di FLAVIO BAROZZI
L’8 luglio scorso si è svolto nella prestigiosa sede di Palazzo Giustiniani a Roma il convegno promosso da FISV (Federazione Italiana Scienze della Vita ) e da AISSA (Associazione Italiana Società Scientifiche Agrarie) sul tema “Il futuro dell’agricoltura italiana: più conoscenza per ettaro”.
Le qualificate relazioni di Davide Viaggi dell’ Università di Bologna, di Massimo Tagliavini dell’Università di Bolzano, di Mario Pezzotti dell’Università di Verona, di Marco Trevisan dell’Università Cattolica di Piacenza, di Lodovica Gullino ed Amedeo Reyneri dell’Università di Torino hanno delineato, pur da diverse angolazioni, un quadro sostanzialmente univoco.
Le sfide che la nostra agricoltura deve vincere se si vuole che abbia un futuro passano attraverso la comprensione della complessità del sistema, e vanno affrontate con un approccio appunto sistematico, multi e transdisciplinare. Non con una visione riduzionista che, sulla base di pregiudizi, di sentimenti momentanei o di speculazioni di breve respiro, rischia di alimentare sterili guerre di religione, utili solo agli immancabili “furbetti” del momento. Con il risultato di disperdere il grande patrimonio della nostra agricoltura, che non è solo economico, ma anche culturale, naturalistico e tecnologico.
La storia dell’agricoltura (che in ultima analisi è storia dell’umanità) dimostra che tutte le “rivoluzioni verdi” -dal neolitico a Norman Borlaug- sono stati momenti di crescita delle conoscenze e delle tecnologie che hanno permesso di incrementare l’efficienza produttiva in modo di tentare di soddisfare le esigenze alimentari ed energetiche di un numero crescente di individui attraverso la produzione di risorse rinnovabili. Quando questa logica si è interrotta, come in occasione di quella che Antonio Saltini definisce “parabola discendente dall’agronomia classica alle nozioni elementari”¹ alla crisi dell’impero romano (cui la fase storica che stiamo vivendo per tanti versi inquietantemente somiglia), le conseguenze sono state tutt’altro che positive.
D’altro canto si potrebbe affermare che ogni evoluzione dell’attività agricola è stata sempre finalizzata al concetto, oggi molto usato e talvolta abusato di “sostenibilità”. E’ la percezione del concetto stesso di sostenibilità ad essere variata nel tempo, da società eminentemente rurali e basate su economie di sussistenza, ad altre più industrializzate ed ora terziarizzate, sempre più inurbate e distanti dalla realtà concreta dei fatti.
La sostenibilità, magistralmente definita dal prof. Francesco Bonciarelli come “ la capacità di mantenere costante nel tempo l’equilibrio, così da soddisfare le esigenze delle generazioni future non meno che di quella attuale di essere approvvigionati di alimenti adeguati, sani e salubri e di vivere in un ambiente non degradato; si tratta quindi di sostenibilità economica e sociale non meno che ecologica. I modi di produrre dovranno essere improntati all’insegna della sostenibilità per confutare l’accusa che viene fatta all’agricoltura di inquinare e degradare l’ambiente”² va declinata nel contesto attuale ed in un’ottica sistemica. Quella di una popolazione mondiale quadruplicata in mezzo secolo e tuttora in crescita, di superfici agrarie non incrementabili, con una disponibilità di terreno coltivabile oggi inferiore a 2000 metri quadri pro-capite destinata ulteriormente a ridursi, di fabbisogni energetici ed idrici per usi extra-agricoli destinati a crescere, di imput di origine fossile limitati e non riproducibili. Ma anche tenendo conto di un comparto agricolo nazionale che sconta un crescente gap tecnologico, spesso derivante da visioni pregiudizialmente ostili all’innovazione, che si traduce nel decadimento quanti-qualitativo di intere filiere produttive (mais docet), nella sempre maggiore dipendenza alimentare dall’estero, oltre che nella “fuga di cervelli” che si va determinando nel nostro sistema della ricerca scientifica.
Il salto di qualità che si richiede passa attraverso la massimizzazione dell’efficienza nell’uso delle risorse, ovvero attraverso un incremento delle conoscenze che consenta di gestire al meglio quel “complesso di attività svolte per gestire e tutelare razionalmente le risorse produttive rinnovabili della biosfera” che va sotto il nome di agricoltura.³
D’altro canto le conoscenze scientifiche e tecnologiche e le potenziali innovazioni che ne derivano -in ambito agrario come in qualsiasi altro campo dello scibile umano- sono in perenne evoluzione e non hanno confini predeterminati. Porvi pregiudizialmente dei limiti o pretendere di distinguere apoditticamente tra pratiche e tecniche “buone” o “cattive” a seconda delle mode, delle convenienze politiche o delle speculazioni commerciali in voga al momento è peggio che dannoso: è suicida.
Il richiamo a un presunto ed inesistente “buon tempo antico” può essere transitoriamente vantaggioso per qualche operazione di marketing, ma non aiuta a guardare al futuro. Il prof. Pezzotti ha proposto in tal senso una metafora calzante. Paragonando le presunte “varietà antiche” (che poi tanto antiche non sono, come dimostra la storia dell’oggi decantato frumento “Senatore Cappelli”, oggetto ai tempi della sua creazione da parte di Nazzareno Strampelli – tra l’altro ottenuta utilizzando materiale genetico di provenienza tunisina- di contumelie assai simili a quelle oggi riservate ai derivati delle nuove biotecnologie) ad auto d’epoca, certamente ambite da nicchie di consumatori ricchi ed un poco snob, ma non proponibili per un trasporto sostenibile su larga scala.
Così come appare poco saggio tentare di propinare per innovazioni o per campi di ricerca su cui investire denaro pubblico concetti magari dotati di “appeal” mediatico, ma non suffragati da serie basi scientifiche. Al tempo stesso le conoscenze vanno utilizzate ed in qualche modo “coltivate” nella loro complessità, in maniera integrata e non integralista. Ne è una riprova il concetto di “agroecologia”, oggi probabilmente abusato e forse persino stravolto e strumentalizzato. Concetto tutt’altro che nuovo, ma che anzi costituisce un fondamento dell’agronomia classica, come emerso dall’ eccellente intervento del prof. Reyneri: con tutte le complesse interazioni che esso comporta e che ogni agronomo coscienzioso dovrebbe valutare senza sottostare a mode del momento, pena il rischio di declinare alle conoscenze elementari dalle disastrose conseguenze poc’anzi richiamate.
Il convegno di Palazzo Giustiniani, così ricco di contenuti, ha offerto in questo senso lo spunto per diverse riflessioni. Due in specie sembrano opportune, anche se amare.
La prima riguarda la necessità più volte richiamata dagli organizzatori per un confronto anziché uno scontro tra le varie visioni e possibili declinazioni dell’attività agricola. Di un dialogo che, sviluppandosi lungo la strada maestra del metodo scientifico, superi una dialettica divisiva e sterile, su cui possono solo sorgere varie mistificazioni a beneficio di speculatori ed approfittatori. Auspicio certamente condivisibile, ma che si scontra con una realtà talora sconcertante: per dialogare infatti bisogna essere in due. Ma il dialogo appare difficile fintanto che coloro che sostengono posizioni di razionalità, senza conformarsi alla vulgata (del tutto fasulla sul piano scientifico) per cui “solo l’agricoltura biologica è sostenibile” e tutto il resto è apoditticamente “cattivo”, e propongono un approccio conseguentemente razionale alle complesse tematiche della sostenibilità in agricoltura, vengono sistematicamente esposti agli oltraggi ed alle diffamazioni di qualcuno che, non avendo argomenti oggettivi, attua la tecnica di matrice gesuitico-marxista del “calunniate, calunniate … qualcosa resterà”.
La seconda riflessione investe il difficile se non inesistente rapporto tra scienza e politica. Il convegno di FISV e AISSA avrebbe dovuto, secondo i lodevoli intenti degli organizzatori, essere un’occasione unica per contribuire alla comunicazione –oggi tanto difficoltosa eppure fondamentale per il futuro del Paese- tra scienza indipendente e decisori politici, tanto da venire appositamente realizzato nella sede della Presidenza del Senato della Repubblica.
Purtroppo vi hanno presenziato –forse significativamente- appena un paio di parlamentari.
¹-Saltini A., “Storia delle Scienze Agrarie, vol. I – Nuova Terra Antica, 2013
²-Bonciarelli F.,“Agricoltura sostenibile. Memorandum sul futuro dell’agricoltura nella Comunità Europea” - Atti dell’ Accademia dei Georgofili, Anno 1992, serie VII, vol. 39 – Quaderno I, 1992
³-Scaramuzzi F., prefazione al volume “Agricoltura sostenibile” (a cura di Michele Pisante) – Edagricole, 2013
Flavio Barozzi
Dottore agronomo libero professionista ed imprenditore agricolo, già coordinatore della Commissione di Studio "Agricoltura sostenibile-PSR" dell' ODAF di Milano, è accademico aggregato all' Accademia dei Georgofili di Firenze. Nel dicembre 2016 è stato eletto Presidente della Società Agraria di Lombardia, istituzione accademica e culturale fondata nel 1861.
Flavio grazie del reportage.
RispondiEliminaPrendo spunto dal tuo dire che le rivoluzioni verdi sono stati momenti di crescita delle conoscenze e delle tecnologie per fare una considerazione datata. La rivoluzione di Borlaug nel frumento è stata: 1° quella di aggiungere ai geni del seminanismo di Strampelli (geni portati da Akagomughi) i geni del nanismo del Norin 10, 2° di permettere ad una nutrizione più abbondante di estrinsecarsi in una maggior produzione, cosa che i frumenti antichi non hanno la possibilità di realizzare. Ebbene l'euforia di quei momenti (siamo intono agli anni 70) ha portato una deriva che è stata quella di superconcimare e superproteggere la produzione dai parassiti. Solo che di questa deriva ci siamo accorti noi agronomi e non certo gli ambientalisti di oggi. Infatti il famoso "ettaro lanciato" in Italia o il "club des 100 qx) in Francia ebbe vita brevissima appunto perchè noi agronomi abbiamo detto che era una strada non percorribile e che occorreva limitare la concimazione agli asporti della coltura precedente e che alle varietà di frumento occorreva conferire resistenze ai parassiti. Sapevamo bene anche che i parassiti non stavano fermi e che quindi l'ausilio di adeguati fitofarmaci usati con professionalità rimaneva indispensabile.
Questo percorso di esagerazione/rinsavimento è merito di noi "pestaterra" non certo degli ecologisti di oggi. Questi hanno semplicemente preso a modello l'esagerazione temporanea degli anni 70 e hanno detto ad un'opinione pubblica ormai satolla e senza più radici contadine che l'esagerazione è continuata per 50 anni, mentre io e te sappiamo che è una falsità perchè l'agricoltura professionale ha man mano fatto proprie nuove conoscenze e nuove tecnologie. Purtroppo si crede di più ai venditori di paure che non alla crescita di un'agricoltura professionale. Che poi la politica abbia fatto di tutto per mantenere in vita un'agricoltura non professionale mai lo si dice ma lo si constata con la quasi nulla presenza di politici al convegno.