lunedì 1 luglio 2019

LE RICETTE SBAGLIATE DEGLI AMBIENTALISTI EUROPEI IN AFRICA


di DEBORAH PIOVAN 

Foto Don Michael Francis Vutakamba,  raccolta mais bianco  giugno 2019, Sumbawanga- Kaengesa (Tanzania) 

C’è un detto in Africa: “Quando due elefanti lottano l’erba sotto si secca”.L’ ha usato Samuel, agricoltore keniota, commentando le ingerenze sulle politiche africane. Nella sua visione la pressione dell’ambientalismo europeo anti-OGM, quella dei colossi del biotech statunitense, quella della Cina che sta investendo cifre immense per poter utilizzare le terre coltivabili di diversi Paesi africani, rischiano di far seccare l’erba dell’economia africana che faticosamente tenta di crescere. Dire Africa, naturalmente, non ha alcun senso. E’ un continente immenso, caratterizzato da profonde differenze politiche, sociali, culturali, storiche e climatiche. Ogni ricetta per lo sviluppo che non tenga conto di tutto questo è destinata a fallire; peggio, a far danni. E’ per presunzione che talvolta le politiche di crescita messe in atto da chi ha operato in Africa negli anni passati si sono rivelate inefficaci. Oggi pare di notare una consapevolezza maggiore in chi opera in quei contesti, con un’attenzione alle valutazioni di impatto ex ante ed ex post e un coinvolgimento attivo delle popolazioni locali, segno che si sono imparate le lezioni del passato e che si tenta di operare con responsabilità.

Ma quei proverbiali elefanti sono ancora in pieno combattimento fra loro, calpestando tutto quel che si trova sotto. Fuor di metafora, sono recentemente rimbalzate sui media internazionali le preoccupate dichiarazioni di un keniota che se la prende con gli attivisti anti-OGM europei. Al grido di “Milioni di Europei non possono essersi sbagliati sugli OGM”, le ONG ambientaliste stanno usando la paura per tentare di fermare l’innovazione biotecnologica in numerosi Paesi africani. L’opinione pubblica di quei Paesi è spaventata, ma recentemente in Africa sta nascendo un movimento consapevole che risveglia la coscienza sociale contro le ONG, prevalentemente europee, che, a quel che affermano i leader del movimento, starebbero finanziando attivisti per spargere notizie false contro gli OGM. “Vogliono tenerci in una condizione di povertà perpetua”, lamentano. Il compianto Calestous Juma, keniota professore di Sviluppo Internazionale ad Harvard ed autore del best seller “L’innovazione ed i suoi nemici. Perché le persone resistono alle nuove tecnologie”, ebbe a dire: “L’opposizione alle biotecnologie in Africa iniziò prima che ci fosse molta ricerca scientifica in materia al di fuori del Sudafrica. Perciò l’Africa ha importato l’opposizione alla tecnologia ancora prima che i suoi prodotti arrivassero". 

Questo perché [l’Unione Europea] ha costruito un’industria della resistenza e l’ha esportata attraverso vari canali. È stato raccontato agli africani che gli OGM sono dannosi da vari punti di vista, in particolare causerebbero sterilità. A seconda del contesto, questo attivismo opera sfruttando le diverse paure delle persone. In Europa ci dicono che gli organismi geneticamente modificati sono dannosi per l’ambiente, per la salute, per i piccoli agricoltori: tutte tematiche a cui la coscienza del consumatore europeo è molto sensibile. Negli Stati Uniti raccontano che causano obesità, malattia che da loro costituisce un’urgenza sociale e sanitaria. In Africa lanciano sospetti sulla fertilità, quando la potenza riproduttiva è un valore diffuso per quelle popolazioni. Sono sempre più frequenti le testimonianze di scienziati e agricoltori kenioti, ugandesi, sudafricani, tanzaniani che lamentano i danni causati dall’oscurantismo calato dall’Europa su di loro e che raccontano quali sfide la loro agricoltura debba affrontare. C’è per esempio la storia di Gilbert, che vorrebbe poter accedere alle piante OGM messe a punto per resistere a parassiti contro i quali altrimenti l’unica difesa sono gli interventi chimici. Inutile dettagliare in quali condizioni i trattamenti con insetticidi siano effettuati in certe realtà rurali. Dovrebbe essere di esempio la vicenda della melanzana Bt, che ha permesso ai coltivatori del Bangladesh di ridurre drasticamente i trattamenti nei loro piccoli appezzamenti, fatti senza protezione e con una scarsa cultura della prevenzione, in campi nei quali spesso vivono con le loro famiglie. Grazie alla coltura OGM risparmiano il costo dei trattamenti, vivono e lavorano in condizioni più sicure, producono di più e merce di qualità migliore, pagata meglio dal consumatore. Il primo passo per uscire dalla povertà è ridurre i rischi legati alle avversità che minacciano la produzione; è poter produrre non solo per sfamare la propria famiglia, ma per vendere una quota del prodotto del proprio campo al mercato e ottenere un reddito che permetta quei piccoli investimenti che consentono di risalire qualche gradino della scala che allontana dalla povertà estrema, che si tratti di una bicicletta o del fertilizzante, di un paio di scarpe o di una pompa per l’irrigazione. Rosalie, contadina filippina che coltiva 6 ha, ha iniziato a piantare mais Bt OGM nel 2003, subito dopo la sua approvazione da parte del Governo. “Prima la piralide mi portava via buona parte del raccolto” racconta. “Ora invece riesco a venderne e a mandare mio figlio a scuola.” Da allora ha deciso di difendere la causa delle piante geneticamente migliorate dagli attacchi delle ONG, parlando a tutti della sua esperienza. E poi ci sono le voci della scienza, ad esempio quella del premio Nobel Sir Richard Roberts, che addirittura accusa le ONG contrarie alle biotecnologie di avere in agenda una permanenza del continente africano in condizioni di povertà. Va ricordata anche la lunga lista di premi Nobel che accusano Greenpeace di crimini contro l’umanità per la sua violenta azione volta a fermare lo sviluppo e la coltivazione di Golden Rice in Estremo Oriente. 
Il pericolo di un novello colonialismo è chiaramente espresso da un recente a firma di Nassib Mugwanya, agronomo e ricercatore ugandese, che ha fatto scalpore. Mugwanya parla di agroecologia, di come venga sovente presentata come la ricetta fondamentale per lo sviluppo sostenibile in Africa e per uscire dalla povertà estrema e scrive: “L’agroecologia è un vicolo cieco per l’Africa, per l’ovvia ragione che buona parte dell’agricoltura africana ne segue già i principi”. E non funziona: non garantisce stabilità delle produzioni, non affranca dall’incertezza, vincola le famiglie alla terra, non fornisce strumenti per accedere a innovazioni e fattori produttivi utili. Insomma, la priorità per chi propina l’agroecologia come soluzione per tutti i mali legati allo sviluppo in Africa sempra essere di evitare che le famiglie di agricoltori dipendano dalle multinazionali internazionali; il che appare più come un desiderio di allontanare le multinazionali dall’Africa che i contadini dalla povertà. Nel fare questo si rischia di concentrarsi sulla lotta alle innovazioni biotecnologiche, viste come strumento di controllo delle sementi, dimenticando che l’Africa ha bisogno di pesanti investimenti: in infrastrutture per ridurre i tempi di trasporto dei prodotti e quindi il loro deperimento, in impianti di gestione dell’acqua, in formazione, in strumenti finanziari che facilitino l’accesso al microcredito e alla microassicurazione.

Francesco Marino, piccolo aiuto per l' irrigazione, Sumbawanga- Kaengesa (Tanzania)

Interessante l’esperienza del villaggio di Nyandiwa, sulle coste keniote del lago Vittoria: il miglioramento della strada che collega a Nairobi e la disponibilità di ghiaccio per il trasporto nei camion aveva permesso ai pescatori che ci vivono di sviluppare la pesca e il commercio ittico con la città. Purtroppo la totale mancanza di investimenti in manutenzione stradale rende ormai molto difficili i trasporti e rischia di far collassare l’economia locale. Ecco, questo è un esempio, calato in una specifica realtà locale, di cosa serva all’Africa. 
Inoltre, i contadini africani devono essere affrancati dalla povertà anche con strumenti di gestione del rischio. Tutto questo dovrebbe essere con coinvolgimento delle popolazioni locali, nel rispetto delle loro culture e tradizioni, altrimenti non vi è alcuna speranza di successo. 
Nel 2016 il Parlamento Europeo ha votato a larghissima maggioranza richieste di modifica alle politiche della New Alliance for Food Security and Nutrition (NAFSN). La relatrice Mara Heubuch, europarlamentare dei Verdi tedeschi, ha dichiarato: “Abbiamo già commesso l’errore dell’agricoltura intensiva in Europa. Non dobbiamo replicarlo in Africa perché questo modello distrugge l’agricoltura familiare e distrugge la biodiversità”.  Il Parlamento raccomanda che ogni aiuto all’agricoltura africana sia limitato a misure per l’agroecologia praticata nelle aziende a conduzione familiare. A prescindere dalle intenzioni degli europarlamentari che si sono espressi con questo voto, sicuramente buone, preoccupa intravedere in questi approcci lo spettro del rimpianto con cui certi attivisti europei vedono nell’Africa il loro terreno di rivincita per esperimenti sociali fatti nella sicurezza di potersi sempre rifugiare dietro un piatto pieno di cibo sicuro e a buon mercato, garantito da quell’agricoltura tecnologicamente avanzata e tanto denigrata. Come biasimare gli africani che cercano di liberarsi da un giogo che minaccia di volerli mantenere in una condizione di indigenza? Lo sviluppo sostenibile è faccenda troppo delicata e complessa per lasciarla nelle mani di un approccio che talvolta appare semplicistico, addirittura arrogante. Allarmante quanto appreso di recente: 350.000 dollari saranno donati dal Governo canadese a Terre sans frontières per inviare omeopati in Honduras. Essi sostengono, fra l’altro, di poter curare la chagas, zoonosi potenzialmente letale causata dal protozoo Trypanosoma cruzi.
Naturalmente i contribuenti canadesi sono liberi di spendere i soldi delle loro tasse come meglio credono, ma la paura è che si distolgano risorse e attenzione da protocolli sanitari e cure mediche rigorose a favore di pericolosi approcci senza alcun fondamento scientifico. Gli omeopati canadesi non sono i soli a voler esportare la cosiddetta medicina alternativa verso lidi in cui non sempre le competenze sono tali da saper separare il grano dal loglio, la medicina dalle pseudscienze: sono nate organizzazioni come Naturopaths Without Borders, Homeopaths Without Borders, Herbalists Without Borders, Chiropratique Sans Frontières e Aromatherapists Wi thout Borders. Fortunatamente alcuni Istituti di ricerca africani stanno formando competenze mirate e qualificate per affrontare le loro specifiche avversità patologiche e ambientali. Così stanno mettendo a punto i frutti delle loro ricerche; c’è la patata resistente alla peronospora ottenuta da ricercatori di Uganda, Perù, Stati Uniti e Kenya, permette di ridurre drasticamente i trattamenti fungicidi contro una malattia responsabile del 15-30% delle perdite di prodotto nell’Africa subsahariana.
O ancora, in Nigeria stanno lavorando al legume resistente a “Maruca”, un insetto che porta a perdite fino all’80%; non esistono varietà resistenti da utilizzare, quindi l’unica soluzione sono gli insetticidi, fino a 8-10 volte le settimana. I livelli dei residui nei legumi nigeriani sono talmente alti che le esportazioni sono impossibili. Una pianta geneticamente migliorata per difendersi da sola è la soluzione più efficace. Ogni ricetta di sviluppo per l’Africa deve passare attraverso una presa di coscienza del corpo politico e dei tecnici dei singoli Paesi del continente. Sono necessari approcci complessi case by case che conducano ad interventi caratterizzati da sostenibilità ambientale, da efficienza d’uso delle riscorse, rispettosi di una società economicamente e culturalmente sostenibile; e infine, dove è il caso, è fondamentale una corporate governance sostenibile. La popolazione mondiale è in crescita, secondo le previsioni arriveremo a 9 miliardi di persone intorno al 2050. I cambiamenti climatici stanno compromettendo ampie aree coltivate e inducendo milioni di persone a spostarsi in cerca di un futuro. L’inquinamento delle acque marine, delle falde, dei terreni di ampie aree del pianeta è un fatto conclamato: residui di plastiche, salinizzazione, metalli pesanti. Gli sprechi di cibo, poi, fanno indignare l’opinione pubblica; a noi risultano inaccettabili anche le perdite di prodotto in campo e nel percorso fino al consumatore finale, perché spesso conseguenza di inefficienze o di mancati investimenti tecnologici. Il quadro è desolante. Ma non dobbiamo trascurare i dati positivi. Per quel che riguarda la crescita della popolazione essa ha già rallentato il proprio ritmo di crescita: secondo gli esperti delle Nazioni Unite raggiungerà un plateau intorno agli 11 miliardi e lì si stabilizzerà. I motivi sono complessi da valutare in questa sede, ma sono legati ai rapporti fra le diverse fasce di età e al ritmo di passaggio della popolazione da una fascia all’altra.
 Inoltre, il progresso scientifico e le innovazioni tecnologiche, dalla genetica alla robotica, passando per digitale e nuove frontiere della chimica e delle nanotecnologie, ci permetteranno di sviluppare modelli e tecniche produttive sempre meno impattanti. La risposta alle emergenze ambientali del pianeta non è uno spaventato conservatorismo, un moderno luddismo, quello che Angelo Panebianco già nel 1989 chiamava l’ambientalismo illiberale degli eco-tecnocrati. Piuttosto, è necessario accogliere a braccia aperte le innovazioni e applicarle per trovare il modo di sfamare il pianeta senza distruggerlo. Ritengo che ogni politica di sviluppo per il continente Africa dovrebbe partire da questo presupposto e dalla forte convinzione che gli africani hanno ogni diritto di prendere in mano il destino dei loro Paesi. Ogni azione europea in tal senso dovrebbe essere mossa da questi principi, rifuggendo le ossessioni della retorica dei poteri forti, che si traduce in uno sgradevole paternalismo, in un pericoloso novello colonialismo.

L' ARTICOLO E' USCITO IN ORIGINE SULLA RIVISTA: I TEMPI DELLA TERRA

Deborah Piovan   
Laurea in Scienze Agrarie Università di Pisa, Diploma della Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento Sant’Anna di Pisa. Presidente federazione nazionale proteoleaginose Confagricoltura. Imprenditrice agricola. 

1 commento:

  1. Quando vedremo questo anche in Africa ed in Europa?

    https://allianceforscience.cornell.edu/blog/2019/06/women-farmers-take-lead-indias-pro-gmo-seed-satyagraha-movement/

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