sabato 15 giugno 2019

LA SCIENZA COME AZIONE NECESSARIA


intervista di MICHELE LODIGIANI  a FRANCESCO SALAMINI




Bibliofilo appassionato, Salamini (a destra) ammira i capolavori dell'antica editoria agraria raccolti da Luigi Perdisa, per quarant'anni arbitro della cultura agraria nazionale, mostratigli dal figlio Sergio.

Francesco Salamini ha chiuso con un penetrante intervento il convegno RACCOGLIERE I BENEFICI DELLA SCIENZA PER LA SOSTENIBILITÀ NELLA PRODUZIONE AGRICOLA PRIMARIA tenutosi presso l’Accademia dei Lincei a Roma.
Scienziato di fama internazionale nel campo della genetica vegetale, Salamini ha ricoperto nel corso della sua carriera accademica anche ruoli direzionali e di indirizzo strategico in enti di ricerca di primaria importanza (fra gli altri il Max-Plank Institut e l’Istituto Italiano di Tecnologia), osservatori privilegiati che gli consentono oggi di guardare al futuro dell’agricoltura con occhio lungimirante e competenze interdisciplinari.
Incontriamo il Professor Salamini a margine del convegno, mettendo al centro del colloquio la sua relazione “Implicazioni dell’innovazione sulle coltivazioni e sul terreno. La scienza come azione necessaria per un futuro meno incerto”.

D. Professor Salamini, l’incertezza è condizione ineludibile della condizione umana. L’opinione pubblica, quanto meno quella occidentale, sembra tuttavia considerare la disponibilità alimentare come qualcosa di scontato e irreversibile: si tratta a suo parere di un atteggiamento razionale o di una pericolosa illusione?

R. Apparentemente, per una società civile come quella italiana, l'alimentazione viene vista come un problema di disponibilità, per una famiglia, di sufficiente denaro da spendere, questo in presenza di una illimitata offerta di cibo da parte dei supermercati. E' una visione incompleta, che non considera che il paese è strategicamente debole nel suo importare il 30% delle calorie e proteine che consuma, e che se tutti gli abitanti della terra avessero accesso a un livello di beni alimentari simile al nostro, già ora il pianeta sarebbe insufficiente per produrli. Sul tema è relativamente facile convincere un qualsiasi cittadino a riflettere sulla dimensione strategica della produzione e trasformazione dei prodotti agricoli (e della pesca): per mia esperienza, basta ricordare al tuo interlocutore che OGNI giorno in Italia vengono consumati 180 milioni di pasti. E questo lo convince che anche un piccolo intoppo nella catena del cibo può generare serie conseguenze. Certamente Stati e Continenti mantengono atteggiamenti diversi verso il problema oggetto della domanda, a seconda che siano cronici importatori o storici esportatori di derrate agricole.

D. La sua relazione illustra ogni possibile opzione volta ad assicurare cibo ad un’umanità in forte crescita demografica, superando nel contempo le criticità ambientali che la “rivoluzione verde” di Borlaug lasciava irrisolte e condizionando quindi l’introduzione di nuove tecnologie alla loro “sostenibilità”. Si tratta di un termine che ha assunto, anche per l’abuso che se ne è fatto, significati assai diversi a seconda di chi lo pronuncia: può darcene una sua interpretazione, quanto più possibile oggettiva e scientifica?

R. La parola, compresi il suo aggettivo e l'avverbio, si dovrebbe spiegare da sola. Se però la si stende su una superficie elastica, si notano subito particolari deformazioni: l'agricoltore accentuerebbe, stirandola, la dimensione agro-ecologica, non dimenticando quella economica; il consumatore gli aspetti salutistici-sociali; l'ecologista specialmente i contenuti ambientali. E' altrettanto intuitivo il concetto di non sostenibile: se si realizzasse si mette a rischio l'abitabilità del pianeta, come sembra seriamente concludere il lavoro di Springman et al. pubblicato nel 2018 sulla rivista scientifica Nature. Per chi si interessa ai fatti agricoli, la vera coniugazione di sostenibilità va riferita allo sviluppo e adozione di sistemi agricoli ad elevato contenuto agroecologico, ma contestualmente altamente produttivi, una sfida difficile da vincere (Sprigmann et al., 2018. Options for keeping the food system within environmental limits. Nature doi.org/10.1038).

D. Molte e diversificate le strade che la scienza sta percorrendo: alcune trovano già applicazione nei campi, altre sono destinate a trasformarsi in tecnologia utile in un futuro più o meno prossimo. Potenzialmente siamo alla vigilia di una nuova rivoluzione verde, in grado di soddisfare la domanda alimentare di un’umanità in forte crescita: quali, secondo lei, le applicazioni più interessanti che vedremo realizzate nei prossimi decenni?

R. E' necessaria una premessa. Una larga frazione di cittadini, specialmente se vivono in paesi industrializzati, ha coscienza che il pianeta stia affrontando seri rischi ecologici, coscienza che non si traduce, tuttavia, nelle convinzioni politiche che permettono di realizzare un grande sforzo internazionale per sostenere e adottare quanto scienza e tecnologia propongono. Penso a un intervento top-down di dimensioni globali, come quello che nella storia della scienza ha funzionato (almeno una volta, purtroppo) molto bene: il progetto Manhattan. Nella conclusione del Convegno di Roma ho citato alcune possibilità: la domesticazione di piante perenni utili e sostitutive delle specie annuali di impiego comune, l’induzione di comportamenti perennanti nei cereali di maggior consumo, l’incremento della resistenza ai parassiti e ai fattori di stress, l’ottenimento di maggiori rendimenti nel processo fotosintetico, la tutela della componente “viva” del terreno con la messa a punto di biostimolanti microbici, l’implemento dell’efficienza idrica delle piante, l’estensione della funzione azotofissatrice delle leguminose ad altre specie, lo sfruttamento dei benefici dell’eterosi anche in specie difficilmente assoggettabili a incroci controllati, l’ottimizzazione dell’impiego dei mezzi tecnici attraverso l’uso di reti di sensori e la distribuzione a rateo variabile consentita dalla mappatura satellitare degli appezzamenti.

D. Come è proprio del progresso agronomico, il quadro da lei descritto ricomprende una molteplicità di tecnologie interdipendenti e sinergiche, il cui impiego dovrebbe essere “plurale”. Molte delle soluzioni allo studio, tuttavia, afferiscono alla genetica: non teme che esse troveranno insuperabili barriere culturali, come è stato nell’ultimo ventennio per gli OGM?

R. La genetica delle piante di interesse agrario è stata, in tempi recenti, profondamente potenziata dalla decodificazione dei loro genomi e, specialmente, da una nuova tecnologia nota come Genome editing. Consiste nella produzione di mutazioni a geni singoli inattivandoli. Per fare questo è solo necessario conoscere la sequenza del DNA del gene. L'approccio ha avuto un impatto molto positivo sulla produzione agricola primaria. I sistemi di Genome editing sono infatti già stati utilizzati per ottenere mutazioni utili in Mais, Riso, Frumento, Canna da zucchero, Soia, Patata, Colza, Pomodoro, Pompelmo, Arancio, Cocomero, Lino e Cassava. La tecnologia è alla base del significativo salto di qualità nel miglioramento genetico delle piante per la resistenza alle malattie microbiche: oggi l'induzione di mutazioni recessive ai geni S di suscettibilità della pianta è centrale ai tentativi di indurre immunità genetica ai parassiti, una condizione che permetterebbe di rinunciare a una frazione significativa di trattamenti delle colture con agrofarmaci . Quando il Genome editing utilizza nucleasi di provata efficienza, il trattamento di protoplasti permette di rigenerare popolazioni di piante che in proporzioni significative sono mutate al sito desiderato. Il sistema permette anche di mutare simultaneamente molti geni, come nel caso degli interventi sulle piante poliploidi dove si devono inattivare contemporaneamente geni ripetuti aventi funzioni simili. Si può anche utilizzare una variante di Genome editing che non prevede l’uso di costrutti di DNA (DNA-free Genome editing). Le possibilità future della tecnologia a cui si è accennato sono evidenti quando le si combina a programmi di miglioramento genetico che, così, passano da un approccio empirico (generazione di variabilità a caso e selezione in base a prove di campo) alla modifica di precisi meccanismi biochimici. Mi sono dilungato su questi aspetti metodologici per chiarire che lo sviluppo scientifico ha reso possibile generare piante modificate geneticamente senza aggiungere al loro DNA geni di provenienza esogena, addirittura togliendo loro specifiche funzioni geniche e rendendole contestualmente meno suscettibili agli stress biotici e abiotici. Sarebbe incredibile che i nuovi organismi non venissero adottati, di fronte a una necessità incombente di adattare la pratica agricola a severi canoni di rispetto ambientale. Personalmente mi sono sempre anche meravigliato della cieca opposizione all'uso di OGM preventivamente valutati per l'incapacità di penetrare gli ecosistemi naturali: OGM e i prodotti del Genome editing sarebbero i naturali alleati, per esempio, di chi pratica l'Agricoltura biologica.

D. A proposito di barriere culturali: sono trascorsi 200 anni dalla “rivoluzione copernicana” imposta dalle scoperte di de Saussure che chiarirono con assoluto rigore stechiometrico i meccanismi della fotosintesi, e qualche decennio di meno dall’applicazione agronomica che ad esse diede Liebig. Ciò nonostante, anche in un paese tecnologicamente avanzato come il nostro, sono ancora una stretta minoranza gli agricoltori che fertilizzano i propri campi sulla base di referti analitici. Non crede che quanto da lei prefigurato implichi necessariamente anche una “rivoluzione culturale” da parte degli imprenditori agricoli?

R. La risposta non può essere che positiva nel senso della necessità di responsabilizzare l'agricoltore ad aggiornarsi, un obbligo molto difficile da imporre. Se soluzioni più agro-ecologiche sono basate sull'uso di principi di biologia e nuove tecniche di campo, diventerà difficile gestire sistemi colturali ad alta produzione basati su sofisticati protocolli di intervento (penso al biocontrollo, all'uso di feromoni, ai biofertilizzani, alla concimazione mirata nelle quantità e nei prodotti utilizzati, per esempio). Il trend attuale, e mi riferisco specialmente alle terre padane, è il ricorso a operatori di campagna e di stalla che spesso provengono da altri paesi, meno qualificati anche per ragioni linguistiche. D'altra parte gli addetti all'agricoltura sono in costante seppur debole riduzione e coloro che rimangono a coltivare i campi sono spesso anziani. Bisognerebbe rifondare gli Istituti tecnici e imporre il conseguimento di un diploma a chi vuole essere agricoltore. In alcune regioni o provincie autonome, per esempio, già ora non è possibile accedere a crediti agricoli agevolati se non si sono superati opportuni corsi di specializzazione.

D. Il dibattito sull’agricoltura prossima ventura si concentra su una classificazione in 4 modelli principali: agricoltura integrata, agricoltura biologica, sistemi agroforestali, sistema agricolo naturale. Ce ne vuole a grandi linee illustrare i principi ispiratori e i fattori limitanti?

R. La riconsiderazione dell’ecosistema agricolo fa spesso riferimento a una “agrobiodiversità funzionale” centrale al miglioramento degli agrosistemi. Il concetto è simile alla proposta di ricomposizione di habitat o condizioni che permettono la presenza di agenti attivi nel controllo biologico di malattie e patogeni. Attorno al 1990, questa è stata la risposta all’eccessivo sviluppo industriale contrastabile con un approccio ai problemi agricoli più olistico e meno influenzato dal riduzionismo di singole discipline. La nuova decisione si concretò nella proposta di sistemi agricoli alternativi a quelli convenzionali. La discussione su nuovi sistemi potrebbe continuare quasi all'infinito. Per ragioni di sintesi, farò riferimento solo ad alcuni. I sistemi agricoli possono essere allineati lungo un continuum a seconda del loro allontanamento sempre più radicale dai sistemi in atto. L’Integrated Pest Management, IPM, è un approccio utilizzato per combattere i parassiti delle piante usando tutti i metodi disponibili, ma minimizzando i trattamenti chimici. L’approccio è, al momento, accettato e incorporato nelle politiche e regolamentazioni dell’Unione Europea e di altri Stati. L’approccio difetta della carenza di dati scientifici sufficienti per definire modi, specie, ambienti d’uso e risultati ottenibili con l’IPM. Un avvicinamento all’agroecologia come necessità di base per la gestione degli ecosistemi è l’Agricoltura biologica. Considera molti dei canoni che si vorrebbero reintrodurre nella pratica agricola, ma la sua adozione è anche contestata: la conversione al 100% all’agricoltura biologica occuperebbe superfici più estese con conseguenti perdite di terreno per dilavamento. Gli agricoltori biologici si devono confrontare con la difficoltà nel controllo delle infestanti, il contenimento delle infezioni parassitiche, la gestione del suolo e del bisogno di elementi nutritivi, la necessità di varietà adatte a livelli bassi di nutrienti minerali. Come per tutti i sistemi agricoli, è necessario che anche per l’agricoltura biologica venga influenzata più dalla scienza che dalla tradizione, cioè che si apra all’innovazione. Ai Sistemi agroforestali viene data particolare attenzione negli ambienti tropicali perché ritenuti più sostenibili. Sono, infatti, particolarmente adatti all’uso agricolo integrato delle aree marginali. Gli alberi aumentano la produttività influenzando le caratteristiche del terreno, il microclima, l’idrologia e altre componenti biologiche. Se lo sviluppo di piante agrarie perenni, specialmente di cereali e leguminose, si concreterà, esse avrebbero la potenzialità di modificare radicalmente gli attuali sistemi agricoli. Il Sistema agricolo naturale, per esempio, prevede lo sviluppo di una “prateria coltivata”, dove diverse specie agrarie erbacee perenni da seme costituiscono una policoltura che potenzialmente ha molte delle caratteristiche di una prateria naturale. E' evidentemente una proposta quasi utopica, comunque attraente per la capacità di stimolare la fantasia e la creatività degli agronomi.

D. I fabbisogni alimentari negli anni a venire aumenteranno non solo in quantità, a causa dello sviluppo demografico, ma anche in qualità, a soddisfare la legittima aspirazione ad una dieta migliore delle popolazioni dei paesi emergenti: in particolare si prevede un forte incremento dei consumi di carne, la cui produzione come è noto comporta rendimenti energetici fortemente penalizzanti e rilevanti emissioni di gas serra. Lei crede che anche a questo problema si possa dare una risposta tecnologica? mi riferisco in particolare alle aspettative diffuse sulla “carne pulita”, cioè alla coltivazione in vitro di cellule staminali muscolari. I progressi più recenti hanno portato ad una stupefacente riduzione dei costi di produzione, al punto che essa potrebbe diventare competitiva nel giro di pochi anni; inoltre si stima che, rispetto all’allevamento tradizionale, essa consumi il 55% dell’energia, emetta il 4% di gas serra e occupi l’1% del suolo; infine l’affermarsi della “bistecca sintetica” taciterebbe le preoccupazioni di quella parte di popolazione, minoritaria ma in forte crescita, che considera l’allevamento un’attività sostanzialmente criminale o quanto meno immorale. Ha una sua opinione in merito?

R. Non sono un esperto di tecnologia alimentare d'avanguardia. L'accenno che si fa nella domanda alla produzione di preparati proteici fatta in fermantatori è interessante per le stesse ragioni sottolineate alla fine del paragrafo precedente. Può essere una linea di ricerca tra le molte che la tecnologia offre come opzioni alla considerazione politica. Personalmente vedo più realizzabili interventi sulle leguminose per aumentarne la produzione per unità di terra coltivata, e, perchè no, il tentativo di rendere i cereali organismi azotofissatori, potenziandone quindi il contenuto proteico e l'uso diretto nell'alimentazione umana. Certamente il futuro dovrà necessariamente considerare la necessità di modificare le diete umane. Secondo il già citato articolo di Sprigmann et al. (2018) tra il 2010 e il 2050 l’impatto dell’agricoltura sull’ambiente può aumentare del 50-90 % e andare oltre i limiti di abitabilità del pianeta. Le opzioni suggerite dagli autori sono diete più a base vegetale; miglioramento tecnologico e gestionale; riduzione delle perdite di cibo e degli scarti. Ogni opzione da sola non sarà sufficiente.

D. In termini filosofici si guarda al futuro dell’agricoltura, alle implicazioni che esso avrà sull’ambiente e quindi, in ultima analisi, sul destino del pianeta e dell’Umanità, da due prospettive assai diverse: da una parte gli “ambientalisti apocalittici”, che hanno una visione riduttiva della storia e propugnano il contenimento demografico e dei consumi; dall’altra i “tecno-ottimisti”, fautori della crescita, convinti che soltanto la tecnologia in chiave scientifica potrà fronteggiare i problemi. Lei ritiene che queste due posizioni, qui poste in forma assai semplificata, siano destinate a convergere di fronte alle prove della realtà, oppure che resteranno inconciliabili? Non crede che lo sviluppo tecnologico sia condizione necessaria ma non sufficiente al progresso umano, laddove non si accompagni ad un processo culturale in grado di finalizzarne al bene comune le formidabili potenzialità?

R. Due categorie di pensiero si sono poste il problema di come affrontare, in un’ottica agricola, il futuro del pianeta. Secondo William Vogt, fautore dell’“ambientalismo apocalittico”, se non si limita il numero degli abitanti della terra e il livello dei consumi, gli ecosistemi naturali verranno tutti distrutti. Norman Borlaug, premio Nobel per la pace e padre della Rivoluzione verde, era fautore del “tecno-ottimismo”: solo la tecnologia sviluppata su basi scientifiche ha la capacità di risolvere i problemi dell’umanità. La condizione in cui viviamo ora dovrebbe suggerire un punto di incontro tra le due visioni e operare per una transizione a forme diverse di organizzazione agricola e sociale. La pianificazione politica della transizione non è complessa o difficile da comporre: è relativamente facile precisare quali sono le linee di intervento da proporre. Molto più complesso è portare a fruizione le decisioni delineate, dove esse sono mediate da azioni di ricerca, seguite da ipotesi di sviluppo e da efficaci forme di extension. Non è altrettanto semplice il come sviluppare interventi scientifici a supporto di politiche anche precise. La più seria azione da intraprendere è di produrre ancora innovazione sostenuta dalle scienze agrarie, biologiche e mediche. Un piano che combini approcci genetici e agronomici ha alte probabilità di successo, se combina le competenze della rivoluzione verde e della biotecnologia. Il piano richiederebbe interdisciplinarietà, integrando approcci di biotecnologia vegetale, genetica, fisiologia, miglioramento genetico, agronomia, e studio dei sistemi agricoli.

L' ARTICOLO E' USCITO IN ORIGINE SULLA RIVISTA: I TEMPI DELLA TERRA



Michele Lodigiani.
E' agricoltore a Piacenza da quarantatré anni. Gli è sempre piaciuto percorrere strade nuove: alla tradizionale attività orticola/cerealicola aziendale ha quindi affiancato iniziative più ardite nel corso degli anni, occupandosi di piante da fibra, di fitodepurazione, è stato fra i primi ad adottare tecniche di agricoltura conservativa, è stato produttore di IV e V gamma negli anni successivi. Più recentemente si è occupato di agricoltura di precisione. 

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