di GIANLUIGI MAZZOLARI
In tempo di Covid-19 solo gli scaffali per i " Bobo" rimangono pieni. Foto F. Marino |
La paventata crisi alimentare, indotta dalla conclamata crisi di salute pubblica, che abbiamo udito evocare all’interno dei tanti commenti in tema ”andrà tutto bene”, parrebbe rispondere più a eccesso di allarmismo che a realistica eventualità. Pur non negando che la rapidità di mutamento degli scenari, molto dipendente sia da eventi naturali sia da decisioni strategiche globali di dubbia lucidità e di certa speculazione, come pure da intempestivi e poco mirati interventi locali, deponga per l’aleatorietà di ogni previsione.
Limitando la disamina alla situazione italiana e in riferimento al tema, balza subito in evidenza la dipendenza dalle importazioni sia per soddisfare i fabbisogni alimentari della popolazione sia per alimentare i fabbisogni di materia prima da trasformare in prodotti finiti per l’esportazione.
Già questo deporrebbe per una ragionata riflessione, come a dire che, si, noi avremmo invidiato accesso alle eccellenze made in Italy ma giusto in quantità sufficiente per una dieta (eufemisticamente) alquanto parsimoniosa.
Sta di fatto che il nostro background alimentare è stellare, suscita appeal fuori dai confini nazionali, giustamente ne siamo orgogliosi e ce ne compiaciamo nei numerosi talk show dedicati, l'"agroalimentare” contribuisce in modo importante all’economia nazionale anche se, ahimè, in termini premianti l’”agro” risulta alquanto distaccato dall’”alimentare”.
Siamo un paese ricco, o che perlomeno si comporta come tale, la generazione attuale è cresciuta al netto delle incertezze (alimentari) delle generazioni che l’hanno preceduta e non percepisce l’accesso alla disponibilità di cibo (Food Security) come problema, abituata com’è all’assortimento sempre completo sugli scaffali dei supermercati.
Salvo l’emotività di quando il panico prende il sopravvento, quando il confine fra reale e temuto si fa alquanto labile, quale si è materializzato all’inizio di questa fase convulsa di emergenza sfociata nell’”assalto” ai carrelli.
A seguire si sono manifestate nuove tendenze di acquisto, inaspettate che, pur con una serie di motivazioni (qui) , hanno impietosamente prevaricato i molti “credo” alimentari pre-lockdown.
La domanda che ci si pone è: si consolideranno, tali “rinnovate” abitudini di acquisto, oltre l’emotività del momento oppure, passata l’emergenza, ritorneranno i riti nostalgici dell’“agricoltura bucolica” o l’illusoria ideologia del “cibo idilliaco”?
Anticipando inusualmente le conclusioni, saremmo tentati di associarci al leitmotiv ”nulla sarà più come prima”, mai come in questo caso permettendoci irrispettosamente di aggiungere “ben venga”, qualora fosse prodromico della ritrovata affermazione di una coscienza “agro-alimentare-ambientale” reale e non astratta, basata su dati scientifici, documentali, concreti e non su posizioni fondate su dogmi e ideologie.
Andiamo con ordine.
Tendenze alimentari pre-lockdoun
Ricerche di mercato sono periodicamente disponibili, aggiornando scenari e offrendo strumenti per affiancare, alla conoscenza indotta dalle attività di marketing/pubblicitarie, la valutazione in quantità e valore di un prodotto o di un settore. Spesso è intersecando più informazioni che si riesce a delineare una visione completa ed organica, stante l’assenza più o meno (in)consapevole di dati di rilevazione. Ne è esempio la comunicazione dei dati riguardanti i prodotti derivanti da agricoltura biologica, espressi generalmente in modalità multiforme, finalizzati più a enfasi che a trasparenza interpretativa.
Fra le ricerche disponibili è sembrato interessante, per la presente disamina, fare riferimento al documento “Le etichette dei prodotti raccontano i consumi degli italiani” (qui), la cui peculiarità è di fare ricorso contemporaneamente sia all’attività divulgativa sia alle rilevazioni di mercato rapportandole fra loro, al fine di focalizzare e interpretare i fenomeni di consumo, le sue tendenze e la sua misurazione.
Il riferimento è a dati rilevati nella GDO (approssimativamente i ¾ del mercato) nel periodo giugno 2018-2019 vs il periodo giugno 2017-2018. Si rileva:
- “Free from”: il trend (18% in assortimento e 27% in valore è eloquente) è stabile nel complesso con variabilità fra le singole voci, perde nel periodo lo 0,2% contro il più 1% dell’anno precedente; si confermano: conservanti, olio di palma e grassi le tre voci più influenti. Fra i claim emergenti in quest’area, si segnalano, fra gli altri: “SENZA LIEVITO” e “SENZA GLIFOSATO”.
- “Ricchi di…”: crescono dell’1.7% contro il 5,2% dell’anno precedente; fibre, vitamine e integrale rappresentano le prime tre voci mentre si affacciano i FERMENTI LATTICI.
- “Intolleranze”: il senza glutine la fa da protagonista (alla grande sul senza lattosio) con una quota di poco inferiore al 12% e con una crescita rallentata (+0,8% contro +2,6%). I prodotti riportanti il logo dell’Associazione Italiana Celiaci rappresentano il 2,3% delle vendite complessive.
- “Prodotti biologici”: rappresentano il 9,4% delle referenze e generano il 3,7% delle vendite (!);la crescita rallenta al +2,9% contro il +12,7% dell’anno precedente.
È noto come le decisioni di acquisto dei beni alimentari siano molto influenzate dagli aspetti valoriali che il cittadino/consumatore attuale riversa nel cibo, posizionandone la qualità “desiderata” oltre la qualità “fornita”. I produttori sono attratti dalla disponibilità del consumatore ad elevare la soglia di prezzo pur di accedere alla “qualità desiderata”: nasce così una nuova offerta, di nicchia e remunerativa, ove l’equilibrato rapporto qualità/prezzo, base di scelta per l’acquisto, è nettamente proiettato a favore del secondo.Il marketing è indaffarato a riversarvi ogni narrazione purché attrattiva e compiacente alla “qualità desiderata”, i poteri decisionali vi intravedono fonte di consenso e la tentazione ad assecondarli è palesemente manifesta.
Il contesto fa da cornice alla verosimile sopravalutazione di tale c.d. “mercato variopinto”, che affida al Web e alla relativa capacità amplificante la sua legittimazione. Al di là di questi documentati e circoscritti fenomeni, occorre prendere atto di come l’emergente ma oramai conclamata coscienza ambientale sia diffusa, richiesta e ineluttabilmente applicata.
La produzione agro-alimentare professionale, basata sulle conoscenze scientifiche e tecnologiche vi si riconosce, con la finalità di produrre alimenti sicuri, disponibili in quantità per le esigenze di una popolazione mondiale in crescita, economicamente accessibili e nel rispetto delle esigenze di salvaguardia del pianeta (food sustainability). Senza rumore e narrazioni ma con dedicata professionalità.
In un attimo è scomparso il “mercato variopinto”: è prevalso nel consumatore il “meglio garantirsi la pancia piena oggi anche se….”, piuttosto che “rischiare la pancia vuota domani”.
All’agronomo che scrive piacerebbe evocare l’effetto “occhiali verdi” (quelli che fanno mangiare al cavallo anche la paglia); all’osservatore dei mercati alimentari stimola approfondimento.
Prendendo i due esempi più citati di incremento degli acquisti, farina e lievito; della prima, scontata la motivazione di acquisto legata al tempo domestico da occupare, è da rilevare l’oblio di qualsiasi plus caratterizzante (da grani antichi, macinata a pietra, territoriale, ecc.): basta che sia farina.
In realtà parrebbe che lo sbandierato incremento a tre cifre degli acquisti sia, si, reale ma riferito esclusivamente al consumo casalingo che rappresenta il 5% del totale del mercato della farina (qui). Tradotto: il periodo, stante la fermata di molte aziende utilizzatrici, evidenzia una contrazione del 25%.
Il lievito merita qualche riga di commento in più perché è l’emblema della disinformazione denigratoria artatamente perpetrata. Complice la totale incuranza degli organi controllori, pur in presenza di una normativa specifica sulle informazioni al consumatore (Reg. EU 1169/2011 relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori e, nello specifico, l’Articolo 7 - Pratiche leali d’informazione) si è allestita una infondata campagna denigratoria del lievito nel suo utilizzo funzionale (lievitazione del pane), tacendo sulle sue apprezzate e riconosciute applicazioni nutrizionali (integratore).
Il lievito gonfia, sono intollerante al lievito, di birra quindi contiene glutine e …io sono intollerante, meglio il lievito naturale: peccato che alla base dell’effetto lievitante del c.d. “lievito naturale” (terminologia ingannevole, corretta sarebbe “pasta madre”) ci sia proprio il famigerato lievito (impropriamente di birra) Saccharomyces cerevisiae, stesso genere, stessa specie e (spesso) stesso ceppo di quello di produzione industriale.
Al microbiologo fai da te potrà apparire superfluo che l’inoculo non si calcola a peso bensì a CFU (Unità Formanti Colonia) ma addossare al lievito le malefatte causate dagli errori di conduzione del processo, in primis di dosaggio, non meriterebbe impunità.
Evocare, da parte dei media, incuria dell’industria produttrice di lievito per non essere sensibile alle tanto legittime quanto estemporanee voluttà del consumatore, parrebbe ingiusto.
In realtà i produttori di lievito hanno risposto (qui e qui) pur con qualche dato impreciso, ad esempio comunicando i volumi settimanali definendoli mensili, ma tant’è, al grande pubblico un numero vale l’altro, importante è enfatizzare l’ aumento del 217,4%!
In analogia ai consumi domestici di farina (5%), anche per il lievito potrebbe essere assunto un valore similare (<10%) per il suo utilizzo casalingo. Pur in tale approssimazione parrebbe corretto commisurare l’incremento, pur eclatante, al relativo peso specifico.
Conclusioni
Partendo dal proposito iniziale di valutare se gli atteggiamenti di consumo emersi in questo periodo potessero considerarsi non contingenti, le considerazioni esposte, pur lasciando ampio spazio alle interpretazioni, non smentiscono la risposta auspicata.
In primis parrebbe che, in effetti, le mode alimentari fossero già oggetto di dinamica sostitutiva all’interno dello stesso bacino di utenza, con variazioni intraspecifiche all’interno del c.d. “mercato variopinto”, lasciandone sostanzialmente immutata l’entità.
A seguire, il cambiamento di atteggiamento nei confronti di lievito e farina, indipendentemente dalle enfatizzazioni mediatiche, deporrebbe per un allentamento delle preclusioni al loro utilizzo, consolidandone i consumi nel mercato di riferimento.
Se non altro è stato verificato che, in fondo, il lievito non fa poi così male, performa meglio di ogni surrogato proposto e costa significativamente meno.
Il glutine ha precise preclusioni al suo utilizzo inderogabilmente da rispettare (celiachia); in un passato non così lontano ha integrato la dieta di generazioni (cibi glutinati); il suo utilizzo è attualmente additato da alcuni come male assoluto e panacea la sua esclusione; spesso trova superflua applicazione professionale per raggiungere facilmente performances strutturali nelle attività panificatorie: tutte ampie motivazioni che rendono auspicabile la sua ricollocazione nell’alveo di un sensato utilizzo.
La generazione che non conosce la fame è entrata in panico già alla sua evocazione: trattandosi di emergenza di non breve periodo, purtroppo, anche il panico del primo momento e con esso il timore della “pancia vuota”, perdurerà, anche se in forma latente e potrebbe ripresentarsi.
Complici, positivamente questa volta, i media, l’opinione pubblica sembra aver eletto “gli scienziati” a fonte privilegiata di affidabilità: perché non considerarlo di buon auspicio anche per l’affermazione di modelli alimentari su base scientifica e non dogmatica?
La comunità scientifica è stata coinvolta a lungo nel dibattito collegato alla nascita e all’affermarsi di posizioni “anti-scienza” con l’accusa di praticare un linguaggio poco comprensibile. Col senno di oggi parrebbe un’accusa superata, ad auspicio che, opinioni meditate, documentate e sperimentate quali solo la scienza può garantire, si consolidino come sola via affidabile quando le (ex)certezze vacillano.
Agronomo, laureato in Scienze Agrarie presso l'UCSC di Piacenza. Ha percorso la propria carriera professionale presso aziende multinazionali nel settore alimentare. Ora esercita attività di consulenza agro-alimentare.
La gente è tanto digiuna di scienza (sui libri di applicazioni tecniche delle scuole medie esiste lo studio della panificazione, ma forse molti insegnanti saltano il capitolo perchè troppo difficile ...per loro evidentemente) che non sa che i lieviti a 70° muiono tutti e quindi è impossibile ingurgitarne e farli operare nell'intestino (tra l'altro il passaggio nello stomaco li farebbe fuori tutto visto il pH qui esistente. Guarda caso i prodotti da forno per la cottura devono arrivare a 200°. Pertanto chi mangia senza lievito perchè altrimenti è soggetto a gonfiori si autoconvince di una grande balla.
RispondiElimina