da ANTONIO SALTINI, Storia delle Scienze Agrarie, vol. VII, CAP. 18
Contro la scienza della tradizione, per una nuova agronomia
Ripercorrere l’itinerario seguito dalla conoscenze agronomiche nel Ventesimo secolo non significa soltanto misurare le straordinarie conquiste realizzate, sulle fondamenta fissate, nel secolo precedente, dai fondatori dell’agronomia moderna, significa altresì verificare il categorico rifiuto, da parte di drappelli di agricoltori che si convertono, nei paesi dell’Occidente, in schiere chiassose, dei presupposti della tradizione agronomica, in primo luogo del legame sistematico stabilito dall’agricoltura moderna con la chimica, per tentare il ritorno a procedure che rinuncino all’impiego dei fertilizzanti industriali, degli insetticidi, degli anticrittogamici e dei diserbanti ottenuti da procedimenti di sintesi chimica, delle sementi frutto di procedure di laboratorio.
Gli impulsi che sospingono i primi adepti sulla strada di un’agricoltura che rigetta la chimica sono i medesimi che inducono, dal termine degli anni Sessanta, uomini di scienza e di pensiero a guardare con preoccupazione le conseguenze, sempre più pervasive, delle attività umane che comportano manipolazioni della materia sugli equilibri dell’ambiente naturale, l’esito del primo allarme sui pericoli conseguenti all’intensificazione dello sfruttamento delle risorse naturali imposta dall’economia moderna, l’allarme alla cui diffusione abbiamo registrato i contributi più autorevoli.
Gli impulsi che sospingono i primi adepti sulla strada di un’agricoltura che rigetta la chimica sono i medesimi che inducono, dal termine degli anni Sessanta, uomini di scienza e di pensiero a guardare con preoccupazione le conseguenze, sempre più pervasive, delle attività umane che comportano manipolazioni della materia sugli equilibri dell’ambiente naturale, l’esito del primo allarme sui pericoli conseguenti all’intensificazione dello sfruttamento delle risorse naturali imposta dall’economia moderna, l’allarme alla cui diffusione abbiamo registrato i contributi più autorevoli.
È negli anni della conversione dei cardini concettuali dell’agronomia verso metodologie rispettose degli equilibri naturali che si verifica la divaricazione tra la scienza ortodossa, che si impegna a sottoporre le conseguenze dell’impiego della chimica al controllo più rigoroso, e i movimenti che propugnano metodologie fondate sul rifiuto radicale dei mezzi chimici, insieme agli strumenti della chimica rigettando la tradizione agronomica che li ha adottati. Mentre, cioè, la maggioranza dei cultori di agronomia e delle discipline complementari operanti nelle università e nei centri sperimentali percepisce l’esigenza di approfondire gli studi chimici, biologici, fisiologici, per verificare quali composti chimici possano risultare dannosi ai sistemi naturali, quali nuovi composti, dagli effetti meno nocivi, si possano introdurre, quali metodologie adottare per ridurne gli effetti negativi, nasce un movimento, la maggioranza dei cui proseliti è costituita da giovani estranei all’ambiente agricolo e privi di conoscenze agronomiche, che pretende il bando incondizionato degli strumenti della chimica, la fondazione di una pratica agraria che conti sull’impiego esclusivo di mezzi naturali, la pratica agraria che con una disinvolta manomissione lessicale i fautori latini e tedeschi definiscono “agricoltura biologica”, che, più propriamente, nei paesi anglosassoni viene definita organic agriculture, la locuzione che sottolinea l’assunzione dei fertilizzanti organici a strumento essenziale della produzione dei campi. La medesima avversione manifestata per la chimica sarà rivolta, rapidamente, alle dimensioni delle macchine agricole, nei paesi evoluti negli stessi anni sempre più potenti.
Da propugnatori di un’agricoltura che rinunci ai mezzi della chimica e riduca le dimensioni dei mezzi meccanici, i fautori del nuovo credo agrario diverranno, nell’arco di pochi anni, non meno intransigenti antagonisti dell’impiego delle sementi costituite dalla nuova genetica, prima, più confusamente, di quelle ottenute mediante le metodologie tradizionali di incrocio e selezione, poi, più categoricamente, di quelle ricavate dai procedimenti della microbiologia molecolare, attraverso l’intervento diretto sul patrimonio genetico, un intervento in cui i cultori dell’agricoltura alternativa denuneranno l’attentato più grave all’integrità fisica di tutti i viventi. Mentre, peraltro, le prove dei danni dell’impiego della chimica in agricoltura sono palesi, riconosciute dagli studiosi di qualunque ispirazione, e la scienza agronomica, seppure consapevole che la società umana richiede quantità di derrate alimentari che sarebbe impensabile produrre rinunciando ai mezzi della chimica, è impegnata al loro contenimento, a provare i pericoli delle sementi selezionate dalla nuova genetica gli oppositori continueranno ad immaginare gli argomenti più fantasiosi, privi del supporto di qualunque prova sperimentale.
Dalla constatazione che i mezzi chimici e meccanici impiegati, con intensità crescente, per accrescere le produzioni, determinano effetti dannosi sugli equilibri naturali, prendono corpo, quindi, due atteggiamenti contrapposti: la determinazione ad approfondire le conoscenze per ridurre conseguenze negative che risultano evidenti, la determinazione che abbiamo verificato animare la nuova strategia di difesa dai parassiti, l’imputazione alla chimica di danni irreparabili, ragione del suo rigetto incondizionato, unito al proposito di riesumare i metodi dell’agricoltura preindustriale, o di apprestare metodi nuovi, comunque esenti dall’impiego di mezzi chimici. Mentre la prima opzione, l’accoglimento degli imperativi di tutela delle risorse naturali, costituisce, sul terreno della storia della scienza, l’adeguamento delle conoscenze agronomiche ad istanze nuove, quindi l’evoluzione della concezione della produzione agricola che dalle origini, nel Settecento, non ha cessato di rinnovare, di fronte a imperativi sociali e scoperte nuove, il proprio ordito, il rigetto incondizionato della chimica impone a chi lo propugni l’onere di giustificare il rifiuto immaginando una concezione nuova dei rapporti tra l’uomo e le risorse, obbligandolo a sostituire alla dottrina agronomica tradizionale i principi di una nuova scienza della coltivazione. Per confutare una scienza costruita su fondamenta secolari i profeti del rifiuto della chimica debbono misurarsi con un dilemma logico inequivocabile: o professare, apertamente, il rifiuto della scienza, o proporre le proprie istanze con argomentazioni di dignità scientifica. Obbligati al cimento teorico, gli alfieri della nuova agricoltura si profondono, nel corso degli anni Settanta, nell’elaborazione di un novero multiforme di dottrine, la cui radicale dissonanza frammenta il pianeta “biologico” in una pluralità di scuole, che la passione profusa da ogni “maestro”nel sostegno della propria dottrina, e nell’impegno a distinguerla da quella di ciascun altro, rende forse più proprio definire col termine di sette.
Saggezza orientale e abbandono alle forze naturali
Presenta una singolare composizione del
rigetto della scienza sperimentale e di impiego dei canoni della più rigorosa
sperimentazione agronomica, in una commistione singolare di scienza e di
filosofia, la dottrina di Masanobu Fukuoka, il ricercatore giapponese che dopo
avere operato in un laboratorio di fitopatologia a fianco di un maestro famoso
decide, a seguito di un mancamento cui avrebbe coinciso una visione, di
abbandonare la scienza per tornare a coltivare il podere del padre, sul quale
definirà, in lunghi anni di ricerca, un sistema di coltura che riduce, fino
quasi ad eliminarli, gli interventi agronomici, aratura, zappature,
sarchiature, esclude completamente quelli chimici, il sistema che propone, nel
1975, in un volumetto destinato a suscitare interesse nei sei continenti, nella
traduzione italiana La rivoluzione dello
stelo di paglia.
I mancamenti-illuminazione hanno svolto un ruolo
significativo nella storia spirituale e politica dell’umanità: fu dopo avere
perduto la percezione sensoriale, ed avere sperimentato l’annullamento della
coscienza psichica, che Gauthama
Siddartha concepì la dottrina di ascesi che avrebbe orientato la storia
spirituale delle due nazioni più popolose del Globo, fu a seguito di un
oscuramento della presenza cosciente, e di un’escursione nel cielo dei
cherubini, che Maometto concepì la religione la cui carica guerriera avrebbe
modificato l’assetto geopolitico di tre continenti, fu, ancora, dopo essere
stato colto dall’estasi che René Descartes intuì i principi della filosofia che
avrebbe segnato, con la nascita del pensiero moderno, il fato dell’Occidente.
Nella storia delle estasi decisive per la storia umana per prossimità
geografica quella di Fukuoka è più vicina a quella di Budda che a quelle degli
altri grandi del pensiero e della mistica. Riavutosi dall’obnubilamento, il
ricercatore giapponese avrebbe percepito di avere acquisito una verità
capitale: l’uomo sarebbe incapace di comprendere la natura. La scienza
sperimentale, una forma di conoscenza tipicamente occidentale, adottata dalla
cultura asiatica nonostante l’incompatibilità con le radici del proprio
pensiero, non offrirebbe la chiave per la comprensione del mondo naturale che
pretenderebbe di assicurare, le pratiche tecnologiche congegnate, per sfruttare
le risorse naturali, dalla medesima scienza, costituirebbero violazione
irreparabile dell’ordine del Cosmo. Tornato al podere paterno “ai piedi della
montagna”, il veggente agrario si sarebbe dedicato alla ricerca di metodi di
coltivazione in cui siano i vegetali e gli animali a produrre, con il grado
minore di interferenze umane, le derrate necessarie ai bisogni alimentari.
Mosso da un’intuizione filosofica, ma in possesso degli
strumenti della più funzionale sperimentazione agronomica, Fukuoka avrebbe
congegnato un contesto di pratiche di sorprendente efficacia e di evidente
produttività, pratiche disegnate in modo precipuo per le specie coltivate e per
le condizioni climatiche dell’ambiente giapponese, quindi di difficilissima estrapolazione
in ambienti diversi, ove a realizzarne la traduzione non siano sperimentatori
dotati delle medesime capacità tecniche del maestro, che, rigettata la scienza
europea, ha conservato le capacità sperimentali acquisite in un’ istituzione di
ricerca di inequivocabile matrice occidentale. Rilevata l’originalità delle
procedure agronomiche del veggente nipponico si deve rilevare che le ragioni
che Fukuoka adduce a spiegarne l’efficacia, ragioni che enuncia in coerenza
alle proprie intuizioni filosofiche, non sono in grado di sostenere il
confronto con assunti di cui la storia dell’agricoltura ha fornito la
dimostrazione inoppugnabile. Il maestro orientale proclama, infatti, la
possibilità di conseguire la produttività più elevata della terra operando le interferenze
minori con le forze della natura, e
addita nella lavorazione del suolo, in particolare nell’aratura, l’esempio
degli interventi umani superflui, ove non dannosi, un’asserzione confutata
dalla conoscenza più elementare della storia dell’agricoltura e della stessa
civiltà, che dimostra che l’aratura fu introdotta, sui suoli di steppe e
foreste, per sostituire al manto di erbe spontanee, che non forniva all’uomo
alcun nutrimento, un manto di cereali che avrebbe consentito la vita di un
numero di uomini che, impiegata come pascolo, la medesima superficie non
avrebbe mai alimentato. L’agricoltura consiste in una manipolazione delle
risorse drasticamente più pervasiva della raccolta dei frutti spontanei, ma
quella manipolazione consente di ricavare dalla terra una quantità di alimenti
senza confronto maggiore. Si può sognare il Pianeta popolato da pochi milioni
di esseri umani, che vivrebbero felicemente tra le piante di mandarino
coltivate secondo i principi di Masanobu Fukuoka: il popolamento della Terra è
maggiore di quello che potesse auspicare il veggente nipponico: fino alla
catastrofe che lo riduca drasticamente pare ragionevole provvedere, impiegando
gli strumenti disponibili, alla sua alimentazione.
L’azienda agricola organismo biologico
Tra i maestri impegnati a stabilire le
coordinate conoscitive per apprestare pratiche agronomiche che possano
prescindere dagli strumenti della chimica deve essere incluso un agronomo
italiano, Francesco Garofalo, un passato, anch’egli, di ricercatore nelle
istituzioni della sperimentazione agraria, quindi il ripudio dell’agricoltura
tradizionale e la conversione ad un’agronomia alternativa, la sperimentazione
di nuovi metodi e un’appassionata opera di proselitismo, condotta pubblicando,
tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, la rivista Suolo e salute e costituendo, con la medesima denominazione, il
primo movimento italiano per un’agricoltura che rigettasse l’impiego di
fertilizzanti e antiparassitari di sintesi. La dottrina agronomica di Garofalo
costituisce, essenzialmente, la riproposizione delle idee che Alfonso
Draghetti, direttore della Stazione agraria di Modena tra gli anni Quaranta e
gli anni Cinquanta, ha raccolto in un volume che, edito nel 1948, può essere
considerato, alternativamente, un manifesto postumo della Rivoluzione agraria
moderna o il proclama ante litteram
della nuova agricoltura alternativa, La
fisiologia dell’azienda agraria.
La chiave logica del volume può essere identificata
nell’idea dell’azienda organismo fondata sulle rotazioni e sull’integrazione
delle produzioni animali con quelle cerealicole, l’idea definita da Henry
Gilbert al termine di un itinerario sperimentale di cui è agevole identificare
la matrice concettuale nell’opera di Thaer. Di quella matrice Alfonso Draghetti
si appropria, a metà del Novecento, mentre si manifestano i primi segni delle
trasformazioni economiche che ridurranno drasticamente, nelle campagne europee,
la molteplicità e la complessità delle rotazioni a favore di una radicale
semplificazione culturale, elidendo, con le rotazioni, la complementarità tra
colture e allevamenti che ha costituito il cardine della Rivoluzione agraria.
Sospinge la storica trasformazione il trionfo dell’economia industriale, che,
elevando il costo della manodopera, e comprimendo il valore delle derrate
agricole nei confronti dei manufatti industriali, impone la meccanizzazione dei
processi produttivi, rendendo economicamente insostenibile il mantenimento di
una stalla in ogni azienda, costringendo le aziende che non si specializzino
nell’allevamento, convertendosi in allevamenti industriali, a rinunciare al
bestiame, quindi, inevitabilmente al letame. Indifferente ai segni premonitori
della rivoluzione, Draghetti si impegna nella dimostrazione di un assunto che
coincide all’essenza del teorema di Thaer. Sperimentatore valente, sceglie,
nella bassa pianura modenese, un’azienda dal suolo depauperato dalle pratiche
di affittuari altrettanto privi di scrupoli contrattuali quanto di criteri agronomici,
vi introduce la migliore rotazione padana, dimostra che la riduzione della
superficie destinata ai cereali, e la dilatazione di quella destinata alla
medica, assicurano una nuova, ingente, disponibilità di letame, tale da
instaurare un livello di fertilità che consente di produrre una quantità
maggiore di cereali su una superficie ampiamente inferiore. La somma del
maggiore reddito dei cereali e delle nuove entrate dell’allevamento assicurano
la più eloquente dimostrazione contabile della tesi che ha ispirato
l’esperienza: un piano sperimentale dai risultati felici riafferma la validità
del teorema capitale della Rivoluzione agraria.
Sperimentatore accorto, il direttore della Stazione
agronomica di Modena non è maestro di storia dell’agronomia: la modestia delle
cognizioni storiche gli consente di presumere l’originalità di un’ipotesi le
cui cento formulazioni hanno ricolmato le biblioteche delle istituzioni
agrarie. Convinto della novità della dottrina, nel volume il cui titolo propone
l’azienda agricola quale essere vivente sviluppa la propria dimostrazione nella
forma più colorita, analizzando i flussi di sostanze nutritive tra i campi, il
fienile, la concimaia ed i prodotti immessi sul mercato come la circolazione
del sangue e dei principi chimici tra l’apparato digestivo, il cuore e gli
organi diversi del corpo. Se sul piano teorico costituisce ritorno al passato,
descrivere l’azienda agricola come entità vivente equivale a proporre una
metafora di suggestione irresistibile per gli spiriti inquieti alla ricerca di
una pratica agraria in ideale sintonia con i processi naturali. Quale
concezione agronomica potrebbe proporre, a chi aspira ad un’agricoltura
“naturale”, credenziali più sicure di quella che si propone di stabilire tra i
campi, la stalla e i granai una dinamica che riprodurrebbe il meccanismo di
digestione-circolazione che assicura la funzionalità di ogni organismo vivente?
Al di là della suggestione, deve identificarsi nelle ascendenze ottocentesche
la ragione della fondatezza della dottrina, mutuata da Draghetti, di Francesco
Garofalo, tra i fautori italiani della nuova agricoltura il solo che si sia
proposto di sostituire all’agronomia basata sulla chimica una dottrina
agronomica scientificamente fondata, seppure le fondamenta che si deve
riconoscerle portino il suggello dell’età di Liebig e Boussingault.
Arrestare l’apocalisse agricola
Arrestare l’apocalisse agricola
Tra le scuole dell’agricoltura alternativa
affermatesi in Europa titoli di particolare prestigio vanta quella fondata da
Raoul Lemaire, un docente di discipline agronomiche che matura, all’alba degli
anni Sessanta, il rifiuto delle tecniche dell’agricoltura moderna facendosi
alfiere del ritorno alle pratiche della tradizione. Contribuisce a tradurre le
intuizioni del maestro in metodologia agronomica organica il primo
collaboratore, anch’egli docente di materie agrarie, Jean Boucher. Codifica in
un libro di successo, all’alba degli anni Settanta, la dottrina dei dioscuri
dell’agricoltura “naturale” francese il più brillante dei discepoli, Antoine de
Saint Hénis. Il suo volume, Guide
pratique de culture biologique, non è solo il manuale che illustra una
tecnica agronomica nuova, è il manifesto per la creazione di un movimento che
si opponga alla trasformazione dell’agricoltura francese nel sistema tecnologico
e mercantile di cui alla fine degli anni Sessanta si intravede chiaramente la
fisionomia futura. Di quel manifesto sarebbe difficile comprendere il
significato ignorando la solidità delle tradizioni del mondo rurale radicato
nell’Esagono, da secoli fiero della propria cultura, una cultura che compone
valenze spirituali e consuetudini tecniche peculiari. Quel manifesto sarebbe
ugualmente incomprensibile misconoscendo l’orgoglio con cui il mondo rurale
francese è impegnato, dagli anni
Sessanta, a rinnovare pratiche agronomiche e strutture commerciali, sospinto
dall’ambizione di imporre l’agricoltura della Nazione come la più possente
macchina produttiva del quadro europeo, la conversione che costituirebbe, per Lemaire e Boucher, la più oscura
apocalisse.
Di fronte allo scenario in cui valori e tradizioni della paysannerie sono rigettati con la
trasformazione degli antichi fermiers
in imprenditori che usano macchine titaniche e calcolano il profitto di ogni
coltura, i due docenti francesi, genuini spiriti tradizionalisti, sono assaliti
dall’orrore: assistono con raccapriccio all’allargamento senza limiti delle
aziende, all’abbandono della campagna da parte degli agricoltori che
quell’allargamento non riescono ad operare, alla dilatazione delle dimensioni degli
appezzamenti, osservano con sgomento la sostituzione dell’antica molteplicità
di produzioni aziendali con una sola, al massimo due colture, l’abbandono delle
antiche sementi per le nuove varietà ibride, la selezione di bestiame sempre
più produttivo, il trionfo della chimica, che riversa sui campi quantità
crescenti di fertilizzanti e antiparassitari. I traguardi che i ministri
dell’agricoltura, i tecnici ed i responsabili sindacali menzionano come prove
del successo di una strategia di progresso sono, per i due paladini del passato
rurale, le prove della déluge che
avanza inesorabile.
Alfiere appassionato del pensiero dei maestri, nel proprio
volume Saint Hénis proclama, a dimostrazione dei danni del progresso, che la
nuova agricoltura avrebbe diffuso nei campi piante tanto sensibili ai parassiti
che le produzioni non risulterebbero superiori a quelle delle varietà
tradizionali, sostiene che la maggiore produzione non assicurerebbe agli
agricoltori alcun vantaggio economico, siccome le spese per macchine e
fertilizzanti fagociterebbero ogni maggiore ricavo, denuncia l’infierire, tra
gli animali allevati secondo i nuovi criteri, di malattie incontrollabili. Sono
asserzioni dettate, palesemente, dalla passione millenaristica, in evidente
contrasto con la realtà di un sistema agricolo che ha consentito ad un numero
senza misura minore di agricoltori di assicurare ai cittadini francesi uno dei
tenori alimentari più ricchi al mondo, di dirigere, insieme, sui mercati
internazionali un flusso di esportazioni, cereali, latticini, vini e frutta,
che costituisce per il Paese fonte preziosa di valuta. Seppure dichiari che il
cardine del metodo dei maestri consiste essenzialmente nel ritorno alle
pratiche della tradizione, l’apostolo della filosofia rurale di Lemaire e
Boucher si impegna ad attribuire a quella filosofia un blasone scientifico
dichiarando che i fondamenti della dottrina dei due agronomi risalirebbero al
pensiero di Pasteur, una pretesa a sostegno della quale Saint Hénis non è in
grado di menzionare una pagina sola del naturalista di Dôle, nella cui opera
monumentale il lettore più attento non reperisce una proposizione che avalli le
elucubrazioni del sedicente discepolo. Padre dei vaccini impiegati per
combattere le più gravi malattie infettive degli animali, Pasteur deve essere
ritenuto il precursore dell’allevamento fondato sugli strumenti della
veterinaria, la tecnologia che suscita l’orrore degli alfieri francesi del
passato rurale.
Alle idee di Pasteur, che cita senza avere letto, Saint
Hénis aggiunge, nell’elenco dei precorrimenti della dottrina dei maestri, la
teoria dell’americano Louis Kervran, lo studioso che ha sostenuto la capacità
degli organismi animali di operare la conversione della struttura molecolare
degli elementi chimici, mutando il numero di protoni, neutroni ed elettroni di
un atomo così da realizzare la trasformazione di un elemento in uno diverso,
un’autentica scissione atomica, un’ipotesi la cui dimostrazione sconvolgerebbe
l’edificio della fisica moderna, che Saint Hénis dichiara inoppugnabilmente
provata dallo studioso americano, e che assume tra le fondamenta teoriche della
costruzione di Lemaire e Boucher. Piuttosto che in Pasteur, che di fertilità
del suolo e di rotazioni agrarie non ebbe mai ad occuparsi, sarebbe più pertinente
identificare il predecessore ideale di Lemaire e Boucher in Thaer, il
precursore concettuale di Draghetti e di ogni teoria agronomica che fissi il
proprio caposaldo nelle rotazioni, che non si sa decidere se Saint Hénis non
citi perché ne ignori l’opera o perché un autore francese non riconoscerà mai i
titoli di precursore delle proprie idee ad uno scienziato tedesco, preferendo
la citazione impropria di un connazionale a quella pertinente di un autore
straniero. Valutata in termini teorici, la dottrina di Lemaire e Boucher ricalca perfettamente, dopo quindici decenni,
i principi del grande tedesco propugnando la stessa integrazione perorata da
Thaer della coltura dei cereali e dell’allevamento, le cui esigenze alimentari
propone di soddisfare, come il predecessore, con la coltura di una molteplicità
di specie foraggere, fonti di fertilità tanto attraverso gli apporti diretti di
azoto al suolo, da parte delle leguminose, quanto con quelli indiretti che si
realizzano dopo la trasformazione, nella stalla, dei foraggi in letame. Alla
gamma delle colture foraggere consigliate, ricalcando il precursore che
ignorano, i paladini francesi dell’agricoltura alternativa associa- no il
suggerimento dell’impiego del litotannio,
un’alga tradizionalmente impiegata come fertilizzante dai contadini bretoni,
cui attribuiscono proprietà prodigiose sulla fertilità, sulla salute del
bestiame, sulle qualità biologiche delle derrate prodotte per il consumo umano.
Un’annotazione finale, a commento del volume di Saint
Hénis, impone la reiterazione, da parte dell’autore, dell’attribuzione, al
primo dei due maestri, del titolo di disinteressato apostolo della verità in un
mondo scientifico dominato da errore e avidità, una reiterazione che ricorda la
rivendicazione dei propri meriti riproposta, a tutte le tappe della storia
della scienza, da pseudoscienziati e imbonitori, e bandita dai discepoli, che nella denuncia di falsità ed errori degli
avversari hanno individuato la forma più efficace di promozione commerciale dei
propri amuleti: nel caso di Lemaire la pubblicità più fruttuosa delle confezioni del prodigioso estratto delle
alghe della costa brettone.
Processo alla chimica: i capi d’accusa
Se il rigetto della chimica che accomuna
gli alfieri delle agricolture “alternative” non costituisce, generalmente, che
espressione di un orrore incapace, per mancanza di competenze scientifiche, di
articolarsi in argomentazioni quantitative, propone l’eccezione più
significativa il volume con cui offre il proprio contributo a fondare la
filosofia della nuova agricoltura Claude Aubert, un agronomo dalla
significativa esperienza applicativa, critico di notevole acume di tutta la
pubblicistica chimica nella sfera agraria, autore di un volume, L’agriculture biologique, stampato nel
1977, cui la lucidità espositiva assicura il successo attestato dalla pluralità
delle edizioni. A differenza dei proclami contro la chimica della maggioranza
dei paladini di una nuova agricoltura, generalmente vibranti saggi di retorica
antiscientifica, il volume di Aubert propone contro la chimica un’autentica
arringa, articolata in capi d’accusa consistenti ciascuno di una serie di
argomentazioni fondate sui risultati di ricerche eseguite nei laboratori di un
novero cospicuo di paesi. Nell’ordine, dopo un’introduzione sulla qualità
biologica degli alimenti, il primo capitolo di quell’arringa raccoglie gli
elementi di colpa a carico di antiparassitari, insetticidi e diserbanti, il
secondo quelli a carico dei fertilizzanti, il terzo quelli a carico delle
creature della nuova genetica vegetale, sementi di piante annuali e varietà di
specie frutticole, e quelli che imporrebbero i pericoli rappresentati dagli
animali modificati dalle moderne metodologie di selezione.
Nel primo capitolo l’agronomo francese illustra i risultati
di una ricerca condotta, nel proprio paese, sulla presenza di residui degli
insetticidi della famiglia dei clorurati organici, quindi il D.D.T. e le molecole similari, nel latte
delle mucche e in quello delle donne, risultati senza dubbio inquietanti,
siccome il latte umano sarebbe risultato contaminato da un tenore di D.D.T. quarantacinque volte maggiore di
quello rivelato dalle analisi nel latte vaccino, da percentuali relative
maggiori, seppure i valori assoluti siano inferiori, di tutte le altre molecole
della famiglia. L’esito dell’indagine, alla stampa del volume già privo di
interesse per la proscrizione, dalle campagne europee, dei clorurati organici,
avrebbe imposto di individuare la ragione per la quale sarebbe risultata
maggiore la quantità di insetticidi nel latte delle donne, che ingeriscono solo
alcuni cibi trattati con clorurati, che in quello delle mucche, che vivono
nell’ambiente dove si realizzano le irrorazioni antiparassitarie: anziché
ricer- care una spiegazione del risultato sorprendente, Aubert proclama
l’impossibilità di proporre qualsiasi spiegazione plausibile. L’opzione rivela
un proposito sottile: postulare l’impossibilità di spiegare equivale ad
asserire l’incapacità della chimica di seguire le traslocazioni degli insetticidi
nella successione delle trasformazioni alimentari, un’incapacità, che, fosse
positivamente dimostrata, imporrebbe, per cogenza logica, il bando di ogni
molecola antiparassitaria, entità inafferrabile in grado di colpire chi e dove
nessuno strumento scientifico consentirebbe di supporre. Fondato su dati
analitici attendibili, il sillogismo contro la chimica è acuto e suadente: un
sofisma dall’indiscutibile potere persuasivo.
Ma l’argomento più suggestivo con cui Aubert motiva la
propria arringa è il commento ai risultati dell’antica ricerca con cui due
chimici dal nome russo avrebbero dimostrato, operando, tra il 1925 e il 1940,
in un laboratorio elvetico, che le molecole organiche “artificiali”, dotate di
poteri tossici in dosi quantificabili all’analisi, come risulta tossico il
composto del mercurio assunto quale esempio, manifesterebbero il medesimo
potere in dosi omeopatiche, fino alla trentesima diluizione decimale, un’entità
al di là di ogni possibilità di identificazione analitica. Gli antiparassitari
esprimerebbero la propria tossicità, quindi, a qualsiasi dose fossero ingeriti,
anche in tracce irrilevabili all’analisi. Il rilievo sperimentale è tale,
anch’esso, da imporre il bando di qualunque molecola antiparassitaria: un
esperimento condotto, negli anni Trenta, da due chimici assolutamente ignoti
agli annali della scienza non è sufficiente, peraltro, a smentire il principio
capitale della tossicologia, che stabilisce che è sempre la dose a determinare
la tossicità di una sostanza. Per ogni sostanza nociva la chimica stabilisce,
cioè, la soglia al di sotto della quale anche il veleno più potente può essere
tollerato dall’organismo. Aubert, che conosce il postulato, sostiene che esso
varrebbe solo per le molecole naturali, non per quelle la cui struttura sia
creazione dell’uomo. Analizzata secondo la logica della scienza, l’asserzione
si rivela il più brillante paradosso chimico. Come ogni paradosso, misurato
nelle proprie conseguenze, conduce nella sfera dell’assurdo: fosse fondato,
l’umanità non sarebbe solo costretta, come postula Aubert, ad abbandonare
l’impiego delle molecole antiparassitarie, dovrebbe rinunciare a tutti i
prodotti della chimica, dalla benzina all’inchiostro tipografico, dai coloranti
all’intera gamma dei medicinali, in assoluta maggioranza costituiti da molecole
create in laboratorio. Non esiste, infatti, farmaco che, elevando le dosi, non
possa convertirsi in veleno: ma se la sostanza tossica ad una dose elevata lo è
altrettanto a dosi infinitesime, essendo probabilmente rare le molecole di
sintesi per le quali non esista dose nociva, il consorzio umano non potrebbe
ricercare la salvezza che nel ritorno al regime di caccia e raccolta dell’età
paleolitica
Sono meno sottilmente seducenti le argomentazioni genetica animale. Contro le prime Aubert raccoglie una doviziosa messe di prove
che dimostrerebbero che le varietà vegetali frutto della selezione più recente
produrrebbero quantità di sostanza secca percentualmente inferiori a alle
varietà tradizionali, e che presenterebbero tenori minori di aminoacidi
essenziali e di vitamine, il rilievo di un dato notorio, che perde ogni
significato appena si verifichi che tenori percentuali di sostanza secca, di aminoacidi
e di vitamine, inferiori a quelli delle piante tradizionali possono coniugarsi
a rendimenti ettariali tanto maggiori da tradursi in produzioni di sostanza
secca, di aminoacidi e vitamine per unità di superficie ampiamente maggiori. Lo
straordinario balzo dei consumi medi della popolazione europea, un balzo che ha
determinato tanto il mutamento quantitativo quanto quello qualitativo della
dieta, consistente nel consumo di quantità maggiori di cereali, carne,
latticini e ortaggi, ragione dell’ingente incremento dell’ingestione di
aminoacidi e di vitamine, non sarebbe stato possibile senza l’incremento
prodigioso dei rendimenti ettariali, che in Europa ha alimentato la crescita
della popolazione consentendo, insieme, l’abbandono di superfici agrarie immense,
destinate alla riforestazione o convertite in autostrade, aeroporti, aree
industriali e residenziali. Se il rilievo di carenze e anomalie delle creature
della selezione varietale, per i mais ibridi sdegnata denuncia, non sarebbe
stato privo di fondatezza nelle condizioni dell’agricoltura della prima metà
del secolo, è del tutto gratuito alla data della redazione del volume,
risulterà risibile nei lustri successivi, quando le cariossidi di mais non
saranno che uno degli ingredienti di una miscela di cui sarà controllato il
tenore di ogni aminoacido, di ogni vitamina. Mentre sarà proprio grazie alle
procedure di manipolazione del genoma che gli istituti che apprestano le
sementi per i paesi dall’agricoltura più povera potranno inserire nel corredo
di un ceppo di mais, una pianta originariamente povera di aminoacidi essenziali
e di microelementi metallici, gli enzimi che consentano l’accumulo, nella
cariosside, degli aminoacidi e degli elementi metallici necessari a ovviarne le
carenza nelle regioni in cui la povertà del loro contenuto nelle varietà
tradizionali, unica fonte alimentare della popolazione, si traduca in
irreparabili deficienze della dieta umana. Assicurando, con le proprie
creature, la soluzione delle carenze nutrizionali provocate dal consumo delle varietà
tradizionali, la genetica dimostrerà la nocività alimentare delle varietà
tradizionali, i benefici del consumo di quelle prodotte in laboratorio: la
verità è l’esatto contrario dell’immaginosa imputa- zione di Claude Aubert.
Ancora più semplicistici appaiono i rilievi dell’agronomo
francese contro i prodotti della selezione animale, quelle linee di polli,
suini e bovini nel cui organismo Aubert denuncia alterazioni biologiche tanto
radicali da farne entità incapaci di sopravvivere senza il costante ricorso
alla veterinaria, un’osservazione non priva di apparente fondamento, siccome il
perseguimento della produttività più intensa induce gli allevatori a evitare
agli animali il più banale stato patologico, anche la sofferenza subclinica,
che viene proposta da Aubert per bandire l’oleografico confronto tra lo stato
sanitario degli animali degli allevamenti moderni e quello degli animali del
passato, che colloca in un nuovo Eden in cui le bestie che attorniano i
progenitori felici della stirpe umana avrebbero vissuto senza conoscere le
malattie contagiose che hanno decimato, nei secoli, greggi e mandrie, i vermi
pullulanti nel corpo di pecore e suini allevati fino all’alba del Novecento,
tubercolosi e brucellosi endemiche tra le vacche rinchiuse in stalle malsane e
costrette al faticoso tragitto della monticazione. Nell’alone dell’utopia
zootecnica anche latticini e insaccati del tempo dei nonni assurgono a
quintessenza di sapidità e di salubrità, come può immaginare solo chi ignori le
condizioni igieniche delle produzioni rurali di un tempo, la pluralità di muffe
e parassiti che pullulavano negli alimenti, nel caso degli insaccati le spore
portatrici di verminosi mortali.
Tra pseudoscienza e satanismo
Tra sette e tribù dei cultori di
un’agricoltura alternativa a quella nata dalla scienza moderna una menzione
particolare impone quella i cui adepti professano il credo predicato da Rudolf
Steiner, il veggente tedesco che si proclamò fondatore di una filosofia nuova,
che definì “antroposofia”, che la materia dell’innumerabile messe di opuscoli e
saggi impone di includere nell’antico, inesauribile fiume della letteratura
occultistica, teosofica, magica e cabalistica, un genere che dall’inizio
dell’arte della stampa ha arricchito gli stampatori a spese di chi da una
formula esoterica attendeva salute, denaro e amore.
Nel proprio arguto volume sui fondatori delle più
stravaganti dottrine pseudoscientifiche degli ultimi cento anni,
matematico e storico della scienza, ha tracciato un profilo di straordinaria
penetrazione dell’alfiere di una nuova dottrina della verità, della logica
delle sue elucubrazioni, dell’ansia di circondarsi di una scuola che è,
insieme, setta religiosa e ditta commerciale. Chi abbia proclamato la necessità
di dissolvere le conoscenze accumulate, dal tempo di Eraclito, per sostituirle
con una sola idea capace di sovvertire il mondo, ha goduto, nei secoli, di
utili editoriali generalmente maggiori di quelli che hanno riscosso, dagli
stampatori, Galileo o Newton. Integra il profilo il sistematico proclama del
vate di essere perseguitato dalla scienza accademica, che lo escluderebbe, per
invidia, dai propri ranghi. L’esclusione costringe il sapiente all’atteggia-
mento del genio incompreso, che rimette il trionfo della propria verità alla
comprensione dei posteri, che rigetteranno le conoscenze accumulate da Bacone
ad Einstein, per professare la dottrina enunciata dal genio ignorato dai
contemporanei. Del fondatore di una teoria pseudoscientifica e della setta che
la professi, Rudolf Steiner è rappresentante emblematico, sorprende, pertanto,
che lo studioso americano non lo abbia incluso nel proprio elenco dei demiurghi
incompresi. L’omissione appare tanto più singolare siccome Gardner sottolinea
il ruolo storico, tra i padri della pseudoscienza, di Wolfgang Goethe, poeta
sommo, autore di una teoria dei colori frutto di elucubrazioni prive di
qualunque supporto sperimentale, e rileva il pullulare di teorie
pseudoscientifiche che precedette e accompagnò, in Germania, il trionfo del
Nazismo. Adolf Hitler e i collaboratori più prossimi avrebbero professato, è
stato provato, dottrine antropologiche cariche di valenze esoteriche,
astrologiche, satanistiche, le dottrine “scientifiche” che portarono ai campi
di sterminio, che più di uno dei sodali del Füherer componeva alla familiarità
con pratiche occulte, ad inverosimili regimi vegetariani, motivati con le più
colorite elucubrazioni biologiche. Fu nel tripudio di maghe e streghe che
preparò l’apocalisse nazista che Steiner enunciò la propria dottrina, che
proclamò costituire il completamento dell’ opera scientifica di Goethe, fu in
quella temperie che il veggente germanico raccolse i propri seguaci e dettò
quel prontuario per una nuova agricoltura, l’agricoltura “biodinamica”, che,
dimenticate le opere sull’iniziazione spiritica e gli incontri con Satana, lo
avrebbero elevato al rango di maestro di una delle più diffuse tra le “fedi”
agricole alternative.
Siccome sarebbe improprio, peraltro, di una storia della
scienza, profondersi nella descrizione delle applicazioni ignorando le
fondamenta di una dottrina che si proclama, con sconcertante candore, autentica
nuova scienza, visitata qualche azienda degli adepti e letti gli opuscoli
donatigli con profusione, chi scrive si proponeva di penetrare le opere
cardinali del maestro germanico, i pilastri di quella “antroposofia” che
avrebbe unito, gli appariva dalle prime impressioni, una nuova antropologia ad
una nuova astronomia, proponendo una dottrina originale sui rapporti tra l’uomo
e il cosmo, tra l’uomo e l’uomo, tra l’uomo e gli altri viventi del Pianeta, le
piante e gli animali. Propostasi l’incombenza affrontava la lettura dell’immensa biblioteca lasciata ai posteri dal mago tedesco, un’impresa estenuante quanto nessuna affrontata da un lettore di pure provata pazienza. Autentico occultista, Steiner scrive migliaia di pagine assolutamente occulte: ripetendo all’infinito le medesime cose, di cui non si capisce, sostanzialmente, nulla. Sorprendente eccezione le pagine in cui, sfogliatene duecento invano, si giunge all’incontro del mago con Satana, con Lucifero o Arimane (il dio del male della tradizione persiana) descritti con tale vivacità e pulsante simpatia da dover credere che il vate tedesco li abbia realmente frequentati nella saletta riservata della birreria di Monaco in cui il discepolo avrebbe spiegato ai primi camerati come realizzare i propositi che sancirà l’inno della Wehrmacht: “Oggi è nostra la Germania, domani lo sarà il mondo intero.”
Nelle sfide sulle frontiere della conoscenza non si può cedere, neppure al negromante che occulti le proprie verità in mille e mille pagine di banali ripetizioni. Esaminati, vincendo il fastidio, una decina di volumi, da Teosofia a Iniziazione, da I gradi della conoscenza superiore a Cosmologia, religione e filosofia, sfogliate mille pagine di elucubrazioni incomprensibili allietate, purtroppo raramente, dall’incontro di un gioviale collaboratore di Satana, il lettore tenace approdava, affrontata La scienza occulta nelle sue linee generali ( Milano 1969), a pagine che lo stupivano per la propria chiarezza, la chiarezza con cui il mago tedesco narra le vicende del popolamento della Terra. Non è la chiarezza che si potrebbe pretendere da un genetista con cattedra a Cambridge, i dettagli sono del tutto incomprensibili, ma l’ipotesi essenziale delle modalità con cui il nostro pianeta sarebbe stato abitato sono inequivocabili: al tempo di Atlantide, il continente primitivo dissoltosi, secondo i maghi antichi, tra le onde, tra gli abitanti della Terra avrebbero potuto distinguersi quelli incarnatisi da spiriti provenienti dal Sole, da Mercurio, Venere, Marte, Giove. Tra le provenienze diverse sarebbero sussistite, però, diversità invalicabili: alcune di queste etnie, forse è più proprio il termine “razze”, avrebbero posseduto, infatti, i semi della propria evoluzione futura, altre no. Il lettore più tenace non riesce a comprendere perché i più evoluti sarebbero stati pronti ad accogliere i segreti di Cristo (che il vate non si premura di spiegare quali siano), gli altri sarebbero stati irreparabilmente vincolati alla signoria di Lucifero, dal quale avrebbero assunto tutti i possibili vizi e cattive abitudini, tanto ricolmi di cattiveria da potersi accendere, spiega l’erede di Faust, come fiammiferi Minerva. Le differenze, incolmabili, si sarebbero conservate nei millenni successivi: abbandonando il continente che naufragava gli uomini si sarebbero divisi, così, in uomini evoluti e uomini “primordiali” essenzialmente inferiori ai primi (pagg. 207-221). Non è difficile immaginare che scoprire la prova “scientifica” dell’esistenza di uomini “superiori” e di uomini “inferiori” sarebbe stato “burro e marmellata” per il caporale Adolf.
Questa l’essenza della cosmogonia del negromante teutonico, stabilire numero e facoltà degli spiriti che si sarebbero preoccupati del trasferimento dei primi germi umani dal sole o dai suoi pianeti, sulla terra, sarebbe, peraltro, impresa altrettanto defatigante che vana, menzionandone, il profeta tedesco, tanti che è del tutto probabile che egli stesso sia mai riuscito, nell’ebbrezza dell’estasi onirica, a contarli. Quanto il lettore può attestare è che il mago stesso si sofferma, con comprensibile compiacimento, solo sugli incontri con quelli di autorevolezza superiore: Lucifero, Arimane e un arcangelo in cui, seppure degradato a uscire dei regni ultraterreni, pare doversi riconoscere Satana.
Dai principi cosmologici dirigendoci all’applicazione agronomica si può rilevare che chi abbia penetrato le ipotesi fisiche e astronomiche concepite dai maestri del sapere greco, latino e medievale per spiegare il potere degli astri sui tempi e sull’entità delle produzioni della terra, reperisce nella dottrina agraria di Steiner il più variopinto caleidoscopio di elucubrazioni originali, frutto dell’immaginazione più feconda, e di concezioni remote, confusamente combinate e costrette al più disordinato sincretismo. Basti ricordare che l’astrologia agraria che gli autori georgici greci avevano tratto dai testi astronomici persiani identificava la chiave delle influenze astrali sulle funzioni biologiche nel moto dei pianeti, che Virgilio attribuisce una funzione pre- minente alle costellazioni dello Zodiaco, che sulle fondamenta di un’ingegnosa interpretazione di Aristotele i dotti medievali assegnano il ruolo essenziale alla luna, nella quale additano la mediatrice degli influssi di tutte le stelle e di tutti i pianeti. Tra le dottrine astrologiche del passato Steiner non sceglie lucidamente, mescola confusamente. Proclama che la fertilità della terra sarebbe funzione delle influenze astrali che la pervaderebbero, e si premura di insegnare all’agricoltore come procedere perché i suoi campi assorbano la maggiore quantità di energia cosmica, convertendosi in efficaci accumulatori di forze siderali.
L’influenza degli astri sui corpi terrestri si dirigerebbe con maggiore o minore intensità, secondo l’ispiratore del Führer, sui minerali, sui vegetali, sugli animali, ordinati, secondo la sua dot- trina, in una gerarchia continua, nella quale alcuni minerali sarebbero tanto vicini ai vegetali, e alcuni vegetali tanto prossimi agli animali, che tra un uomo e un sasso sussisterebbe una successione continua di esseri intermedi. Cimentandosi nelle più ardite elucubrazioni pseudofisiche e pseudobiologiche dalla propria idea della gerarchia del mondo naturale Steiner desume la possibilità di catturare gli influssi astrali negli organi di particolari animali ripieni delle parti di certi vegetali. Una vescica di cervo ripiena di speciali fiori in putrefazione costituirebbe il più funzionale accumulatore di influssi cosmici, un’ efficacia analoga presenterebbe un cranio di bovino ricolmo di cortecce marcescenti. Interrati in autunno, gli accumulatori astrali raccoglierebbero, durante l’inverno, il periodo di stasi della vita, benefici raggi cosmici, che l’agricoltore potrebbe assicurare alla terra estraendo dal suolo, in primavera, vesciche e bucefali e cospargendo i campi del prezioso putridume, tanto meno costoso del solfato di ammonio o del perfosfato di calcio ma tanto più efficace.
Per soddisfare esigenze diverse delle piante l’agricoltore potrebbe raccogliere i raggi stellari in una tinozza d’acqua pura in cui versasse, al lume delle stelle, sabbia, il più inerte dei minerali, anch’ essa tanto meno costosa dell’urea e del nitrato di calcio, agitando vigorosamente con un ramaiolo per favorire l’assorbimento dei raggi stellari, convertendo la sabbia, secondo il titolo della canzone americana, in polvere di stelle, che eserciterebbe sulle piante i poteri più straordinari. I procedimenti escogitati Steiner per accrescere, dirigendovi il flusso degli astri, la fecondità della terra, non si esauriscono nelle procedure menzionate, che chi scrive reputa sufficienti a dimostrare l’essenza della dottrina agrologica del discepolo posticcio di Mefistofele.
Rifondare la filosofia dell’Occidente
Nella storia dei tentativi di definire le fondamenta scientifiche sulle quali costruire l’edificio di una nuova agricoltura fissa una data significativa la pubblicazione del volume che Miguel Altieri propone, nel 1987, negli Stati Uniti, con il titolo di Agroecology, che un editore padovano traduce, nel 1991, presentandolo, con le parole altisonanti del curatore, come «la bibbia e il manuale della nuova agricoltura», due titoli che il testo vanterebbe siccome della nuova agricoltura proporrebbe, secondo la stesso curatore, «i fondamenti scientifici e filosofici».
Per non mancare il conseguimento di obiettivi tanto ambiziosi l’autore ha affidato i due capitoli iniziali ad una studiosa di letteratura agronomica, Susanna Hecht, e a un cultore di studi epistemologici, Richard Norgaard, che negli stessi capitoli si producono in quello che, nella composita, e solitamente ripetitiva, letteratura sull’ agricoltura “alternativa”, deve probabilmente considerarsi lo sforzo più impegnativo di fondare filosofica- mente i cardini teorici delle procedure che Artieri reputa urgente sostituire alle pratiche dell’agricoltura tradizionale dell’Occidente. Enucleando l’essenza delle argomentazioni non del tutto lineari dei coadiutori verifichiamo che si fondano su due caposaldi, uno infisso nel terreno della storia della scienza, uno in quello della storia dell’agronomia. Il primo consiste nell’asserzione che la scienza occidentale, la scienza di cui, ignorando Bacone e Galileo, Norgaard riconosce il padre in Newton, avrebbe convertito l’universo, totalità di elementi in cui ogni entità fisica e chimica è correlata a tutte le altre, in macchina costituita da mille congegni, ciascuno dei quali sarebbe del tutto indipendente da ogni altro. Il secondo corrisponde all’identificazione della storia dell’agricoltura occidentale nella storia della monosuccessione (che definisce “monocultura”), una peculiarità che porrebbe l’agricoltura occidentale in insanabile contrasto con quella dei popoli primitivi, in primo luogo quelli viventi nelle aree tropicali, che avrebbero elaborato cento sistemi colturali diversi, accomunati dalla peculiarità di realizzare combinazioni di piante di grande varietà: cento associazioni, in climi e suoli diversi, di mille specie botaniche, accudite secondo procedimenti molteplici quanto molteplici sono le combinazioni di clima, terreno e specie vegetali.
Impiegati congiuntamente, gli assiomi dell’analisi di Norgaard e Hecht spiegherebbero, innanzitutto, come l’agronomia occidentale, una disciplina figlia, anch’essa, della meccanica di Newton, avrebbe conseguito la capacità di realizzare, su un ettaro di terra, produzioni mostruose di mais, grano o barbabietole, nell’assoluto disinteresse per tutte le conseguenze indirette del risultato conseguito. Quelle conseguenze, l’inquinamento delle falde freatiche, lo sterminio delle specie vegetali e degli insetti costituenti flora e fauna spontanea, sarebbero tanto gravi da indurre a prevedere l’impossibilità di protrarre oltre limiti temporali angusti uno sfruttamento tanto intensivo e innaturale delle risorse agrarie. Gli stessi postulati spiegherebbero, in secondo luogo, il disprezzo dell’agronomia europea per i sistemi agricoli dei popoli primitivi, ancora ampiamente praticati nei paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, tutti frutto della funzionale interazione tra l’opera dell’uomo, le costanti climatiche, la natura dei suoli, le varietà coltivate, le specie spontanee, vegetali e animali, viventi in competizione a quelle coltivate. Se Newton ha fondato una visione fuorviante della realtà naturale, da quella visione l’agronomia europea avrebbe ricavato i principi di una scienza letale, che mostrerebbe la propria irrazionalità appena la si comparasse alle agricolture dei popoli “selvaggi”, fondate sull’ armonica interazione tra l’opera umana e le forze vitali della natura.
La conseguenza capitale della duplice constatazione sarebbe la necessità di sostituire all’agronomia classica una nuova disciplina, l’agroecologia, una disciplina impegnata a considerare l’insieme delle interazioni dell’attività agricola, in ciascun campo coltivato, con il clima, il suolo, i vegetali spontanei e gli animali che competono con l’uomo per appropriarsi dei frutti della terra. La nuova disciplina dovrebbe considerare, ancora, i fattori culturali e sociali che condizionano l’opera del coltivatore, quindi il patrimonio di conoscenze, i rapporti di proprietà e di uso della terra, la disponibilità di capitali, un insieme di fattori che l’agronomia occidentale avrebbe sempre ignorato.
Semplificazione metodologica, semplicismo dottrinale
Le ragioni filosofiche addotte a dimostrare la necessità di fondare la scienza auspicata non possono non indurre a riflettere: la riflessione sui due testi non può che confermare la schematicità della visione epistemologica di Norgaard, la sostanziale ignoranza, da parte della Hecht, della storia dell’agronomia europea. Il primo, epistemologo dalle propensioni semplificatrici, pare immaginare che i padri della scienza occidentale considerassero realmente il mondo naturale il gabinetto di fisica popolato di macchine pneumatiche, pendoli, barometri e alambicchi. Chi ne abbia studiato le opere, una fatica cui l’epistemologo Norgaard si è felicemente sottratto, non potrà mai attribuire a Galileo e a Bacone, né, aggiungiamo, a Cartesio, la candida ingenuità di immaginare il mondo naturale come una macchina scomponibile in cento apparecchi indipendenti: proposero di considerarlo tale per analizzare ogni fenomeno, isolandolo sperimentalmente, con le modalità che consentissero di identificarne il meccanismo, nel convincimento che la comprensione delle leggi che regolano i fenomeni più semplici avrebbero permesso di mirare a quella dei fenomeni più complessi, quelli che metodologicamente possono considerarsi la sommatoria di una molteplicità di fenomeni semplici, la cui legge consiste nel risultato aritmetico dell’ operatività di una pluralità di leggi diverse. Può identificarsi in questa astrazione metodologica la diversità essenziale della scienza occidentale dalle concezioni scientifiche elaborate da popoli differenti alle latitudini diverse del tempo e del planisfero. La scelta metodologica dell’astrazione ha certamente determinato una visione semplificata del mondo naturale, ma la semplificazione ha mostrato una straordinaria proficuità sperimentale, e solo chi non conosca la storia della filosofia occidentale può, confondendo il metodo di indagine con l’oggetto di studio, dichiarare che la visione dell’universo del pensiero occidentale sia schematica e semplicistica. Ha mai saputo, il professor Norgaard, di un volumetto dal titolo Discours de la méthode?
La dinamica dei sistemi, la metodologia che si propone di descrivere l’interazione di centinaia di fenomeni di natura diversa, fisici, chimici, biologici, è creatura genuina della scienza occidentale. Può meravigliare che non sia stata escogitata da Newton, o da Leibniz, solo chi non percepisca che per renderne possibile il concepimento, se non la concreta applicazione, era necessaria una mole immensa di scoperte preliminari nelle sfere specifiche dello scibile scientifico, di cui sarebbe stato impossibile comporre i risultati prima che ciascuna avesse raggiunto, astraendo e isolando, il livello di conoscenze che la scienza ha raggiunto a metà del Ventesimo secolo. Ma, ricondotta la dinamica dei sistemi alla matrice della scienza occidentale, anche l’esigenza di escogitare una scienza nuova, l’agroecologia, che a differenziare, sul terreno epistemologico, dall’agronomia classica, sarebbe il ricorso metodologico alla dinamica dei sistemi, con la considerazione delle interrelazioni della coltivazione con l’ambiente naturale, i vegetali spontanei e gli animali parassiti, si risolve nella saccente violazione del suggerimento dei dotti antichi per cui entia non sunt multiplicanda sine necessitate (è necessaria, per il professor Norgaard, la traduzione?). Conferma il rilievo la lettura del manuale di qualunque agronomo che pure si professi continuatore della disciplina tradizionale, che considera la stessa molteplicità di connessioni che Altieri proclama peculiarità della scienza di cui si dichiara, con goliardico sussiego, il fondatore.
Storia della monosuccessione tra le sponde dell’Atlantico
Se la visione della scienza occidentale di Richard Norgaard è quantomeno semplificatoria, si è costretti a definire banale l’idea della storia dell’agronomia occidentale di Susanna Hecht. La storia dell’agronomia occidentale non è, infatti, la storia della monocultura, è la storia della rotazione, e dell’integrazione, attraverso la rotazione, delle colture e degli allevamenti. Può convertirla nella storia della monocultura solo chi ignori venti secoli di letteratura agronomica, una lacuna che non si vorrebbe attribuire a chi vanta i titoli di docente di storia della letteratura agraria. Scusiamo la lacuna attribuendola all’educazione statunitense: l’agricoltura degli Stati Uniti precedette di cento anni quella europea nell’opzione della monocultura, ma chi insegna la storia della letteratura agraria senza avere mai letto gli agronomi europei dovrebbe ricordare che tributando, nel 1850, un successo clamoroso alle traduzioni del capolavoro di Liebig, gli agronomi statunitensi si professarono partecipi della cultura agraria europea: gli agricoltori dell’Unione stavano già dimostrando le propensioni incondizionate per la “monocultura” che avrebbero dato corpo all’agricoltura occidentale della seconda metà del Novecento, gli studiosi di agricoltura non avevano ancora enucleato da quelle preferenze i principi di un’agronomia diversa da quella della sponda orientale dell’Atlantico.
Suggeriamo caldamente a Susanna Hecht l’utile fatica di leggere Columella, Agostino Gallo, Olivier de Serres, Arthur Young e Albrecht Thaer: verificherà vastità e penetrazione delle argomentazioni naturalistiche, giuridiche, economiche, con le quali i maestri dell’agronomia dell’Occidente hanno sempre compendiato la descrizione delle pratiche di coltura, si convincerà dell’inutilità di creare una scienza nuova per comprendere nell’alveo dell’agronomia i fattori economici e sociali che ritiene che l’agronomia occidentale abbia, incomprensibilmente, trascurato. Legga e verifichi. Fosse fondato, peraltro, il dubbio delle difficoltà della dottoressa a misurarsi con i testi latini, francesi e tedeschi, la invitiamo a leggere almeno gli scrittori agrari inglesi del Settecento. Non incontrerà ostacoli insormontabili, e troverà nelle loro pagine tanto trifoglio, rape foraggere e pascoli verdeggianti da dimenticare gli orti dei selvaggi per i quali ferve di passione il suo cuore.
Seppure abbia affidato ai due collaboratori il compito di fissare i postulati essenziali, filosofici e storici, della scienza che intende fondare, Altieri non manca, nei capitoli che stila personalmente, di aggiungere, agli argomenti che di-mostrerebbero l’urgenza di edificare la nuova disciplina, ragioni ulteriori, ragioni più specificamente agronomiche. Addita la più significativa nella constatazione dell’insuccesso che sarebbe seguito al tra- pianto delle pratiche dell’agronomia occidentale nei continenti dalle tradizioni diverse. Dovunque fosse stata estrapolata, l’agronomia occidentale non avrebbe prodotto che indebitamento dei contadini, sottoalimentazione, disastri ambientali. L’asserzione suscita un appunto, il rilievo dell’arbitrarietà di denunciare il fallimento dell’agronomia occidentale nei continenti estranei alla civiltà europea senza considerare che Asia, Africa e America meridionale non hanno adottato, nell’ultimo secolo, solo l’agronomia europea, ma l’intero contesto della scienza dell’ Occidente, quindi la medicina europea, con il suo potere di ridurre drasticamente, con vaccini e antibiotici, la mortalità umana, in particolare quella infantile, la fisica e l’elettronica, quindi le fondamenta teoriche per produrre automobili e televisori, e la chimica, quindi la tecnologia per produrre combustibili liquidi e materie plastiche. Con la scienza e la tecnologia europee le società asiatiche, africane, latino-americane, si sono appropriate di criteri e moduli di vita europei, primo tra tutti il ripudio dell’ agricoltura di autoconsumo, che ha determinato la necessità di produrre grandi quantità di derrate per alimentare i mercati delle città, dilatatesi senza misura quale conseguenza diretta dell’ adozione del modello della società occidentale.
La Rivoluzione verde: i dati e le chimere
Che la diffusione, sull’intero planisfero, del modello della civiltà occidentale, forse la più radicale delle rivoluzioni della storia, sia stata bene o male è arduo stabilire. Modificando i criteri, etici, politici, economici, secondo i quali si tenti la valutazione, il giudizio può mutare radicalmente: una risposta categorica può pronunciare solo chi abbia il dono di convincimenti felicemente immuni dal dubbio critico. Gode del privilegio Miguel Altieri, che professando il rimpianto più accorato per le primitive società dell’autoconsumo, pronuncia l’arringa più magniloquente contro l’agronomia occidentale, che consente a tre agricoltori di alimentare novantasette abitanti delle città. L’idillio, che vagheggia, della famiglia indiana che condivide la capanna con il bufalo e le galline, vivendo frugalmente dei prodotti di un fazzoletto di risaia, è seducente, ma quale fondatore dell’agroecologia, dovrebbe verificare, in ottemperanza ai canoni della nuova scienza, gli elementi economici, giuridici, sociali dell’attività agricola: considerandoli sarebbe costretto a riconoscere che la famiglia dell’ oleografia vive nella cieca soggezione ai notabili locali, nella schiavitù all’usura, alla mortalità infantile a due cifre percentuali, alle epidemie ricorrenti di tifo, vaiolo, colera. Si può ritenere che la soggezione al marajà e al vaiolo sia ripagata dall’assenza della schiavitù all’automobile e alla televisione, ma accetterebbe di vivere, il professor Altieri, senza automobile e senza televisore?
Imporrebbe, secondo Altieri, la prova capitale del fallimento dell’agronomia occidentale sui continenti cui sarebbe stata tradizionalmente estranea l’insuccesso della Rivoluzione verde, la diffusione, in Asia, soprattutto in India e in Cina, e in America meridionale, delle sementi selezionate da Norman Borlaug e dai continuatori. A dimostrare il fallimento Altieri cita un profluvio di autorevoli studiosi che avrebbero dimostrato che quelle sementi non sarebbero risultate più produttive di quelle tradizionali, che si sarebbero dimostrate capaci di svilupparsi solo sui suoli migliori, che avrebbero favorito i coltivatori ricchi, in grado di acquistare motopompe e concimi, che i campi in cui sarebbero state coltivate sarebbero stati investiti da disastrose fitopatie, causa di apocalittici tracolli produttivi. È irriverente supporre che tanta folla di studiosi abbia denunciato fenomeni immaginari. Un processo che ha mutato il volto di interi continenti non avrebbe potuto realizzarsi senza disfunzioni: abbiamo rilevato le più gravi nell’analisi di Conway, autore di una rievocazione della Rivoluzione verde di diversa penetra- zione e di non comparabile obiettività. Al di là, peraltro, dell’ arbitrarietà dei rilievi, sorprende come tanto autorevole consesso, e lo scienziato che ne riassume il pensiero, non abbiano operato il computo elementare che dimostra che Cina e India, le protagoniste della Rivoluzione verde in Asia, contavano, prima del suo inizio, una popolazione complessiva appena superiore al miliardo, che viveva della disponibilità alimentare, rispettivamente, di 1.636 e di 2.073 calorie quotidiane, che al termine della vicenda i due paesi sfiorano, insieme, i tre miliardi di abitanti, un’ entità che si avvicina a metà della popolazione del Pianeta, i qua- li possono contare su disponibilità alimentari equivalenti a 2.972 e, rispettivamente, a 2.466 calorie al giorno.
Si può serenamente sfidare il professor Altieri, e lo stuolo d gli studiosi di cui cita il pensiero, a dimostrare che l’immenso mutamento di disponibilità possa essere attribuito a eventi diversi dalla Rivoluzione verde. Confuta la veridicità delle cifre? L’abisso tra le tre coppie di dati è tale che, fossero arbitrarie le sti- me degli organismi internazionali, la genetica vegetale moderna, elemento integrante dell’agronomia occidentale, matrice della Rivoluzione verde, avrebbe prestato, in ogni caso, il contributo essenziale all’aumento della produzione agricola più ingente e più rapido che la storia dell’uomo abbia registrato nei dodicimila anni dalla transizione dalla caccia e raccolta alla coltivazione e all’allevamento.
Avrebbero potuto fornire un contributo equivalente i sistemi agricoli delle popolazioni primitive, quelli che Altieri rimpiange tanto accoratamente? La risposta non può che essere negativa: ecologicamente ammirevoli, per i devoti perfetti, quei sistemi, frutto di sedimentazione millenaria, non erano sprovveduti di capacità di evoluzione, ma i loro tempi di evoluzione erano tempi secolari. Alla triplicazione della produzione cerealicola che ha accompagnato, fortunosamente quanto si voglia, il raddoppio della popolazione umana negli ultimi sei decenni non erano in grado di prestare alcun contributo. Senza i frumenti di Norman Borlaug, tra il 1967 e il 1969 solo in India si sarebbero contati duecento milioni di morti di fame. Il prezzo inevitabile per la conservazione dell’agricoltura tradizionale? Dubito che, seduto davanti al barbercue straripante di hamburgers, il professor Altieri rimpianga che quel prezzo non sia stato pagato.
Nelle sfide sulle frontiere della conoscenza non si può cedere, neppure al negromante che occulti le proprie verità in mille e mille pagine di banali ripetizioni. Esaminati, vincendo il fastidio, una decina di volumi, da Teosofia a Iniziazione, da I gradi della conoscenza superiore a Cosmologia, religione e filosofia, sfogliate mille pagine di elucubrazioni incomprensibili allietate, purtroppo raramente, dall’incontro di un gioviale collaboratore di Satana, il lettore tenace approdava, affrontata La scienza occulta nelle sue linee generali ( Milano 1969), a pagine che lo stupivano per la propria chiarezza, la chiarezza con cui il mago tedesco narra le vicende del popolamento della Terra. Non è la chiarezza che si potrebbe pretendere da un genetista con cattedra a Cambridge, i dettagli sono del tutto incomprensibili, ma l’ipotesi essenziale delle modalità con cui il nostro pianeta sarebbe stato abitato sono inequivocabili: al tempo di Atlantide, il continente primitivo dissoltosi, secondo i maghi antichi, tra le onde, tra gli abitanti della Terra avrebbero potuto distinguersi quelli incarnatisi da spiriti provenienti dal Sole, da Mercurio, Venere, Marte, Giove. Tra le provenienze diverse sarebbero sussistite, però, diversità invalicabili: alcune di queste etnie, forse è più proprio il termine “razze”, avrebbero posseduto, infatti, i semi della propria evoluzione futura, altre no. Il lettore più tenace non riesce a comprendere perché i più evoluti sarebbero stati pronti ad accogliere i segreti di Cristo (che il vate non si premura di spiegare quali siano), gli altri sarebbero stati irreparabilmente vincolati alla signoria di Lucifero, dal quale avrebbero assunto tutti i possibili vizi e cattive abitudini, tanto ricolmi di cattiveria da potersi accendere, spiega l’erede di Faust, come fiammiferi Minerva. Le differenze, incolmabili, si sarebbero conservate nei millenni successivi: abbandonando il continente che naufragava gli uomini si sarebbero divisi, così, in uomini evoluti e uomini “primordiali” essenzialmente inferiori ai primi (pagg. 207-221). Non è difficile immaginare che scoprire la prova “scientifica” dell’esistenza di uomini “superiori” e di uomini “inferiori” sarebbe stato “burro e marmellata” per il caporale Adolf.
Questa l’essenza della cosmogonia del negromante teutonico, stabilire numero e facoltà degli spiriti che si sarebbero preoccupati del trasferimento dei primi germi umani dal sole o dai suoi pianeti, sulla terra, sarebbe, peraltro, impresa altrettanto defatigante che vana, menzionandone, il profeta tedesco, tanti che è del tutto probabile che egli stesso sia mai riuscito, nell’ebbrezza dell’estasi onirica, a contarli. Quanto il lettore può attestare è che il mago stesso si sofferma, con comprensibile compiacimento, solo sugli incontri con quelli di autorevolezza superiore: Lucifero, Arimane e un arcangelo in cui, seppure degradato a uscire dei regni ultraterreni, pare doversi riconoscere Satana.
Dai principi cosmologici dirigendoci all’applicazione agronomica si può rilevare che chi abbia penetrato le ipotesi fisiche e astronomiche concepite dai maestri del sapere greco, latino e medievale per spiegare il potere degli astri sui tempi e sull’entità delle produzioni della terra, reperisce nella dottrina agraria di Steiner il più variopinto caleidoscopio di elucubrazioni originali, frutto dell’immaginazione più feconda, e di concezioni remote, confusamente combinate e costrette al più disordinato sincretismo. Basti ricordare che l’astrologia agraria che gli autori georgici greci avevano tratto dai testi astronomici persiani identificava la chiave delle influenze astrali sulle funzioni biologiche nel moto dei pianeti, che Virgilio attribuisce una funzione pre- minente alle costellazioni dello Zodiaco, che sulle fondamenta di un’ingegnosa interpretazione di Aristotele i dotti medievali assegnano il ruolo essenziale alla luna, nella quale additano la mediatrice degli influssi di tutte le stelle e di tutti i pianeti. Tra le dottrine astrologiche del passato Steiner non sceglie lucidamente, mescola confusamente. Proclama che la fertilità della terra sarebbe funzione delle influenze astrali che la pervaderebbero, e si premura di insegnare all’agricoltore come procedere perché i suoi campi assorbano la maggiore quantità di energia cosmica, convertendosi in efficaci accumulatori di forze siderali.
L’influenza degli astri sui corpi terrestri si dirigerebbe con maggiore o minore intensità, secondo l’ispiratore del Führer, sui minerali, sui vegetali, sugli animali, ordinati, secondo la sua dot- trina, in una gerarchia continua, nella quale alcuni minerali sarebbero tanto vicini ai vegetali, e alcuni vegetali tanto prossimi agli animali, che tra un uomo e un sasso sussisterebbe una successione continua di esseri intermedi. Cimentandosi nelle più ardite elucubrazioni pseudofisiche e pseudobiologiche dalla propria idea della gerarchia del mondo naturale Steiner desume la possibilità di catturare gli influssi astrali negli organi di particolari animali ripieni delle parti di certi vegetali. Una vescica di cervo ripiena di speciali fiori in putrefazione costituirebbe il più funzionale accumulatore di influssi cosmici, un’ efficacia analoga presenterebbe un cranio di bovino ricolmo di cortecce marcescenti. Interrati in autunno, gli accumulatori astrali raccoglierebbero, durante l’inverno, il periodo di stasi della vita, benefici raggi cosmici, che l’agricoltore potrebbe assicurare alla terra estraendo dal suolo, in primavera, vesciche e bucefali e cospargendo i campi del prezioso putridume, tanto meno costoso del solfato di ammonio o del perfosfato di calcio ma tanto più efficace.
Per soddisfare esigenze diverse delle piante l’agricoltore potrebbe raccogliere i raggi stellari in una tinozza d’acqua pura in cui versasse, al lume delle stelle, sabbia, il più inerte dei minerali, anch’ essa tanto meno costosa dell’urea e del nitrato di calcio, agitando vigorosamente con un ramaiolo per favorire l’assorbimento dei raggi stellari, convertendo la sabbia, secondo il titolo della canzone americana, in polvere di stelle, che eserciterebbe sulle piante i poteri più straordinari. I procedimenti escogitati Steiner per accrescere, dirigendovi il flusso degli astri, la fecondità della terra, non si esauriscono nelle procedure menzionate, che chi scrive reputa sufficienti a dimostrare l’essenza della dottrina agrologica del discepolo posticcio di Mefistofele.
Rifondare la filosofia dell’Occidente
Nella storia dei tentativi di definire le fondamenta scientifiche sulle quali costruire l’edificio di una nuova agricoltura fissa una data significativa la pubblicazione del volume che Miguel Altieri propone, nel 1987, negli Stati Uniti, con il titolo di Agroecology, che un editore padovano traduce, nel 1991, presentandolo, con le parole altisonanti del curatore, come «la bibbia e il manuale della nuova agricoltura», due titoli che il testo vanterebbe siccome della nuova agricoltura proporrebbe, secondo la stesso curatore, «i fondamenti scientifici e filosofici».
Per non mancare il conseguimento di obiettivi tanto ambiziosi l’autore ha affidato i due capitoli iniziali ad una studiosa di letteratura agronomica, Susanna Hecht, e a un cultore di studi epistemologici, Richard Norgaard, che negli stessi capitoli si producono in quello che, nella composita, e solitamente ripetitiva, letteratura sull’ agricoltura “alternativa”, deve probabilmente considerarsi lo sforzo più impegnativo di fondare filosofica- mente i cardini teorici delle procedure che Artieri reputa urgente sostituire alle pratiche dell’agricoltura tradizionale dell’Occidente. Enucleando l’essenza delle argomentazioni non del tutto lineari dei coadiutori verifichiamo che si fondano su due caposaldi, uno infisso nel terreno della storia della scienza, uno in quello della storia dell’agronomia. Il primo consiste nell’asserzione che la scienza occidentale, la scienza di cui, ignorando Bacone e Galileo, Norgaard riconosce il padre in Newton, avrebbe convertito l’universo, totalità di elementi in cui ogni entità fisica e chimica è correlata a tutte le altre, in macchina costituita da mille congegni, ciascuno dei quali sarebbe del tutto indipendente da ogni altro. Il secondo corrisponde all’identificazione della storia dell’agricoltura occidentale nella storia della monosuccessione (che definisce “monocultura”), una peculiarità che porrebbe l’agricoltura occidentale in insanabile contrasto con quella dei popoli primitivi, in primo luogo quelli viventi nelle aree tropicali, che avrebbero elaborato cento sistemi colturali diversi, accomunati dalla peculiarità di realizzare combinazioni di piante di grande varietà: cento associazioni, in climi e suoli diversi, di mille specie botaniche, accudite secondo procedimenti molteplici quanto molteplici sono le combinazioni di clima, terreno e specie vegetali.
Impiegati congiuntamente, gli assiomi dell’analisi di Norgaard e Hecht spiegherebbero, innanzitutto, come l’agronomia occidentale, una disciplina figlia, anch’essa, della meccanica di Newton, avrebbe conseguito la capacità di realizzare, su un ettaro di terra, produzioni mostruose di mais, grano o barbabietole, nell’assoluto disinteresse per tutte le conseguenze indirette del risultato conseguito. Quelle conseguenze, l’inquinamento delle falde freatiche, lo sterminio delle specie vegetali e degli insetti costituenti flora e fauna spontanea, sarebbero tanto gravi da indurre a prevedere l’impossibilità di protrarre oltre limiti temporali angusti uno sfruttamento tanto intensivo e innaturale delle risorse agrarie. Gli stessi postulati spiegherebbero, in secondo luogo, il disprezzo dell’agronomia europea per i sistemi agricoli dei popoli primitivi, ancora ampiamente praticati nei paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, tutti frutto della funzionale interazione tra l’opera dell’uomo, le costanti climatiche, la natura dei suoli, le varietà coltivate, le specie spontanee, vegetali e animali, viventi in competizione a quelle coltivate. Se Newton ha fondato una visione fuorviante della realtà naturale, da quella visione l’agronomia europea avrebbe ricavato i principi di una scienza letale, che mostrerebbe la propria irrazionalità appena la si comparasse alle agricolture dei popoli “selvaggi”, fondate sull’ armonica interazione tra l’opera umana e le forze vitali della natura.
La conseguenza capitale della duplice constatazione sarebbe la necessità di sostituire all’agronomia classica una nuova disciplina, l’agroecologia, una disciplina impegnata a considerare l’insieme delle interazioni dell’attività agricola, in ciascun campo coltivato, con il clima, il suolo, i vegetali spontanei e gli animali che competono con l’uomo per appropriarsi dei frutti della terra. La nuova disciplina dovrebbe considerare, ancora, i fattori culturali e sociali che condizionano l’opera del coltivatore, quindi il patrimonio di conoscenze, i rapporti di proprietà e di uso della terra, la disponibilità di capitali, un insieme di fattori che l’agronomia occidentale avrebbe sempre ignorato.
Semplificazione metodologica, semplicismo dottrinale
Le ragioni filosofiche addotte a dimostrare la necessità di fondare la scienza auspicata non possono non indurre a riflettere: la riflessione sui due testi non può che confermare la schematicità della visione epistemologica di Norgaard, la sostanziale ignoranza, da parte della Hecht, della storia dell’agronomia europea. Il primo, epistemologo dalle propensioni semplificatrici, pare immaginare che i padri della scienza occidentale considerassero realmente il mondo naturale il gabinetto di fisica popolato di macchine pneumatiche, pendoli, barometri e alambicchi. Chi ne abbia studiato le opere, una fatica cui l’epistemologo Norgaard si è felicemente sottratto, non potrà mai attribuire a Galileo e a Bacone, né, aggiungiamo, a Cartesio, la candida ingenuità di immaginare il mondo naturale come una macchina scomponibile in cento apparecchi indipendenti: proposero di considerarlo tale per analizzare ogni fenomeno, isolandolo sperimentalmente, con le modalità che consentissero di identificarne il meccanismo, nel convincimento che la comprensione delle leggi che regolano i fenomeni più semplici avrebbero permesso di mirare a quella dei fenomeni più complessi, quelli che metodologicamente possono considerarsi la sommatoria di una molteplicità di fenomeni semplici, la cui legge consiste nel risultato aritmetico dell’ operatività di una pluralità di leggi diverse. Può identificarsi in questa astrazione metodologica la diversità essenziale della scienza occidentale dalle concezioni scientifiche elaborate da popoli differenti alle latitudini diverse del tempo e del planisfero. La scelta metodologica dell’astrazione ha certamente determinato una visione semplificata del mondo naturale, ma la semplificazione ha mostrato una straordinaria proficuità sperimentale, e solo chi non conosca la storia della filosofia occidentale può, confondendo il metodo di indagine con l’oggetto di studio, dichiarare che la visione dell’universo del pensiero occidentale sia schematica e semplicistica. Ha mai saputo, il professor Norgaard, di un volumetto dal titolo Discours de la méthode?
La dinamica dei sistemi, la metodologia che si propone di descrivere l’interazione di centinaia di fenomeni di natura diversa, fisici, chimici, biologici, è creatura genuina della scienza occidentale. Può meravigliare che non sia stata escogitata da Newton, o da Leibniz, solo chi non percepisca che per renderne possibile il concepimento, se non la concreta applicazione, era necessaria una mole immensa di scoperte preliminari nelle sfere specifiche dello scibile scientifico, di cui sarebbe stato impossibile comporre i risultati prima che ciascuna avesse raggiunto, astraendo e isolando, il livello di conoscenze che la scienza ha raggiunto a metà del Ventesimo secolo. Ma, ricondotta la dinamica dei sistemi alla matrice della scienza occidentale, anche l’esigenza di escogitare una scienza nuova, l’agroecologia, che a differenziare, sul terreno epistemologico, dall’agronomia classica, sarebbe il ricorso metodologico alla dinamica dei sistemi, con la considerazione delle interrelazioni della coltivazione con l’ambiente naturale, i vegetali spontanei e gli animali parassiti, si risolve nella saccente violazione del suggerimento dei dotti antichi per cui entia non sunt multiplicanda sine necessitate (è necessaria, per il professor Norgaard, la traduzione?). Conferma il rilievo la lettura del manuale di qualunque agronomo che pure si professi continuatore della disciplina tradizionale, che considera la stessa molteplicità di connessioni che Altieri proclama peculiarità della scienza di cui si dichiara, con goliardico sussiego, il fondatore.
Storia della monosuccessione tra le sponde dell’Atlantico
Se la visione della scienza occidentale di Richard Norgaard è quantomeno semplificatoria, si è costretti a definire banale l’idea della storia dell’agronomia occidentale di Susanna Hecht. La storia dell’agronomia occidentale non è, infatti, la storia della monocultura, è la storia della rotazione, e dell’integrazione, attraverso la rotazione, delle colture e degli allevamenti. Può convertirla nella storia della monocultura solo chi ignori venti secoli di letteratura agronomica, una lacuna che non si vorrebbe attribuire a chi vanta i titoli di docente di storia della letteratura agraria. Scusiamo la lacuna attribuendola all’educazione statunitense: l’agricoltura degli Stati Uniti precedette di cento anni quella europea nell’opzione della monocultura, ma chi insegna la storia della letteratura agraria senza avere mai letto gli agronomi europei dovrebbe ricordare che tributando, nel 1850, un successo clamoroso alle traduzioni del capolavoro di Liebig, gli agronomi statunitensi si professarono partecipi della cultura agraria europea: gli agricoltori dell’Unione stavano già dimostrando le propensioni incondizionate per la “monocultura” che avrebbero dato corpo all’agricoltura occidentale della seconda metà del Novecento, gli studiosi di agricoltura non avevano ancora enucleato da quelle preferenze i principi di un’agronomia diversa da quella della sponda orientale dell’Atlantico.
Suggeriamo caldamente a Susanna Hecht l’utile fatica di leggere Columella, Agostino Gallo, Olivier de Serres, Arthur Young e Albrecht Thaer: verificherà vastità e penetrazione delle argomentazioni naturalistiche, giuridiche, economiche, con le quali i maestri dell’agronomia dell’Occidente hanno sempre compendiato la descrizione delle pratiche di coltura, si convincerà dell’inutilità di creare una scienza nuova per comprendere nell’alveo dell’agronomia i fattori economici e sociali che ritiene che l’agronomia occidentale abbia, incomprensibilmente, trascurato. Legga e verifichi. Fosse fondato, peraltro, il dubbio delle difficoltà della dottoressa a misurarsi con i testi latini, francesi e tedeschi, la invitiamo a leggere almeno gli scrittori agrari inglesi del Settecento. Non incontrerà ostacoli insormontabili, e troverà nelle loro pagine tanto trifoglio, rape foraggere e pascoli verdeggianti da dimenticare gli orti dei selvaggi per i quali ferve di passione il suo cuore.
Seppure abbia affidato ai due collaboratori il compito di fissare i postulati essenziali, filosofici e storici, della scienza che intende fondare, Altieri non manca, nei capitoli che stila personalmente, di aggiungere, agli argomenti che di-mostrerebbero l’urgenza di edificare la nuova disciplina, ragioni ulteriori, ragioni più specificamente agronomiche. Addita la più significativa nella constatazione dell’insuccesso che sarebbe seguito al tra- pianto delle pratiche dell’agronomia occidentale nei continenti dalle tradizioni diverse. Dovunque fosse stata estrapolata, l’agronomia occidentale non avrebbe prodotto che indebitamento dei contadini, sottoalimentazione, disastri ambientali. L’asserzione suscita un appunto, il rilievo dell’arbitrarietà di denunciare il fallimento dell’agronomia occidentale nei continenti estranei alla civiltà europea senza considerare che Asia, Africa e America meridionale non hanno adottato, nell’ultimo secolo, solo l’agronomia europea, ma l’intero contesto della scienza dell’ Occidente, quindi la medicina europea, con il suo potere di ridurre drasticamente, con vaccini e antibiotici, la mortalità umana, in particolare quella infantile, la fisica e l’elettronica, quindi le fondamenta teoriche per produrre automobili e televisori, e la chimica, quindi la tecnologia per produrre combustibili liquidi e materie plastiche. Con la scienza e la tecnologia europee le società asiatiche, africane, latino-americane, si sono appropriate di criteri e moduli di vita europei, primo tra tutti il ripudio dell’ agricoltura di autoconsumo, che ha determinato la necessità di produrre grandi quantità di derrate per alimentare i mercati delle città, dilatatesi senza misura quale conseguenza diretta dell’ adozione del modello della società occidentale.
La Rivoluzione verde: i dati e le chimere
Che la diffusione, sull’intero planisfero, del modello della civiltà occidentale, forse la più radicale delle rivoluzioni della storia, sia stata bene o male è arduo stabilire. Modificando i criteri, etici, politici, economici, secondo i quali si tenti la valutazione, il giudizio può mutare radicalmente: una risposta categorica può pronunciare solo chi abbia il dono di convincimenti felicemente immuni dal dubbio critico. Gode del privilegio Miguel Altieri, che professando il rimpianto più accorato per le primitive società dell’autoconsumo, pronuncia l’arringa più magniloquente contro l’agronomia occidentale, che consente a tre agricoltori di alimentare novantasette abitanti delle città. L’idillio, che vagheggia, della famiglia indiana che condivide la capanna con il bufalo e le galline, vivendo frugalmente dei prodotti di un fazzoletto di risaia, è seducente, ma quale fondatore dell’agroecologia, dovrebbe verificare, in ottemperanza ai canoni della nuova scienza, gli elementi economici, giuridici, sociali dell’attività agricola: considerandoli sarebbe costretto a riconoscere che la famiglia dell’ oleografia vive nella cieca soggezione ai notabili locali, nella schiavitù all’usura, alla mortalità infantile a due cifre percentuali, alle epidemie ricorrenti di tifo, vaiolo, colera. Si può ritenere che la soggezione al marajà e al vaiolo sia ripagata dall’assenza della schiavitù all’automobile e alla televisione, ma accetterebbe di vivere, il professor Altieri, senza automobile e senza televisore?
Imporrebbe, secondo Altieri, la prova capitale del fallimento dell’agronomia occidentale sui continenti cui sarebbe stata tradizionalmente estranea l’insuccesso della Rivoluzione verde, la diffusione, in Asia, soprattutto in India e in Cina, e in America meridionale, delle sementi selezionate da Norman Borlaug e dai continuatori. A dimostrare il fallimento Altieri cita un profluvio di autorevoli studiosi che avrebbero dimostrato che quelle sementi non sarebbero risultate più produttive di quelle tradizionali, che si sarebbero dimostrate capaci di svilupparsi solo sui suoli migliori, che avrebbero favorito i coltivatori ricchi, in grado di acquistare motopompe e concimi, che i campi in cui sarebbero state coltivate sarebbero stati investiti da disastrose fitopatie, causa di apocalittici tracolli produttivi. È irriverente supporre che tanta folla di studiosi abbia denunciato fenomeni immaginari. Un processo che ha mutato il volto di interi continenti non avrebbe potuto realizzarsi senza disfunzioni: abbiamo rilevato le più gravi nell’analisi di Conway, autore di una rievocazione della Rivoluzione verde di diversa penetra- zione e di non comparabile obiettività. Al di là, peraltro, dell’ arbitrarietà dei rilievi, sorprende come tanto autorevole consesso, e lo scienziato che ne riassume il pensiero, non abbiano operato il computo elementare che dimostra che Cina e India, le protagoniste della Rivoluzione verde in Asia, contavano, prima del suo inizio, una popolazione complessiva appena superiore al miliardo, che viveva della disponibilità alimentare, rispettivamente, di 1.636 e di 2.073 calorie quotidiane, che al termine della vicenda i due paesi sfiorano, insieme, i tre miliardi di abitanti, un’ entità che si avvicina a metà della popolazione del Pianeta, i qua- li possono contare su disponibilità alimentari equivalenti a 2.972 e, rispettivamente, a 2.466 calorie al giorno.
Si può serenamente sfidare il professor Altieri, e lo stuolo d gli studiosi di cui cita il pensiero, a dimostrare che l’immenso mutamento di disponibilità possa essere attribuito a eventi diversi dalla Rivoluzione verde. Confuta la veridicità delle cifre? L’abisso tra le tre coppie di dati è tale che, fossero arbitrarie le sti- me degli organismi internazionali, la genetica vegetale moderna, elemento integrante dell’agronomia occidentale, matrice della Rivoluzione verde, avrebbe prestato, in ogni caso, il contributo essenziale all’aumento della produzione agricola più ingente e più rapido che la storia dell’uomo abbia registrato nei dodicimila anni dalla transizione dalla caccia e raccolta alla coltivazione e all’allevamento.
Avrebbero potuto fornire un contributo equivalente i sistemi agricoli delle popolazioni primitive, quelli che Altieri rimpiange tanto accoratamente? La risposta non può che essere negativa: ecologicamente ammirevoli, per i devoti perfetti, quei sistemi, frutto di sedimentazione millenaria, non erano sprovveduti di capacità di evoluzione, ma i loro tempi di evoluzione erano tempi secolari. Alla triplicazione della produzione cerealicola che ha accompagnato, fortunosamente quanto si voglia, il raddoppio della popolazione umana negli ultimi sei decenni non erano in grado di prestare alcun contributo. Senza i frumenti di Norman Borlaug, tra il 1967 e il 1969 solo in India si sarebbero contati duecento milioni di morti di fame. Il prezzo inevitabile per la conservazione dell’agricoltura tradizionale? Dubito che, seduto davanti al barbercue straripante di hamburgers, il professor Altieri rimpianga che quel prezzo non sia stato pagato.
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