intervista di MICHELE LODIGIANI a FRANCESCO SALAMINI
Francesco
Salamini ha chiuso con un penetrante intervento il convegno
RACCOGLIERE I BENEFICI DELLA SCIENZA PER LA SOSTENIBILITÀ NELLA
PRODUZIONE AGRICOLA PRIMARIA tenutosi presso l’Accademia dei Lincei
a Roma.
Scienziato
di fama internazionale nel campo della genetica vegetale, Salamini ha
ricoperto nel corso della sua carriera accademica anche ruoli
direzionali e di indirizzo strategico in enti di ricerca di primaria
importanza (fra gli altri il Max-Plank Institut e l’Istituto
Italiano di Tecnologia), osservatori privilegiati che gli consentono
oggi di guardare al futuro dell’agricoltura con occhio lungimirante
e competenze interdisciplinari.
D. Professor
Salamini, l’incertezza è condizione ineludibile della condizione
umana. L’opinione pubblica, quanto meno quella occidentale, sembra
tuttavia considerare la disponibilità alimentare come qualcosa di
scontato e irreversibile: si tratta a suo parere di un atteggiamento
razionale o di una pericolosa illusione?
R.
Apparentemente, per una società civile come quella italiana,
l'alimentazione viene vista come un problema di disponibilità, per
una famiglia, di sufficiente denaro da spendere, questo in presenza
di una illimitata offerta di cibo da parte dei supermercati. E' una
visione incompleta, che non considera che il paese è strategicamente
debole nel suo importare il 30% delle calorie e proteine che consuma,
e che se tutti gli abitanti della terra avessero accesso a un livello
di beni alimentari simile al nostro, già ora il pianeta sarebbe
insufficiente per produrli. Sul tema è relativamente facile
convincere un qualsiasi cittadino a riflettere sulla dimensione
strategica della produzione e trasformazione dei prodotti agricoli (e
della pesca): per mia esperienza, basta ricordare al tuo
interlocutore che OGNI giorno in Italia vengono consumati 180 milioni
di pasti. E questo lo convince che anche un piccolo intoppo nella
catena del cibo può generare serie conseguenze. Certamente Stati e
Continenti mantengono atteggiamenti diversi verso il problema oggetto
della domanda, a seconda che siano cronici importatori o storici
esportatori di derrate agricole.
D. La sua
relazione illustra ogni possibile opzione volta ad assicurare cibo ad
un’umanità in forte crescita demografica, superando nel contempo
le criticità ambientali che la “rivoluzione
verde” di Borlaug lasciava irrisolte e
condizionando quindi l’introduzione di nuove tecnologie alla loro
“sostenibilità”.
Si tratta di un termine che ha assunto, anche per l’abuso che se ne
è fatto, significati assai diversi a seconda di chi lo pronuncia:
può darcene una sua interpretazione, quanto più possibile oggettiva
e scientifica?
R. La
parola, compresi il suo aggettivo e l'avverbio, si dovrebbe spiegare
da sola. Se però la si stende su una superficie elastica, si notano
subito particolari deformazioni: l'agricoltore accentuerebbe,
stirandola, la dimensione agro-ecologica, non dimenticando quella
economica; il consumatore gli aspetti salutistici-sociali;
l'ecologista specialmente i contenuti ambientali. E' altrettanto
intuitivo il concetto di non sostenibile: se si realizzasse si mette
a rischio l'abitabilità del pianeta, come sembra seriamente
concludere il lavoro di Springman et al. pubblicato nel 2018 sulla
rivista scientifica Nature. Per chi si interessa ai fatti agricoli,
la vera coniugazione di sostenibilità va riferita allo sviluppo e
adozione di sistemi agricoli ad elevato contenuto agroecologico, ma
contestualmente altamente produttivi, una sfida difficile da vincere
(Sprigmann et al., 2018. Options
for keeping the food system within environmental limits. Nature
doi.org/10.1038).
D. Molte e
diversificate le strade che la scienza sta percorrendo: alcune
trovano già applicazione nei campi, altre sono destinate a
trasformarsi in tecnologia utile in un futuro più o meno prossimo.
Potenzialmente siamo alla vigilia di una nuova rivoluzione verde, in
grado di soddisfare la domanda alimentare di un’umanità in forte
crescita: quali, secondo lei, le applicazioni più interessanti che
vedremo realizzate nei prossimi decenni?
R. E'
necessaria una premessa. Una larga frazione di cittadini,
specialmente se vivono in paesi industrializzati, ha coscienza che il
pianeta stia affrontando seri rischi ecologici, coscienza che non si
traduce, tuttavia, nelle convinzioni politiche che permettono di
realizzare un grande sforzo internazionale per sostenere e adottare
quanto scienza e tecnologia propongono. Penso a un intervento
top-down di dimensioni globali, come quello che nella storia della
scienza ha funzionato (almeno una volta, purtroppo) molto bene: il
progetto Manhattan. Nella conclusione del Convegno di Roma ho citato
alcune possibilità: la domesticazione di piante perenni utili e
sostitutive delle specie annuali di impiego comune, l’induzione di
comportamenti perennanti nei cereali di maggior consumo, l’incremento
della resistenza ai parassiti e ai fattori di stress, l’ottenimento
di maggiori rendimenti nel processo fotosintetico, la tutela della
componente “viva” del terreno con la messa a punto di
biostimolanti microbici, l’implemento dell’efficienza idrica
delle piante, l’estensione della funzione azotofissatrice delle
leguminose ad altre specie, lo sfruttamento dei benefici dell’eterosi
anche in specie difficilmente assoggettabili a incroci controllati,
l’ottimizzazione dell’impiego dei mezzi tecnici attraverso l’uso
di reti di sensori e la distribuzione a rateo variabile consentita
dalla mappatura satellitare degli appezzamenti.
D. Come è
proprio del progresso agronomico, il quadro da lei descritto
ricomprende una molteplicità di tecnologie interdipendenti e
sinergiche, il cui impiego dovrebbe essere “plurale”. Molte delle
soluzioni allo studio, tuttavia, afferiscono alla genetica: non teme
che esse troveranno insuperabili barriere culturali, come è stato
nell’ultimo ventennio per gli OGM?
R. La
genetica delle piante di interesse agrario è stata, in tempi
recenti, profondamente potenziata dalla decodificazione dei loro
genomi e, specialmente, da una nuova tecnologia nota come Genome
editing. Consiste nella produzione di mutazioni a geni singoli
inattivandoli. Per fare questo è solo necessario conoscere la
sequenza del DNA del gene. L'approccio ha avuto un impatto molto
positivo sulla produzione agricola primaria. I sistemi di Genome
editing sono infatti già stati utilizzati per ottenere mutazioni
utili in Mais, Riso, Frumento, Canna da zucchero, Soia, Patata,
Colza, Pomodoro, Pompelmo, Arancio, Cocomero, Lino e Cassava. La
tecnologia è alla base del significativo salto di qualità nel
miglioramento genetico delle piante per la resistenza alle malattie
microbiche: oggi l'induzione di mutazioni recessive ai geni S di
suscettibilità della pianta è centrale ai tentativi di indurre
immunità genetica ai parassiti, una condizione che permetterebbe di
rinunciare a una frazione significativa di trattamenti delle colture
con agrofarmaci . Quando il Genome editing utilizza nucleasi di
provata efficienza, il trattamento di protoplasti permette di
rigenerare popolazioni di piante che in proporzioni significative
sono mutate al sito desiderato. Il sistema permette anche di mutare
simultaneamente molti geni, come nel caso degli interventi sulle
piante poliploidi dove si devono inattivare contemporaneamente geni
ripetuti aventi funzioni simili. Si può anche utilizzare una
variante di Genome editing che non prevede l’uso di costrutti di
DNA (DNA-free Genome editing). Le possibilità future della
tecnologia a cui si è accennato sono evidenti quando le si combina a
programmi di miglioramento genetico che, così, passano da un
approccio empirico (generazione di variabilità a caso e selezione in
base a prove di campo) alla modifica di precisi meccanismi
biochimici. Mi sono dilungato su questi aspetti metodologici per
chiarire che lo sviluppo scientifico ha reso possibile generare
piante modificate geneticamente senza aggiungere al loro DNA geni di
provenienza esogena, addirittura togliendo loro specifiche funzioni
geniche e rendendole contestualmente meno suscettibili agli stress
biotici e abiotici. Sarebbe incredibile che i nuovi organismi non
venissero adottati, di fronte a una necessità incombente di adattare
la pratica agricola a severi canoni di rispetto ambientale.
Personalmente mi sono sempre anche meravigliato della cieca
opposizione all'uso di OGM preventivamente valutati per l'incapacità
di penetrare gli ecosistemi naturali: OGM e i prodotti del Genome
editing sarebbero i naturali alleati, per esempio, di chi pratica
l'Agricoltura biologica.
D. A
proposito di barriere culturali: sono trascorsi 200 anni dalla
“rivoluzione copernicana” imposta dalle scoperte di de Saussure
che chiarirono con assoluto rigore stechiometrico i meccanismi della
fotosintesi, e qualche decennio di meno dall’applicazione
agronomica che ad esse diede Liebig. Ciò nonostante, anche in un
paese tecnologicamente avanzato come il nostro, sono ancora una
stretta minoranza gli agricoltori che fertilizzano i propri campi
sulla base di referti analitici. Non crede che quanto da lei
prefigurato implichi necessariamente anche una “rivoluzione
culturale” da parte degli imprenditori agricoli?
R. La
risposta non può essere che positiva nel senso della necessità di
responsabilizzare l'agricoltore ad aggiornarsi, un obbligo molto
difficile da imporre. Se soluzioni più agro-ecologiche sono basate
sull'uso di principi di biologia e nuove tecniche di campo, diventerà
difficile gestire sistemi colturali ad alta produzione basati su
sofisticati protocolli di intervento (penso al biocontrollo, all'uso
di feromoni, ai biofertilizzani, alla concimazione mirata nelle quantità e nei prodotti utilizzati, per esempio). Il trend
attuale, e mi riferisco specialmente alle terre padane, è il ricorso
a operatori di campagna e di stalla che spesso provengono da altri
paesi, meno qualificati anche per ragioni linguistiche. D'altra parte
gli addetti all'agricoltura sono in costante seppur debole riduzione
e coloro che rimangono a coltivare i campi sono spesso anziani.
Bisognerebbe rifondare gli Istituti tecnici e imporre il
conseguimento di un diploma a chi vuole essere agricoltore. In alcune
regioni o provincie autonome, per esempio, già ora non è possibile
accedere a crediti agricoli agevolati se non si sono superati
opportuni corsi di specializzazione.
D. Il
dibattito sull’agricoltura prossima ventura si concentra su una
classificazione in 4 modelli principali: agricoltura integrata,
agricoltura biologica, sistemi agroforestali, sistema agricolo
naturale. Ce ne vuole a grandi linee illustrare i principi ispiratori
e i fattori limitanti?
R. La
riconsiderazione dell’ecosistema agricolo fa spesso riferimento a
una “agrobiodiversità funzionale” centrale al miglioramento
degli agrosistemi. Il concetto è simile alla proposta di
ricomposizione di habitat o condizioni che permettono la presenza di
agenti attivi nel controllo biologico di malattie e patogeni.
Attorno al 1990, questa è stata la risposta all’eccessivo sviluppo
industriale contrastabile con un approccio ai problemi agricoli più
olistico e meno influenzato dal riduzionismo di singole discipline.
La nuova decisione si concretò nella proposta di sistemi agricoli
alternativi a quelli convenzionali. La discussione su nuovi sistemi
potrebbe continuare quasi all'infinito. Per ragioni di sintesi, farò
riferimento solo ad alcuni. I sistemi agricoli possono essere
allineati lungo un continuum a seconda del loro allontanamento sempre
più radicale dai sistemi in atto. L’Integrated Pest Management,
IPM, è un approccio utilizzato per combattere i parassiti delle
piante usando tutti i metodi disponibili, ma minimizzando i
trattamenti chimici. L’approccio è, al momento, accettato e
incorporato nelle politiche e regolamentazioni dell’Unione Europea
e di altri Stati. L’approccio difetta della carenza di dati
scientifici sufficienti per definire modi, specie, ambienti d’uso e
risultati ottenibili con l’IPM. Un avvicinamento all’agroecologia
come necessità di base per la gestione degli ecosistemi è
l’Agricoltura biologica. Considera molti dei canoni che si
vorrebbero reintrodurre nella pratica agricola, ma la sua adozione è
anche contestata: la conversione al 100% all’agricoltura biologica
occuperebbe superfici più estese con conseguenti perdite di terreno
per dilavamento. Gli agricoltori biologici si devono confrontare con
la difficoltà nel controllo delle infestanti, il contenimento delle
infezioni parassitiche, la gestione del suolo e del bisogno di
elementi nutritivi, la necessità di varietà adatte a livelli bassi
di nutrienti minerali. Come per tutti i sistemi agricoli, è
necessario che anche per l’agricoltura biologica venga influenzata
più dalla scienza che dalla tradizione, cioè che si apra
all’innovazione. Ai Sistemi agroforestali viene data particolare
attenzione negli ambienti tropicali perché ritenuti più
sostenibili. Sono, infatti, particolarmente adatti all’uso agricolo
integrato delle aree marginali. Gli alberi aumentano la produttività
influenzando le caratteristiche del terreno, il microclima,
l’idrologia e altre componenti biologiche. Se lo sviluppo di piante
agrarie perenni, specialmente di cereali e leguminose, si concreterà,
esse avrebbero la potenzialità di modificare radicalmente gli
attuali sistemi agricoli. Il Sistema agricolo naturale, per esempio,
prevede lo sviluppo di una “prateria coltivata”, dove diverse
specie agrarie erbacee perenni da seme costituiscono una policoltura
che potenzialmente ha molte delle caratteristiche di una prateria
naturale. E' evidentemente una proposta quasi utopica, comunque
attraente per la capacità di stimolare la fantasia e la creatività
degli agronomi.
D. I
fabbisogni alimentari negli anni a venire aumenteranno non solo in
quantità, a causa dello sviluppo demografico, ma anche in qualità,
a soddisfare la legittima aspirazione ad una dieta migliore delle
popolazioni dei paesi emergenti: in particolare si prevede un forte
incremento dei consumi di carne, la cui produzione come è noto
comporta rendimenti energetici fortemente penalizzanti e rilevanti
emissioni di gas serra. Lei crede che anche a questo problema si
possa dare una risposta tecnologica? mi riferisco in particolare alle
aspettative diffuse sulla “carne pulita”, cioè alla coltivazione
in vitro di cellule staminali muscolari. I progressi più recenti
hanno portato ad una stupefacente riduzione dei costi di produzione,
al punto che essa potrebbe diventare competitiva nel giro di pochi
anni; inoltre si stima che, rispetto all’allevamento tradizionale,
essa consumi il 55% dell’energia, emetta il 4% di gas serra e
occupi l’1% del suolo; infine l’affermarsi della “bistecca
sintetica” taciterebbe le preoccupazioni di quella parte di
popolazione, minoritaria ma in forte crescita, che considera
l’allevamento un’attività sostanzialmente criminale o quanto
meno immorale. Ha una sua opinione in merito?
R. Non
sono un esperto di tecnologia alimentare d'avanguardia. L'accenno che
si fa nella domanda alla produzione di preparati proteici fatta in
fermantatori è interessante per le stesse ragioni sottolineate alla
fine del paragrafo precedente. Può essere una linea di ricerca tra
le molte che la tecnologia offre come opzioni alla considerazione
politica. Personalmente vedo più realizzabili interventi sulle
leguminose per aumentarne la produzione per unità di terra
coltivata, e, perchè no, il tentativo di rendere i cereali organismi
azotofissatori, potenziandone quindi il contenuto proteico e l'uso
diretto nell'alimentazione umana. Certamente il futuro dovrà
necessariamente considerare la necessità di modificare le diete
umane. Secondo il già citato articolo di Sprigmann et al. (2018) tra
il 2010 e il 2050 l’impatto dell’agricoltura sull’ambiente può
aumentare del 50-90 % e andare oltre i limiti di abitabilità del
pianeta. Le opzioni suggerite dagli autori sono diete più a base
vegetale; miglioramento tecnologico e gestionale; riduzione delle
perdite di cibo e degli scarti. Ogni opzione da sola non sarà
sufficiente.
D. In
termini filosofici si guarda al futuro dell’agricoltura, alle
implicazioni che esso avrà sull’ambiente e quindi, in ultima
analisi, sul destino del pianeta e dell’Umanità, da due
prospettive assai diverse: da una parte gli “ambientalisti
apocalittici”, che hanno una visione
riduttiva della storia e propugnano il contenimento demografico e dei
consumi; dall’altra i “tecno-ottimisti”,
fautori della crescita, convinti che soltanto la tecnologia in chiave
scientifica potrà fronteggiare i problemi. Lei ritiene che queste
due posizioni, qui poste in forma assai semplificata, siano destinate
a convergere di fronte alle prove della realtà, oppure che
resteranno inconciliabili? Non crede che lo sviluppo tecnologico sia
condizione necessaria ma non sufficiente al progresso umano, laddove
non si accompagni ad un processo culturale in grado di finalizzarne
al bene comune le formidabili potenzialità?
R.
Due categorie di pensiero si sono poste il problema di come
affrontare, in un’ottica agricola, il futuro del pianeta. Secondo
William Vogt, fautore dell’“ambientalismo apocalittico”, se non
si limita il numero degli abitanti della terra e il livello dei
consumi, gli ecosistemi naturali verranno tutti distrutti. Norman
Borlaug, premio Nobel per la pace e padre della Rivoluzione verde,
era fautore del “tecno-ottimismo”: solo la tecnologia sviluppata
su basi scientifiche ha la capacità di risolvere i problemi
dell’umanità. La condizione in cui viviamo ora dovrebbe suggerire
un punto di incontro tra le due visioni e operare per una transizione
a forme diverse di organizzazione agricola e sociale. La
pianificazione politica della transizione non è complessa o
difficile da comporre: è relativamente facile precisare quali sono
le linee di intervento da proporre. Molto più complesso è portare a
fruizione le decisioni delineate, dove esse sono mediate da azioni di
ricerca, seguite da ipotesi di sviluppo e da efficaci forme di
extension. Non è altrettanto semplice il come sviluppare interventi
scientifici a supporto di politiche anche precise. La più seria
azione da intraprendere è di produrre ancora innovazione sostenuta
dalle scienze agrarie, biologiche e mediche. Un piano che combini
approcci genetici e agronomici ha alte probabilità di successo, se
combina le competenze della rivoluzione verde e della biotecnologia.
Il piano richiederebbe interdisciplinarietà, integrando approcci di
biotecnologia vegetale, genetica, fisiologia, miglioramento genetico,
agronomia, e studio dei sistemi agricoli.
L' ARTICOLO E' USCITO IN ORIGINE SULLA RIVISTA: I TEMPI DELLA TERRA
Michele Lodigiani.
E' agricoltore a Piacenza da quarantatré anni. Gli è sempre piaciuto percorrere strade
nuove: alla tradizionale attività orticola/cerealicola aziendale ha quindi affiancato iniziative più ardite nel
corso degli anni, occupandosi di piante da fibra, di fitodepurazione, è stato fra i primi ad adottare tecniche di
agricoltura conservativa, è stato produttore di IV e V gamma negli anni successivi. Più recentemente si è
occupato di agricoltura di precisione.
L'amico Cesco vedeva lontano fin da giovane studente remedelliano.
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