Sottoscrittori: Tommaso Maggiore, Luigi
Mariani, Roberto Defez, Donatello Sandroni, Alfonso Pascale, Alberto Guidorzi, Deborah Piovan, Francesco Marino, Osvaldo Failla, Ermanno Comegna, Giuseppe Bertoni, Marco Pasti, Michele Lodigiani, Bruno Mezzetti, Sandro Fracasso, Aldo Ferrero, Vittoria Brambilla.
Prova comparativa Riso integrato vs Riso veramente bio. In basso dettaglio Riso veramente bio. |
Premessa
Come estensori del
“Contributo tecnico-scientifico alla discussione” (di qui
in avanti CTSD_2019) inviato ai Senatori il 9 gennaio 2019
(Agrarian Sciences )
e relativo al DDL 988 attualmente in discussione al Senato,
intendiamo anzitutto sottolineare di non essere assolutamente
detrattori dell’agricoltura biologica, un modello produttivo
agricolo in grado di corrispondere alle esigenze di uno specifico
settore di mercato. Al riguardo, si veda quanto scritto al 4°
capoverso del paragrafo “Obiettivo del documento”:
“l’imprenditore agricolo è libero di adottare il processo
produttivo (convenzionale, biologico, integrato, ecc.) che meglio gli
consenta di confrontarsi con il mercato a condizione che tale
processo si svolga nel pieno rispetto delle normative e fornisca i
prodotti attesi e che l’imprenditore agricolo dichiara di rendere
disponibili”.
Il nostro documento
CTSD_2019 si propone di contribuire al dibattito previsto in Senato
offrendo elementi tecnico-scientifici di base per una discussione più
informata, in analogia con quanto al Parlamento Europeo ha
fatto lo European Parliamentary Research Service, che non a caso nel
suo recentissimo documento del marzo 2019 dal titolo “Farming
without plant protection products. Can we grow without using
herbicides, fungicides and insecticides?” giunge a conclusioni
per molti versi simili alle nostre (insostenibilità di
un’agricoltura globale fondata sul biologico, problematicità del
rame, necessità di un’intensificazione sostenibile basata
sull’agricoltura integrata).
Non si può negare in
premessa che molti articoli del DDL 988 tendono a isolare il
“biologico” rispetto al contesto agro-alimentare nel quale lo
stesso si colloca (articoli 5,8,11,13,14,15,16,17,18) avvalorando
l’idea di un’autosufficienza del “biologico” che non è nei
fatti. Al riguardo si sottolinea infatti che il “biologico” (i)
dipende in modo rilevantissimo dal convenzionale per la sostanza
organica di origine animale (letami, pollina, sottoprodotti
dell’industria delle carni, ecc.) di cui ha assoluta necessità per
restaurare la fertilità del terreno e inoltre (ii) beneficia
dell’abbattimento dell’inoculo di parassiti e patogeni frutto
della difesa razionale condotta dall’agricoltura convenzionale e
ancora (iii) utilizza come insetticida il piretro, prodotto
soprattutto in Africa con tecniche di agricoltura convenzionale che
prevedono l’uso di concimi, insetticidi e diserbanti severamente
vietati in “biologico”. Peraltro con riferimento al piretro
occorre accennare al fatto che i piretroidi non sono che
un’evoluzione controllata e controllabile dell’estratto di
piretro la cui qualità analitica è molto variabile, come emerge
dalle valutazioni condotte in sede di registrazione FAO/WHO JMPR.
In termini generali ci
preme anche evidenziare che per verificare l’ipotesi di
applicazione su vasta scala del “biologico” (che oggi a livello
mondiale occupa solo il 2% delle superfici) in luogo del
convenzionale non si può prescindere dagli strumenti modellistici.
Per questo rifiutare a cuor leggero come fanno Pacini et al. (2019)
lavori come quelli di Burney et al. (2010) o di Searchinger et al.
(2018) perché riferiti a scenari ipotetici e che non terrebbero
conto del “calo di fertilità dei suoli coltivati con tecniche
convenzionali, già pericolosamente in atto oggi” ci pare del
tutto irrazionale. Al riguardo facciamo peraltro osservare che se le
rese sono espressione della fertilità, come dovremmo giudicare in
termini di fertilità gli incrementi di resa del 2-3% annuo che le
statistiche globali FAO e USDA indicano per le grandi colture che
nutrono il mondo (mais, riso, frumento, soia, orzo) negli ultimi 50
anni?
Di seguito si risponde ai
singoli macrotemi sollevati dal gruppo dei “Docenti per la libertà
della scienza”.
Sulle differenze di
resa tra agricoltura convenzionale e agricoltura biologica
Si evidenzia anzitutto
che il nostro documento CTSD_2019 non parla di “rese fino al
50-75% in meno” come scrivono Pacini et al. (2019) bensì di
“cali di resa in pieno campo che vanno dal 20 al 70%” a seconda
della coltura”, con dati di riferimento riportati nell'Approfondimento 1, ove in assenza di dati per l’Italia si
riferiscono dati per Francia, Stati Uniti d’America e Stato indiano
del Sikkim. A ciò possiamo aggiungere:
- la più ampia disamina condotta da INRA (2013) che per il “biologico” francese indica cali di resa medi nazionali del 54% per il grano tenero, il 36% per il mais, il 55% per orzo, 40% per triticale, 43% per fava e pisello, 51% per Colza, 19% per girasole e 15% per soia (tabella 1)
- il lavoro scientifico di Chiriacò et al (2017) in cui si riportano rese, tratte dai quaderni di campagna degli agricoltori, di 1,5 t/ha per grano duro “biologico” contro le rese di 6 t/ha per il convenzionale (-75%), che concordano con i dati francesi da noi citati per grano tenero (-68%)
- sempre con riferimento al frumento (i) Benincasa et al. (2016) per una prova di confronto undecennale riportano cali di resa medi del 25% per il grano duro e del 31% per quello tenero coltivati in biologico, (ii) Ianucci e Codianni (2016) riportano per il grano duro “biologico” un calo di resa medio del 40%, e (iii) Mikò et al. (2016) da prove parcellari triennali condotte in Francia, Austria e Ungheria ricavano cali di resa medi del 27% per il grano duro biologico.
- il lavoro di Bacenetti et al. (2016), cofirmato anche dal prof. Stefano Bocchi e nel quale si indicano per il riso “biologico” cali di resa medi del 34% rispetto a quello convenzionale che tuttavia salgono al 56% se si considerano le minori rese alla lavorazione (40% per il riso “biologico” contro il 60% per il convenzionale).
Ricordiamo inoltre che se
vogliamo parlare di sicurezza alimentare globale dobbiamo focalizzare
la nostra attenzione sulle rese delle 5 grandi colture (riso, mais,
frumento orzo e soia) che da sole fanno il 70% delle calorie oggi
consumate dagli esseri umani. Su queste 5 colture il pieno campo
riserva sorprese negative enormi rispetto a quanto accade in prove
parcellari in cui la necessità di rispettare il coeteris paribus
spinge il più delle volte ad interventi specifici non effettuabili
in pieno campo e volti ad eliminare gli effetti negativi di malerbe,
mancato soddisfacimento delle necessità nutrizionali e limitazioni
nella difesa fitosanitaria che anche interagendo fra loro (es:
colture con problemi nutrizionali sono più esposte agli effetti
negativi di parassiti, patogeni e malerbe) portano a pesanti
decurtazioni delle rese nel “biologico” (Cavigelli et al., 2008).
Inoltre in pieno campo il
“biologico” ricorre sempre più spesso a "varietà antiche"
(che poi il più delle volte sono in realtà varietà dei primi del
XX secolo) che di per sé presentano rese sensibilmente inferiori
rispetto alla varietà attuali.
Occorre peraltro
evidenziare che in pieno campo sono dichiarate "meraviglie"
che dovrebbero insospettire l’osservatore più attento, quali risi
“biologici” con rese pari a quelle dei risi convenzionali, il che
in assenza del diserbo manuale (monda) no è ragionevole attendersi.
Sempre in pieno campo è assai frequente assistere all'abbandono
della coltura del mais da parte del “biologico” per le rese
troppo basse legate in primis a problemi di diserbo (impossibilità
di effettuare il diserbo meccanico sulla fila e/o di intervenire con
il diserbo meccanico stesso in occasione dei periodi piovosi così
frequenti in primavera). Nel caso del mais per uso zootecnico lo
stesso viene sostituito con il prato che rispetto a un mais
convenzionale allo stato dell’arte porta a ridurre a circa 1/3
(-66%) la produzione in termini di unità foraggere per ettaro.
Alla luce di quanto sopra
invitiamo gli estensori del documento dei sei (Pacini et al., 2019) a
verificare con i produttori biologici onesti quali siano le reali
differenze di resa registrate rispetto al convenzionale e a
considerare inoltre che accreditando differenze di resa fra l’8 e
il 25%:
- accreditano l’attività dei produttori disonesti che ad esempio nel caso del riso giungono a produrre anche 6-7 t/ha di riso contro le 7-8 t/ha dei produttori convenzionali
- fanno sorgere nell’opinione pubblica seri e motivati dubbi circa l’utilità dei finanziamenti pubblici al biologico. Com’è possibile giustificare infatti che un settore che produce quasi quanto il convenzionale e che spunta prezzi di mercato più che doppi riceva sussidi pubblici che oggi arrivano al 45% del reddito netto contro il 30% del convenzionale?
In sintesi, mentre
ribadiamo che il biologico debba ricevere sussidi atti a compensare
le rilevanti riduzione di resa riscontrati, riteniamo che queste
riduzioni debbano essere adeguatamente monitorate dal sistema
statistico agricolo nazionale, visto che statistiche affidabili di
resa del biologico non sono disponibili. A ciò si aggiunga che
dovrebbero essere istituiti controlli molto più severi di quelli
oggi in atto allo scopo di individuare e punire i produttori
biologici disonesti.
Tabella 1 – Rapporto fra i rendimenti in agricoltura biologica e
convenzionale AB/AC a livello nazionale francese per alcune produzioni vegetali
da varie fonti (INRA, 2013 – tabella 1 – pagina 25).
|
Sulle alternative al
“biologico”
Per agricoltura integrata
intendiamo una forma di agricoltura capace di incrementare quantità
e qualità delle produzioni agricole nel rispetto dell’ambiente,
grazie all’impiego delle più innovative tecnologie nei settori
della genetica vegetale ed animale e delle tecniche colturali e di
allevamento, e quindi non solo in applicazione della direttiva n°
128/09/UE (uso sostenibile dei prodotti fitosanitari).
A nostro avviso detto
modello consente di superare tutti i limiti dell’agricoltura
organica in una logica di sostenibilità.
L’applicazione dei
concetti sopra indicati non genera confusione, ma va proprio nella
direzione dell’interesse pubblico che si sostanzia in “cibi di
buona qualità e a prezzi contenuti”.
Peraltro la posizione da
noi espressa è confermata da un recentissimo documento del Servizio
ricerca del Parlamento Europeo (European Parliamentary Research
Service, 2019) nel quale si afferma, fra l’altro, che per
migliorare la sostenibilità della produzione agricola facendo al
contempo fronte al sensibile incremento delle popolazione globale (11
miliardi di esseri umani attesi per il 2100) si rende necessaria
un'intensificazione sostenibile basata sulla difesa integrata (IPM) e
sul ricorso sempre più ampio all’agricoltura di precisione, alla
sviluppo di varietà resistenti e a tecniche colturali innovative. In
tale documento si sostiene inoltre che a fronte di un tale scenario
l’agricoltura biologica ha un potenziale inferiore pur rivelandosi
utile in un numero limitato di situazioni specifiche, come ad esempio
nelle aree tampone fra riserve naturali e aree ad agricoltura
intensiva.
Sui prodotti a base di
rame e sui prodotti chimici di sintesi
Evidenziamo anzitutto la
falsità della dicotomia posta da Pacini et al. (2019) fra “prodotti
a base di rame” e “prodotti chimici di sintesi” in quanto i
prodotti a base di rame sono anch’essi di sintesi e cioè prodotti
dall’industria agrochimica, la stessa che ottiene lo zolfo usato
come antiofidico soprattutto dalla desolforazione dei combustibili
fossili.
Per quanto riguarda i
prodotti a base di rame si segnala che EFSA nelle conclusioni del suo
rapporto del 2018 dedicato all’uso in agricoltura di tale sostanza
evidenzia di non poter finalizzare le conclusioni sui rischi per il
consumatore per mancanza di studi. Si osservi poi che il rame
presenta un elevato rischio per gli uccelli e i mammiferi per gli
organismi acquatici, per la flora e la fauna del suolo (Ballabio et
al., 2018) e per gli insetti (api incluse). L’uso intensivo del
rame in agricoltura ha anche pesanti effetti sulle popolazioni dei
lombrichi e sulla biomassa microbica del suolo (FAO and IPTS, 2017).
Tutto ciò spiega le seguenti indicazioni di pericolo presenti sulle
etichette di un idrossido di rame: molto tossico per gli organismi
acquatici con effetti di lunga durata, provoca gravi lesioni oculari,
mentre ad esempio per la maggior parte dei formulati a base di
glifosate non vi è alcuna indicazione di pericolo. In sintesi dunque
per quanto riguarda la salute umana possiamo dire che la possibilità
di intossicazioni acute accidentali è senz’altro molto più
probabile per il rame che per il glifosate.
A testimonianza della
tossicità dei fungicidi a base di rame giova citare quanto riportato
nel rapporto ISTISAN 18/6 (Istituto Superiore della Sanità, 2014):
“L’esposizione per via inalatoria a verde rame (fungicida),
nel corso di attività agricola effettuata senza l’utilizzo di
alcun dispositivo di protezione individuale, è stata riportata come
possibile fattore causale per il decesso di un uomo di 72 anni di
età. Il paziente, inizialmente ricoverato in emergenza per dispnea
manifestatasi a seguito dell’inalazione del fungicida, ha
successivamente sviluppato un quadro di colecisti acuta e una grave
anemia emolitica che lo hanno condotto a morte nell’arco di quattro
giorni.”. In ragione di ciò riteniamo non corretto
minimizzare il rischio per gli operatori e i consumatori legato
all’utilizzo di prodotti a base di rame come fanno Pacini et al.
(2019) e come fa lo stesso presidente Federbio Carnemolla il quale in un’intervista televisiva ha di recente dichiarato che "Lo usiamo da 150 e saremmo tutti morti e avremmo dei vigneti dei deserti e questo non è...".(Sky TG 24, servizio
mandato in onda il 15 e 16 dicembre 2018).
Riguardo al rame, va
inoltre ricordato l’uso massiccio storicamente adottato dal
“biologico” a causa della sua deliberata rinuncia alle numerose
alternative di sintesi nell’ambito dei fungicidi. Ciò ha condotto
a un rilevante accumulo nel suolo di questo metallo pesante, tanto da
indurre le normative europee ad abbassarne ulteriormente le dosi a
soli 4 kg/ha/anno di rame metallo, riducendo di un terzo i precedenti
limiti di 6 kg/ha. Il nuovo limite può essere agevolmente tollerato
da chi segua protocolli di difesa integrata, ma pone gravi difficoltà
agli agricoltori biologici. Ad esempio Kuhne et al. (2017) riportano
per la Germania quantitativi di rame usati per ettaro in “biologico”
su vite, luppolo e patata che sono rispettivamente pari al 288%, al
153% e al 175% di quelli usati nell’agricoltura convenzionale. A
fronte di tali progressive riduzioni nelle dosi, sospette appaiono
quindi le quasi 300 formulazioni di rame commercializzate
ufficialmente in Italia come "fertilizzanti" anziché come
antiperonosporici (Valmori, 2017). Un numero di prodotti, quello dei
fertilizzanti rameici, che supera perfino quello degli analoghi
formulati rameici regolarmente autorizzati come fitofarmaci. Su
questo tema si auspica infatti una specifica attenzione dei
Normatori, affinché a tali prodotti venga posto un contenuto di
sostanza attiva sufficientemente basso da impedirne di fatto
l'utilizzo illegale come fitofarmaci. Un tema che dovrebbe
preoccupare in primis i produttori agricoli che ammantano la propria
scelta di fare “biologico” con motivazioni etiche legate alla
salvaguardia dell’ambiente e alla tutela dei diritti delle
generazioni future.
Per quanto attiene poi
alle considerazioni di Pacini et al (2019) sul Glifosate, IARC
ha inserito tale principio attivo nel gruppo 2A (probabilmente
cancerogeno per l’uomo), lo stesso nel quale sono state inserite le
carni rosse (prodotte in modo convenzionale o “biologico”) o le
bevande bevute molto calde: si noti che alcool e fumo di tabacco sono
stati inseriti nel gruppo 1 (certamente cancerogeno per l’uomo). In
ogni caso la valutazione di IARC non è stata condivisa dal Joint
FAO/WHO Meeting on Pesticide Residues, dall’Autorità Europea per
la Sicurezza Alimentare (European Food Safety Authority, EFSA),
dall’Agenzia Europea sui Prodotti Chimici (European Chemicals
Agency, ECHA), dall’EPA statunitense, dal PMRA canadese e un’altra
dozzina di enti nazionali. Tutti questi organismi hanno concluso che
il glifosate non pone rischio di cancerogenicità.
Il problema delle
resistenze delle malerbe che gli autori segnalano nel caso del
glifosate, è un fenomeno alquanto comune in natura, ben noto ad
esempio per la sua diffusione tra i batteri nei confronti di
importanti antibiotici per i quali. tuttavia, l'insorgere delle
resistenze non ha portato certo a negarne l'importanza come rimedio
terapeutico. Nello specifico il fenomeno della resistenza alle
malerbe ai diserbanti è fisiologico e viene comunemente affrontato e
risolto sia ricorrendo alla rotazione colturale e a quella dei
diserbanti con diverso meccanismo di azione sia con la ricerca di
nuovi prodotti chimici.
Sulla fertilità del
suolo e le emissioni di CO2
Circa i punti elencati da
(a) ad (e), il tutto dovrebbe essere rispettoso delle logiche di
sostenibilità economica, in assenza della quale si verificherebbero
processi di abbondono con conseguenti rischi non solo di
desertificazione, tanto paventata dagli estensori della nota, ma
anche di incendi e processi erosivi in genere.
L’applicazione di
quanto descritto nel paragrafo in esame porta a domandarsi: 1°. Chi
paga? e 2°. A quanti darebbe da mangiare e a quale costo?
Sulla giustizia e
sulle soluzioni al problema della sicurezza alimentare
L’ampia divagazione
iniziale sui fallimenti del mercato è un’ovvia considerazione che,
tuttavia, sposta l’attenzione su un tema diverso da quello da noi
affrontato. Al centro dei documenti da noi redatti non vi sono
infatti i modelli di mercato, ma i modelli di produzione agricola ed
è sulle conseguenze di questi ultimi che ci si sofferma. I
fallimenti di mercato, come quello citato relativo alla
(re)distribuzione delle risorse, sono indipendenti dai modelli di
produzione agricola, mentre le cause che li originano agiscono
indifferentemente su questi ultimi, indipendentemente dal fatto che
siano biologici o convenzionali o altri ancora.
Il fatto che vi siano
ancora e purtroppo oltre 800 milioni di persone che soffrono la fame
non deve far dimenticare che il loro numero tendenzialmente è in
calo sia in assoluto sia in percentuale e anche negli anni della
crisi il trend è confermato. Un risultato ancora più significativo
se si considera che contemporaneamente la popolazione mondiale
continua a crescere e che i tassi di crescita sono più elevati nei
Paesi in via di sviluppo (PVS) che nei Paesi avanzati. Si può e si
deve fare di più e meglio e a questo fine ci si muove, ma non
dimenticando due fatti innegabili: a) il miglioramento conseguito è
dovuto soprattutto se non esclusivamente agli sviluppi
dell’agricoltura convenzionale specialmente nei PVS; b) se si
considera la distribuzione geografica dei Paesi in cui vi è carenza
alimentare e la sua distribuzione nel tempo, si vede che rispetto
agli inizi degli anni ’60 del Novecento e ancor più negli ultimi
decenni nel continente asiatico e in un numero crescente di paesi del
Centro e del Sud America l’intensificazione della produzione
agricola sostenuta dal crescente impiego di mezzi tecnici ha ridotto,
se non eliminato, la piaga della fame, mentre la gran parte dei paesi
ancora in sofferenza si concentra nell’Africa Sub-Sahariana. Il
mancato miglioramento o il regresso di risultati già conseguiti sono
imputabili come noto a problemi extra agricoli.
Una ulteriore
considerazione riguarda la concreta possibilità di riequilibrare
offerta e domanda di prodotti agricoli attraverso un
ridimensionamento delle diete, in particolare azzerando o quasi i
prodotti di origine animale. La domanda di questi prodotti cresce
infatti con l’aumentare del reddito e questo è il vero perno della
questione. Non si può impedire a popoli che escono a fatica dalla
fame di precludersi quel miglioramento quanti-qualitativo che i
popoli dei paesi sviluppati hanno avuto. Sostenere e promuovere
“diete sostenibili e sistemi di produzione meno impattanti”
incontra grossi limiti nei comportamenti individuali ma soprattutto
nell’elevato rischio di perpetuare la malnutrizione nei PVS e
reintrodurla in quelli sviluppati. Infine quand’anche fosse
realizzabile sulla necessaria scala mondiale, non sarebbe vantaggioso
per l’azienda agricola (il settore agricolo) che vedrebbe ridursi
il mercato e la remunerazione dei prodotti, né per il consumatore le
cui scelte sarebbero compresse e etero decise, né tanto meno per il
territorio (l’ambiente agricolo) che soffrirebbe di un abbandono
dannoso. Ma, soprattutto, queste considerazioni, come quelle sui
fallimenti del mercato, sono indipendenti dalla scelta a favore o
contro il biologico.
Omissioni esistenti
nell’analisi condotta da Pacini et al. (2019)
Rispetto alle analisi da
noi condotte nel nostro documento per il Senato CTSD_2019 abbiamo
notato anche alcune rilevanti omissioni che riteniamo utile
evidenziare. Viene del tutto disatteso il problema che una eventuale
estensione del “biologico” a livello globale creerebbe in virtù
del rifiuto preconcetto dei concimi di sintesi, azotati in primis.
Infatti secondo le stime di Smil (2002) senza i concimi azotati di
sintesi la produzione globale di proteine si dimezzerebbe con
gravissimi danni alla sicurezza alimentare.
Viene altresì trascurato
il fatto che la promozione di una zootecnia estensiva perpetuerà nei
fatti la dipendenza del “biologico” dalla zootecnia intensiva,
in quanto la zootecnia estensiva proposta dai biologici è per lo più
quella da pascolo ove recuperare la sostanza organica per trasferirla
alle colture intensive è oggettivamente impossibile.
Viene altresì trascurato
il fatto che la zootecnia estensiva ha emissioni di gas serra triple
rispetto a quelle della zootecnia intensiva, e dunque insostenibili
(Capper et al., 2009).
Sottostimando infine i
cali di resa in “biologico”, Pacini et al. (2019) sottostimano
anche i danni agli ecosistemi che deriverebbero dalla necessità di
eseguire imponenti dissodamenti con distruzione di ecosistemi
naturali di foresta e di prateria e rilevantissime emissioni di gas a
effetto serra (Burney et al.,2010; European Parliamentary Research
Service, 2019).
Conclusioni
Con questo documento
abbiamo risposto in modo puntuale e dettagliato agli elementi di
critica presenti nel documento del Gruppo dei docenti per la libertà
della scienza (Pacini et al., 2019) e relativi al nostro “Contributo
tecnico-scientifico alla discussione” inviato ai Senatori il 9
gennaio u.s. (CTSD_2019).
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