di ALESSANDRO CANTARELLI
(L’edizione del Tg1 delle 20,00
dell’8 aprile 2019. Nell’immagine la conduttrice Laura Chimenti).
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E’ lunedi otto aprile 2019.
I titoli di apertura del TG1 delle ore 20 danno una notizia sensazionale.
Testualmente: ”Il Dna del frumento: studiata la mappa genetica che servirà per il grano del futuro resistente alla siccità. Ricerca a guida italiana”. Ed infatti il servizio televisivo, curato dalla giornalista Roberta Badaloni era stato girato nientemeno che nelle campagne emiliane di Fiorenzuola d’Arda, in provincia di Piacenza, dove ha sede il Centro per la Genomica e la Bioinformatica (facente capo al Crea).
Questa importante specie coltivata, si aggiunge pertanto al novero delle specie agrarie il cui DNA è stato decifrato in questi ultimi anni. La giornalista della prima rete pubblica, sottolineava così che attraverso i risultati ottenuti, si era finalmente acquisita la possibilità di decifrare il DNA del frumento duro , cereale cardine della dieta mediterranea.Il coordinatore del team internazionale, che aveva realizzato il poderoso lavoro di ricerca (composto da oltre 60 ricercatori di 7 diversi Paesi), era un italiano: il direttore del Centro dott. Luigi Cattivelli.
Che era stato coadiuvato in questo lavoro anche da alcuni suoi valenti collaboratori.
Si conferma il Crea di Fiorenzuola d’Arda come Centro di avanguardia per la ricerca genomica dell’orzo, della genomica, dell’analisi molecolare dei processi fisiologici, ecc.Una notizia come questa, non può che colpire positivamente tutti coloro che riconoscono nella ricerca scientifica lo strumento per affrontare le sfide del futuro (ed attingere per aggiornare le proprie conoscenze).
Dall’intervista al direttore, si confermava infatti che l’intera area mediterranea risulterà a breve una delle aree al mondo maggiormente soggetta ai cambiamenti climatici. Essendo il grano duro la coltura più rappresentativa, per poterne assicurare la coltivazione anche in un prossimo futuro, si dovranno necessariamente selezionare piante capaci di crescere nelle nuove condizioni (climatiche a causa del surriscaldamento globale, ma anche di salinità dei terreni).Lo studio pubblicato nel mese di aprile su Nature Genetics1 aggiungeva Cattivelli nell’intervista, aprirebbe scenari innumerevoli: oltre a consentire di ottenere piante di grano più resistenti alle malattie (con conseguente impatto positivo sia sulla produzione, sia nella diminuzione dei trattamenti fitosanitari di pieno campo), si potranno controllare meglio i parametri che controllano la qualità del grano e della pasta che consumiamo.
Per gentile concessione del direttore del Centro di Fiorenzuola, viene data la possibilità per i lettori di Agrarian Sciences, attraverso due distinte uscite di prossima pubblicazione, di apprendere i particolari di questo studio e la sua portata in termini di acquisizioni scientifiche (con i rimandi utili per ulteriori approfondimenti bibliografici). Per i lettori di questo sito, questa notizia conferma altresì quanto riportato nell’Opera enciclopedica di riferimento per la storia delle scienze biologico-agrarie (ed è attraverso conferme come la presente, che tale Opera assume ulteriore valore): la Storia delle Scienze Agrarie di Antonio Saltini (Agrarian Sciences in the West nell’edizione inglese curata dal prof. J.Scott).
Tratto liberamente dal cap. XIX dedicato ai centri di ricerca dell’Occidente, si riporta testualmente che “Il rilievo metodologico che si imponeva per le conoscenze sussistenti all’alba del Novecento si ripropone, con cogenza maggiore, all’inizio del secolo successivo, quando la ricerca agronomica si è dilatata a paesi dove non esisteva indagine scientifica, che oggi vantano organismi in grado di competere con quelli delle nazioni che della scienza moderna sono state la culla, quando alla grande scoperta che mutava, essa sola, il quadro delle conoscenze umane si è sostituita la miriade di acquisizioni realizzate in organismi ove operano schiere di specialisti, tra i quali anche chi, avendo guidato l’equipe che ha realizzato la scoperta rilevante, fosse onorato del più prestigioso riconoscimento internazionale, condividerebbe i meriti del successo con cento collaboratori…”. Nel medesimo capitolo vengono inoltre approfonditi i temi della banca genetica (biodiversità), dell’origine e differenziazione del genoma dell’orzo, della genomica ecc.
(Da: Enciclopedia Agraria Italiana, vol. VI,
Reda, Roma, 1960).
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Una annotazione conclusiva. Questo imponente lavoro di ricerca, realizzato anche grazie al lavoro di una nutrita rappresentanza di ricercatori italiani rende onore (immeritatamente?) ad un Paese quale il nostro, nel quale la ricerca agraria biotecnologica è colpevolmente osteggiata da circa un ventennio.
A causa di divieti ideologici politicamente trasversali, dai contorni deliberatamente antiscientifici (come ripetutamente denunciato anche su queste pagine). All’origine di questa deriva culturale, teorie filosofiche che lungi dall’accettare o poggiare sul metodo scientifico, si fondano sui “saperi antichi” per arrivare a quelli onirico-satanici2,3 questi ultimi incredibilmente celebrati negli ultimi tempi anche da una parte del mondo istituzionale.
Ma d’altra parte, anche dietro alle più balorde teorie e pratiche agrarie si nasconde comunque un interesse commerciale ed é la potenza del marketing fare il resto. L’obiettivo rimane sempre quello di fornire alimenti per tutti in quantità e qualità, a prezzi ragionevoli per i consumatori. Attraverso i moderni strumenti che la scienza permette di rendere accessibili agli agricoltori, in un contesto sostenibile (agronomico, economico ed ambientale).
Il motto della più importante Agenzia dell’ONU avente sede a Roma, la FAO appunto, è significativo al riguardo: “Fiat Panis!” Di fronte a ricerche come queste, si prova allora un crescente disagio nel pensare che il “preparato 500” meglio conosciuto come cornoletame, proprio nel periodo pasquale verrà riesumato dal terreno da una schiera di “seguaci” (in queste pratiche, supportati anche da certi colleghi agronomi), ed utilizzato per stimolare la terra e migliorare la salute delle piante, a loro dire. E’ questo il futuro dell’agricoltura?
Sarà che sono emiliano ed il gusto per la buona cucina l’ho nel DNA (per stare nel tema). E lo stesso CREA di Fiorenzuola, si trova nel cuore di un’area ben nota per i primati nella produzione di paste e conserve alimentari, ottenute primariamente secondo i più recenti dettami dell’agricoltura integrata4.
Ma nell’avvicinarsi della Ricorrenza pasquale, anche da parte di chi non è credente viene da soffermarsi sul significato e sull’importanza dell’esortazione contenuta nella più conosciuta preghiera cattolica, quella che chiede la grazia del “pane quotidiano”.
Lo studio presentato sulla prestigiosa rivista internazionale, rende allora più ottimisti riguardo l’esortazione richiamata.
A condizione di guadagnarseli il pane (come quello ottimo di Altamura) e la pasta, come insegnavano i vecchi ed onesti contadini. In questo 2019 e negli anni a venire, questo studio lo dimostra, li si otterrà innanzitutto a partire dalle acquisizioni della migliore ricerca agraria.
Bibliografia richiamata:
1Maccaferri M.et al. Durum wheat
genome highlights past domestication signatures and future
improvement target. Nature Genetics, 08/04/2019. Open access:
http://dx.doi.org/10.1038/s41588-019-0381-3
2Bressanini D., 2016 (IXa
ediz.). Per una spesa più consapevole. Le bugie nel carrello.Le leggende e i trucchi del marketing sul cibo che
compriamo. Chiarelettere, Milano.
3Saltini A., 2013. Storia delle
Scienze Agrarie (VII° vol.). Ed. Nuova Terra Antica, Firenze;
Saltini A., 2015. Agrarian Sciences in the
West (translated by Scott. J.J.; volume VII). Ed. Nuova Terra
Antica, Firenze, Tipografia Seriart, Fabriano.
4Canali G., Tabaglio V. (a cura di),
2017. Pomodori. Edizioni Scritture, Piacenza.
Alessandro Cantarelli
Laureato in Scienze Agrarie presso la Facoltà di Agraria di Piacenza, con tesi in patologia vegetale. Dal febbraio 2005 lavora presso il Servizio Territoriale Agricoltura Caccia e Pesca di Parma (STACP), della Regione Emilia Romagna (ex Servizio Provinciale), dapprima come collaboratore esterno, successivamente come dipendente. E’ stato dipendente presso la Confederazione Italiana Agricoltori di Parma. Ha svolto diverse collaborazioni, in veste di tecnico, per alcuni Enti, Associazioni e nel ruolo di docente per la formazione professionale agricola. Iscritto all’Ordine dei dottori Agronomi e Forestali ed alla FIDAF parmensi.
Laureato in Scienze Agrarie presso la Facoltà di Agraria di Piacenza, con tesi in patologia vegetale. Dal febbraio 2005 lavora presso il Servizio Territoriale Agricoltura Caccia e Pesca di Parma (STACP), della Regione Emilia Romagna (ex Servizio Provinciale), dapprima come collaboratore esterno, successivamente come dipendente. E’ stato dipendente presso la Confederazione Italiana Agricoltori di Parma. Ha svolto diverse collaborazioni, in veste di tecnico, per alcuni Enti, Associazioni e nel ruolo di docente per la formazione professionale agricola. Iscritto all’Ordine dei dottori Agronomi e Forestali ed alla FIDAF parmensi.
Cantarelli ora siamo di fronte al dilemma, sappiamo dove sono il tale e tal'altro gene, ma occorre sempre raggrupparli e assemblarli in una pianta che oltre ad avere delle caratteristiche nuove abbia conservato tutte quelle già messe assieme al fine di avere un prodotto quali-quantitativamente accettato dal mercato (non dimentichiamoci mai che l'agricoltura è un'attività economica che deve riuscire a vendere il suo prodotto alle migliori condizioni possibili). Le strade sono due l'incrocio classico e l'applicazione delle biotecnologie o le due messe assieme.
RispondiEliminaSolo che l'incrocio classico, se visto eseguito con il germoplasma del mondo sviluppato, ha un senso perchè ormai possediamo delle varietà che contengono molte delle qualità agronomiche e tecnologiche richieste dal mercato. Un senso diverso, invece lo ha se programmiamo di lavorare con il germoplasma di un paese sottosviluppato (penso ai paesi della riva Sud del Mediterraneo). In questi casi avremo un materiale adattato all'ambiente, ma l'adattabilità deriva dal fatto che si seminano più genotipi, e quindi il lavoro di assemblaggio comporta tempi più lunghi, anzi forse troppo lunghi. Ricordo che nei 5 paesi del Nordafrica (Egitto, Libia,Tunisia, Algeria e Marocco) nel 2025-2030 sono previsti 260 milioni di abitanti (quando appena qualche anno fa se ne contano 180); al numero occorre aggiungere che sono i più grandi mangiatori di pane del pianeta ossia 200 kg/anno/persona e ormai lo vogliono fatto da farine di grano tenero con l'11,5% di proteine come minimo.
Le biotecnologie potrebbero invece sveltire molto il lavoro di assemblaggio e di modifica puntiforme dei vari geni che presentano difetti. Ebbene l'Europa, che dovrebbe essere quella che più ha interesse a risolvere i problemi della sponda Sud del nostro mare (altrimenti ce li ritroviamo in gran parte sulla sponda Nord) vive con la Spada di Damocle supra la testa della sentenza della CGUE che dice praticamente che tutto quello che non avviene per incrocio e segregazione naturale è OGM.
Di questa (triste, per la scienza e l'agricoltura) vicenda della Corte di Giustizia UE, CGUE appunto, ci aveva tra l'altro edotti molto bene Vittoria Brambilla al convegno di Firenze del gennaio scorso. CGUE sembra oltretutto una mutazione delle basi del DNA, piu' le classiche CGTA. Che dire. Speriamo sia un mutante a vita breve (il prodotto della Corte), prima che gli africani arrabbiati perche' affamati, quindi meno inclini a ipocondrie alimentari (a partire da quella del glutine, per i non celiaci accertati), ce lo facciano capire...A quel punto si dovra' necessariamente e letteralmente correre, in una situazione di emergenza quale quella da te prospettata. Ma chi avra', in quella situazione, ancora "il fiato"?
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