può costare caro!
Il punto più debole di tutto il disegno di Petrini è tuttavia un altro ancora e sta nel prevalere di una elaborazione di pensiero assai semplificata rispetto alla complessità degli obiettivi che si sostiene di perseguire. Alle origini Slow Food si limitava ad invocare una scelta di vita “slow” rispetto ad una “fast”, circoscrivendo i propri obiettivi soprattutto entro il perimetro del tavolo da pranzo. Citando dal “Manifesto” fondativo: “Da oggi i fast-food vengono evitati e sostituiti dagli slow-food, cioè da centri di goduto piacere. In altri termini, si riconsegni la tavola al gusto, al piacere della gola”. Obiettivo limitato e pensiero adeguato. A ben osservare, però, un vizio d’origine già emergeva in quelle prime asserzioni: evitare o frequentare i fast food dovrebbe essere una scelta individuale e chi rifiuta un modello dovrebbe astenersi dall’imporne un altro. Nell’allargare il campo dei propri obiettivi, non solo Slow Food non ha perso il vizio, ma anzi ha esteso lo stesso approccio a tutti i temi affrontati, spesso trasformando le proprie idee, anche quelle buone, in ideologie volte prima ancora a delegittimare le posizioni altrui che a sostenere le proprie. Ecco dunque che definire “criminale” il sistema alimentare concorrente semplifica di molto le cose, dispensando dal dimostrare che quello che si propone sia in effetti migliore: per il fatto stesso di opporsi ad un sistema criminale esso infatti risulta intrinsecamente virtuoso e, perché no, eroico. Ma in cosa consisterebbe la natura criminale del sistema alimentare? questo non è dato sapere, visto che il libro non spende una sola riga a sostegno di questa asserzione: essa è un postulato, un fatto acquisito su cui non occorre neppure discutere! Proviamo ad azzardare: ci si riferisce all’impiego della chimica? Alla sudditanza nei confronti delle famigerate multinazionali? Improbabile! Alla base della produzione agricola ci sono processi biochimici comuni ad ogni tipo di tecnologia, che si impieghino prodotti di sintesi o di origine naturale: la preferenza per gli uni o per gli altri è di natura filosofica (o fideistica, nel caso dell’agricoltura biodinamica), ma non ha alcuna base scientifica. Quanto alle multinazionali, sono proprio esse a trarre i maggiori vantaggi dalle tendenze innescate dal “Petrinismo”: quelle della chimica hanno integrato la gamma dei loro prodotti con quelli di origine “naturale”; quelle della distribuzione sono riuscite a recuperare significative marginalità segmentando il mercato con l’introduzione di nuove linee “buone, pulite e giuste”. E in cosa consisterebbe, per contro, la virtuosità di quanti ai dettami del nostro si attengono? Forse nell’aver capito che è meglio produrre meno ma vendere più caro? O piuttosto nell’impiegare seme autoprodotto – che nessuno impedisce loro di preferire – come se ciò costituisse un eroico gesto di resistenza nei confronti di inesistenti imposizioni delle ditte sementiere? O ancora nell’essere riusciti per decenni ad impedire l’impiego degli OGM, rendendosi essi stessi autori delle imposizioni che attribuiscono agli altri?
La realtà è complessa e non si può confinare in uno slogan, per quanto brillante, che affida il proprio messaggio alle emozioni anziché alla razionalità. Alla lunga i nodi vengono al pettine e la realtà presenta il conto, e potrebbe essere che ciò che intendeva proporsi come “un’utopia possibile” si trasformi, anche per eccesso di successo, in una distopia. Non ci sono ricette valide per ogni situazione e quindi modelli di produzione che si debbano imporre: è “giusto, utile e opportuno” che, in un ambito di regole chiare e valide per tutti, ogni produttore possa percorrere la sua strada (usando, se crede, le tecnologie più avanzate, oppure quelle tradizionali) e ogni consumatore possa giudicare da sé, sulla base dei propri gusti e delle proprie convinzioni, ciò che ritiene anche più “buono e pulito”. Quanto al nostro Carlin, è doveroso riconoscergli doti non comuni: la capacità di concretizzare le proprie idee, di immaginare l’inimmaginabile, di motivare quanti lavorano con lui. Sarebbe ingeneroso addebitargli responsabilità che pure ha, e che qui si è cercato di analizzare, ma che più che alla sua persona sono ascrivibili al “petrinismo”, ricomprendendo in questo neologismo l’intera congerie di movimenti, associazioni, iniziative ispirate ad una sorta di ambientalismo emozionale, che sostiene, spesso con anche maggiore acrimonia, posizioni analoghe a quelle di Slow Food. In un paese che ciclicamente ha bisogno di riconoscersi in un eroe (più raramente in un santo, a volte in un navigatore) egli sta ricoprendo un ruolo che probabilmente è andato ben oltre le sue intenzioni e che non è detto che senta suo: tanti e tanto sproporzionati riconoscimenti costituiscono un gravame e una responsabilità che lo caricano di aspettative messianiche, che inevitabilmente prima o poi andranno deluse. Forse conosce la storia, ed è consapevole che la parabola degli eroi italiani spesso si chiude ingloriosamente nella polvere. I tempi cambiano, e forse ritorneranno quelli in cui l’agricoltura produceva derrate e non narrazioni, i cuochi si chiamavano cuochi, sapevano cucinare e non si atteggiavano a padri della patria, i crapuloni avevano la preoccupazione del colesterolo e non quella di salvare il mondo, la sinistra era una cosa seria, i problemi si approcciavano con razionalità. Che sia questa l’utopia possibile a cui tendere? 



Michele Lodigiani
Agronomo, è agricoltore a Piacenza da più di quarant’anni. Per curiosità intellettuale e vocazione imprenditoriale è stato spesso pioniere nell’adozione di innovazioni di prodotto e di processo, con alterne fortune. Ha un rapporto di fiducia con la Scienza, si commuove di fronte alle straordinarie affermazioni dell’intelligenza umana (quando è ben impiegata), osserva con infinito stupore la meravigliosa armonia che guida i fenomeni naturali. 





 

1 commento:

  1. Petrini è la dimostrazione dell'efficacia di saper vendere parole

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