di
ALBERTO GUIDORZI
Le dure lezioni del passato
Il secondo millennio che si è da poco chiuso è stato caratterizzato da spaventose carestie ed epidemie. in parte su ampi territori e molto più numerose localmente. Citiamo quella spaventosa del 1314-15 prodromo all’epidemia di peste bubbonica del 1347-51 che secondo dati del U.S. Census Bureau ridusse la popolazione mondiale di 68 - 93 milioni con un calo da 443 a 350–374 milioni.
Sentir parlare oggi di decrescita significa non tener conto della spada di Damocle di tipo demografico che grava sul pianeta.
La popolazione del pianeta è cresciuta lentamente dall’Antichità fino al Medio Evo, è rimasta grossomodo costante nel XIII e XIV sec. per poi crescere fino al XVII ed infine esplodere nel XIX e XX sec. I demografi prevedono 10 miliardi di umani nel 2050 e ben 11,5 nel 2100. Anche se le previsioni sono legate a dei parametri (abbassamento del tasso di natalità) che sono anche loro interpolazioni degli andamenti previsti nei paesi in via di sviluppo, ove si concentrerà l’incremento demografico atteso, i numeri non possono essere misconosciuti.
Infatti come mostrano i dati del diagramma in figura 1, la crescita demografica dell’Oceania inciderà poco, l’Europa calerà, le due Americhe cresceranno di 1/3 ma incideranno relativamente poco, mentre quasi raddoppieranno sia l’Asia (da 4,8 miliardi del 2015 passerà a 5,2 nel 2050 per poi iniziare a diminuire) che l’Africa (da 1,2 passerà a 2,5 miliardi nel 2050 continuando poi ad aumentare fino al 2100). Oggi un uomo su sette è africano, nel 2050 sarà 1 su 5 e nel 2100 si arriverà a 1 su 3; la ragione della crescita abnorme attesa in Africa sta nel suo tasso di natalità che è preventivato ancora in aumento (anche perché i 2/3 della popolazione ha meno di 25 anni), mentre l’Asia è stimata in diminuzione in fatto di natalità. In sintesi saranno Africa e Asia che ospiteranno gran parte degli abitanti della Terra e l’attesa è quella di vederli sempre più migrare verso il continente europeo. Negli ultimi tre decenni sul pianeta siamo aumentati di 2,4 miliardi e nel prossimo trentennio con ogni probabilità ve ne saranno ulteriori 2,4 miliardi. Arriveremo cioè a 10 miliardi se stiamo alla variante mediana delle proiezioni dell’ONU, o, detto in altre parole ci saranno 10.000 persone in più da nutrire ogni ora. Tali trend demografici inducono a non escludere che l’Africa, che già oggi dipende dagli altri continenti per la sua sicurezza alimentare sarà esposta nei prossimi decenni al rischio sempre più rilevante di una catastrofe malthusiana. Anche per tale ragione i grandi granai del mondo debbono continuare ad incrementare l’efficienza dei propri sistemi produttivi per coniugare l’elevata produttività con la sostenibilità ambientale privilegiando le innovazioni nella genetica e nelle tecniche colturali.
Infatti come mostrano i dati del diagramma in figura 1, la crescita demografica dell’Oceania inciderà poco, l’Europa calerà, le due Americhe cresceranno di 1/3 ma incideranno relativamente poco, mentre quasi raddoppieranno sia l’Asia (da 4,8 miliardi del 2015 passerà a 5,2 nel 2050 per poi iniziare a diminuire) che l’Africa (da 1,2 passerà a 2,5 miliardi nel 2050 continuando poi ad aumentare fino al 2100). Oggi un uomo su sette è africano, nel 2050 sarà 1 su 5 e nel 2100 si arriverà a 1 su 3; la ragione della crescita abnorme attesa in Africa sta nel suo tasso di natalità che è preventivato ancora in aumento (anche perché i 2/3 della popolazione ha meno di 25 anni), mentre l’Asia è stimata in diminuzione in fatto di natalità. In sintesi saranno Africa e Asia che ospiteranno gran parte degli abitanti della Terra e l’attesa è quella di vederli sempre più migrare verso il continente europeo. Negli ultimi tre decenni sul pianeta siamo aumentati di 2,4 miliardi e nel prossimo trentennio con ogni probabilità ve ne saranno ulteriori 2,4 miliardi. Arriveremo cioè a 10 miliardi se stiamo alla variante mediana delle proiezioni dell’ONU, o, detto in altre parole ci saranno 10.000 persone in più da nutrire ogni ora. Tali trend demografici inducono a non escludere che l’Africa, che già oggi dipende dagli altri continenti per la sua sicurezza alimentare sarà esposta nei prossimi decenni al rischio sempre più rilevante di una catastrofe malthusiana. Anche per tale ragione i grandi granai del mondo debbono continuare ad incrementare l’efficienza dei propri sistemi produttivi per coniugare l’elevata produttività con la sostenibilità ambientale privilegiando le innovazioni nella genetica e nelle tecniche colturali.
Le dure lezioni del passato
Il secondo millennio che si è da poco chiuso è stato caratterizzato da spaventose carestie ed epidemie. in parte su ampi territori e molto più numerose localmente. Citiamo quella spaventosa del 1314-15 prodromo all’epidemia di peste bubbonica del 1347-51 che secondo dati del U.S. Census Bureau ridusse la popolazione mondiale di 68 - 93 milioni con un calo da 443 a 350–374 milioni.
Da rammentare poi le grandi carestie francesi del 1594-97, 1693-95 e del 1740, le ricorrenti carestie del Bengala (1769-73, 1873-74 e 1942-43), quella del 1845-46 in Irlanda, le carestie sovietiche (1930-32 e 1946-47) e quella cinese del “grande balzo” (1958-61). In Italia le carestie furono più locali che generali. Tuttavia per gli scopi di questa nota è bene ricordare le due carestie europee del 1709 e del 1816 dovute ad eventi climatici anormali, la prima caratterizzata da un gennaio-marzo polare (gelò la laguna di Venezia ed un dipinto del pittore Gabriele Bella lo testifica) e la seconda conosciuta come l’anno senza estate (molto tempo dopo ne fu individuata la causa nell’eruzione del vulcano indonesiano Tambora). In Italia (altrove fece di peggio) piogge torrenziali interessarono gran parte della nazione con fiumi esondati e clima particolarmente freddo per il periodo, con il ghiaccio che addirittura era presente localmente ancora ad agosto. Inoltre la neve che fece la sua comparsa in inverno, era di colore rossastro, a causa delle polveri dell’eruzione. Qualcuno potrebbe pensare che ormai il mondo occidentale sia immune dalle carestie, solo che vivendo in un mondo globalizzato, gli sconvolgimenti dei mercati sono ancora possibili in conseguenza di penurie dettate da andamenti climatici anomali laddove maggiori sono le correnti d’esportazione di derrate. Si ricorda che il mercato delle derrate è dato dai surplus e quindi si tratta di quantità molto limitate rispetto alla produzione totale (le scorte di zucchero sono costituite al massimo dal 20% della produzione mondiale) e quindi sono facilmente influenzabili da piccole variazioni sui mercati e soggette a speculazioni quando si rompe il fragile equilibrio tra domanda ed offerta. Ne abbiamo avuto un esempio nel 2008 quando i prezzi del frumento sono schizzati provocando aumenti del del pane nei paesi del Nord Africa molto tributari dalle importazioni e che hanno generato le conseguenze che ben conosciamo in fatto di sommovimenti politici (le cosiddette “primavere arabe”) e ondate migratorie. A tali aumenti dei prezzi contribuisce in modo sensibile la stessa non-autosufficienza del nostro Paese, la quale ci spinge inevitabilmente ad approvvigionarci sul mercato mondiale con effetti di incremento dei prezzi nelle annate più critiche, il che può mettere a repentaglio la possibilità di paesi in via di sviluppo di approvvigionarsi.
In passato i ricordi storici delle carestie e l’evoluzione della demografia hanno impensierito molti pensatori. Fra di essi ricordiamo Adam Smith il quale nel suo capolavoro La ricchezza delle nazioni ebbe a scrivere che “L’analisi delle penurie e delle carestie che hanno colpito l'Europa negli ultimi due secoli evidenzia che: le penurie non sono mai state frutto di complotti di commercianti di granaglie ma, tranne alcuni casi conseguenti a guerre, sono sempre state prodotte dall'inclemenza del tempo atmosferico mentre le carestie sono sempre state frutto della violenza di governi che con mezzi impropri tentavano di rimediare agli effetti di una penuria”, considerazione che sarà proposta con accenti simili dal Manzoni nel capitolo XII dei Promessi Sposi.
Malthus invece teorizzò che le risorse alimentari crescessero in progressione aritmetica, mentre la popolazione cresceva in progressione geometrica, deducendone che bisognava limitare le nascite onde evitare che la natura facesse il suo corso con la fame e le malattie. Per fortuna le previsioni di Malthus si rivelarono erronee in virtù di due principali eventi e cioè: - da una lato l’emigrazione della popolazione europea verso due continenti pochissimo popolati come le Americhe e l’Australia e che poi produssero cibo alla stregua e molto di più dell’Europa; - dall’altro il miglioramento delle produzioni grazie alle nuove tecniche che aumentarono le rese del lavoro umano e quelle unitarie delle terre (un agricoltore nel 1800 nutriva 4-6 persone, mentre negli anni 2000 ne nutre in media 100). Tuttavia, benché smentite, le paure maltusiane sono oggi spesso riprese. In tal senso occorre ricordare quelle del francese René Dumont, poi candidato “ecologista” alle elezioni presidenziali del 1974, che nel 1966 lanciò l’allarme dicendo che secondo lui eravamo tutti votati alla carestia perché le risorse alimentari crescevano meno della popolazione del terzo mondo. Due le sue soluzioni proposte e cioè da un lato triplicare le produzioni nel corso dei successivi 40 anni (mentre adesso i suoi eredi ecologisti invocano la decrescita); e dall’altro regolamentare le nascite. Nel 1972 fu invece il Club di Roma che rinverdì Malthus proponendo la stabilizzazione della popolazione mondiale. Altra considerazione che sorge di fronte a queste prese di posizione è quella che in ambedue i casi nessuno spiega come e chi decide chi debba vivere e chi soccombere.
In aggiunta a quanto si diceva circa la demografia, bisogna annotare la crescita della speranza di vita che negli ultimi 50 anni è aumentata di 20 anni (da 46 a 70 anni circa). Si prevede che gli ultra sessantenni nel 2050 saranno due miliardi. Molto interessanti sono anche questi dati proiettati al 2050 secondo i quali il rapporto tra il numero di persone attive e quelle > 65 anni passerà da 9 a 4, l’età mediana passerà da 26 a 36 anni e gli ultrasessantenni saranno 1/6 di tutta la popolazione, sorpassando i minori di 5 anni. Quali le conseguenze? Il numero di agricoltori chiamati a nutrire il mondo saranno sempre meno e quindi le “macchine” dovranno moltiplicare il rendimento nel lavoro di chi è rimasto in agricoltura ed il fenomeno sarà il grande stravolgimento del XXI sec. Quindi chi preconizza la diffusione delle imprese famigliari (leggi Carlin Petrini) ed il ritorno all’agricoltura di sussistenza non sa quello che dice, inoltre, coloro i quali non si preoccupano del raggiungimento di un maggior tasso di equilibrio della bilancia commerciale nazionale, quando questa è fortemente in disequilibrio, come ad esempio in Italia, è fuori dal mondo. Certo nelle società invecchiate i bisogni alimentari non cresceranno quantitativamente, ma lo diverranno qualitativamente e noi sappiamo che geneticamente parlando la crescita ponderale della produzione è data accumulando geni presenti nella specie, mentre la qualità ha bisogno di geni nuovi e dato che i metodi di miglioramento di genetica classica sono troppo lenti per i tempi a disposizione, a maggior ragione non sanno quello che si dicono neppure coloro che vorrebbero tarpare le ali alle nuove biotecnologie.
L'inurbamento della popolazione
In passato i ricordi storici delle carestie e l’evoluzione della demografia hanno impensierito molti pensatori. Fra di essi ricordiamo Adam Smith il quale nel suo capolavoro La ricchezza delle nazioni ebbe a scrivere che “L’analisi delle penurie e delle carestie che hanno colpito l'Europa negli ultimi due secoli evidenzia che: le penurie non sono mai state frutto di complotti di commercianti di granaglie ma, tranne alcuni casi conseguenti a guerre, sono sempre state prodotte dall'inclemenza del tempo atmosferico mentre le carestie sono sempre state frutto della violenza di governi che con mezzi impropri tentavano di rimediare agli effetti di una penuria”, considerazione che sarà proposta con accenti simili dal Manzoni nel capitolo XII dei Promessi Sposi.
Malthus invece teorizzò che le risorse alimentari crescessero in progressione aritmetica, mentre la popolazione cresceva in progressione geometrica, deducendone che bisognava limitare le nascite onde evitare che la natura facesse il suo corso con la fame e le malattie. Per fortuna le previsioni di Malthus si rivelarono erronee in virtù di due principali eventi e cioè: - da una lato l’emigrazione della popolazione europea verso due continenti pochissimo popolati come le Americhe e l’Australia e che poi produssero cibo alla stregua e molto di più dell’Europa; - dall’altro il miglioramento delle produzioni grazie alle nuove tecniche che aumentarono le rese del lavoro umano e quelle unitarie delle terre (un agricoltore nel 1800 nutriva 4-6 persone, mentre negli anni 2000 ne nutre in media 100). Tuttavia, benché smentite, le paure maltusiane sono oggi spesso riprese. In tal senso occorre ricordare quelle del francese René Dumont, poi candidato “ecologista” alle elezioni presidenziali del 1974, che nel 1966 lanciò l’allarme dicendo che secondo lui eravamo tutti votati alla carestia perché le risorse alimentari crescevano meno della popolazione del terzo mondo. Due le sue soluzioni proposte e cioè da un lato triplicare le produzioni nel corso dei successivi 40 anni (mentre adesso i suoi eredi ecologisti invocano la decrescita); e dall’altro regolamentare le nascite. Nel 1972 fu invece il Club di Roma che rinverdì Malthus proponendo la stabilizzazione della popolazione mondiale. Altra considerazione che sorge di fronte a queste prese di posizione è quella che in ambedue i casi nessuno spiega come e chi decide chi debba vivere e chi soccombere.
In aggiunta a quanto si diceva circa la demografia, bisogna annotare la crescita della speranza di vita che negli ultimi 50 anni è aumentata di 20 anni (da 46 a 70 anni circa). Si prevede che gli ultra sessantenni nel 2050 saranno due miliardi. Molto interessanti sono anche questi dati proiettati al 2050 secondo i quali il rapporto tra il numero di persone attive e quelle > 65 anni passerà da 9 a 4, l’età mediana passerà da 26 a 36 anni e gli ultrasessantenni saranno 1/6 di tutta la popolazione, sorpassando i minori di 5 anni. Quali le conseguenze? Il numero di agricoltori chiamati a nutrire il mondo saranno sempre meno e quindi le “macchine” dovranno moltiplicare il rendimento nel lavoro di chi è rimasto in agricoltura ed il fenomeno sarà il grande stravolgimento del XXI sec. Quindi chi preconizza la diffusione delle imprese famigliari (leggi Carlin Petrini) ed il ritorno all’agricoltura di sussistenza non sa quello che dice, inoltre, coloro i quali non si preoccupano del raggiungimento di un maggior tasso di equilibrio della bilancia commerciale nazionale, quando questa è fortemente in disequilibrio, come ad esempio in Italia, è fuori dal mondo. Certo nelle società invecchiate i bisogni alimentari non cresceranno quantitativamente, ma lo diverranno qualitativamente e noi sappiamo che geneticamente parlando la crescita ponderale della produzione è data accumulando geni presenti nella specie, mentre la qualità ha bisogno di geni nuovi e dato che i metodi di miglioramento di genetica classica sono troppo lenti per i tempi a disposizione, a maggior ragione non sanno quello che si dicono neppure coloro che vorrebbero tarpare le ali alle nuove biotecnologie.
L'inurbamento della popolazione
- Questo è un fenomeno mai venuto meno fin dagli albori delle civiltà: il passaggio dell’uomo da coglitore-cacciatore ha portato alla sedentarizzazione, solo che questa, dato che se isolata era pericolosa, divenne agglomerata mediante la fondazione di villaggi che man mano sono divenute città. Ma le città esigono una vita comunitaria ed una stratificazione sociale in merito alle funzioni religioso-amministrative. Dunque già 6000 anni fa in Mesopotamia ed anche in Cina vi fu uno strato di popolazione che pretendeva, appunto per i servizi prestati (clero, magistrati, burocrati, soldati, artigiani e commercianti), dal resto della società che il cibo fosse loro fornito da chi si dedicava all’agricoltura. Venendo ai nostri giorni: se nel 1700 il 10% della popolazione era inurbata, nel 1950 i paesi sviluppati raggiunsero la parità (50% di inurbati) e nel 2010 la raggiunse tutto il pianeta. Ormai quindi il 50% è raggiunto e vi sono più di 30 megalopoli (> di 10 milioni di abitanti), quando subito dopo la seconda guerra mondiale ne contavamo solo 2. Le 500 città più grandi del globo (con almeno 1 milione di abitanti) concentrano già 2 miliardi di persone (1/4 della popolazione mondiale attuale), mentre le zone rurali ne ospitano 3,3 miliardi, che è esattamente il numero di 20 anni fa. Fa eccezione l’Africa che, che anche qui avvenga una galoppante urbanizzazione, vede un aumento di popolazione rurale. Le Nazioni Unite prevedono un tasso di inurbamento del 60% nel 2030 e del 70% nel 2050. I paesi in via d sviluppo nel 2030 conteranno circa 4 miliardi di inurbati con un tasso di urbanizzazione del 57%, mentre i paesi sviluppati concorreranno con 1 miliardo, ma con ben l’82% di tasso di urbanizzazione. Dunque le campagne si andranno man mano spopolando, altro che i “campesinos” di Carlin Petrini sfameranno il mondo! La terra rimarrà “madre” ma con i figli scappati di casa! Cosa significa tutto ciò? Semplice : il cibo occorre produrlo in gran quantità, meccanizzando intensamente e portarlo in città a dei prezzi accessibili. Adesso dite voi se ha senso discutere di cambiare modello agricolo per semplicemente produrre meno? La realtà sarà che si dovrà produrre di più e nel contempo migliorare le pratiche agricole per diminuire l’impatto ambientale. Solo che per farlo occorrerà ricorrere di più ad innovazioni scientifico-agronomiche. Vi pare sensato prefigurare di pensare di produrre con protocolli biologici a livello mondiale e lasciare, quindi, che i raccolti siano sottoposti ad un’alea produttiva molto più grande? Nel medesimo tempo che si preconizza la produzione di meno cibo si pretende di sbandierare il vessillo della pace, mentre se non diamo cibo sufficiente agli inurbati assisteremo a rivoluzioni, sommosse, guerre civili e guerre territoriali, tra l’altro difficili da controllare per non farle espandere.
- Da non dimenticare poi l’evoluzione dei consumi a cui assisteremo con lo sviluppo delle società dei paesi ora in via di sviluppo o sottosviluppati, cioè la crescita delle classi medie nei paesi in via di sviluppo (nel 1999 in Cina il 55% della popolazione viveva con 1,90 $/giorno, nel 2015 ci vive solo lo 0,7%, questo è un “grande balzo” non quello di Mao tse Tung citato in altra parte). Se guardiamo alle varie categorie che caratterizzano la popolazione globale vediamo che la “classe media” è divenuta maggioritaria: ad inizio secolo XXI era composta da 2 miliardi di persone, oggi siamo a 3,6 miliardi e si stima che tra il 2020 ed il 2030 le classi medie asiatiche passeranno da 3,2 miliardi a 4,9 miliardi: esse, però, caleranno nelle Americhe e in Europa, resteranno stabili in Medio Oriente e in Africa, Solo che una tale evoluzione modifica la domanda alimentare perché se prima dominava una domanda di sussistenza, ora assistiamo ad uno spostamento della domanda verso cibi e abitudini che erano propri dei soli paesi ricchi. In Asia si assisterà alla domanda più pressante di cibo elaborato e più costoso in termini di impatto sull’ecosistema (la Cina non vuole vedersi privata delle derrate in una situazione di contesa sui dazi e quindi cercherà la mediazione). Inevitabile che quindi cresca la domanda di carne e pesce; questo aumento nei prossimi 30 anni è previsto in un +40%. Tra il 1980 ed il 2005 i consumi di carne e uova sono raddoppiati ed anche quadruplicati in certi paesi, purtroppo salvo che nei paesi del Sahel. In Cina i consumi di carne sono quadruplicati, moltiplicati per otto quelli delle uova e per 10 il consumo di latte (in Brasile il consumo di latte è stato moltiplicato per 40). Nel 1957 il consumo mondiale di carne era di 67 milioni di t/anno, oggi siamo a 320 milioni e nel 2050 saremo a 460.
Qualcuno potrebbe dire che queste sono solo interpolazioni e quindi la realtà potrebbe smentire le previsioni. La risposta a questa eccezione deriva dall’esperienza vissuta da noi europei. Si citano ad esempio i dati francesi che dicono che nel 1850 i glucidi esaurivano il 70% della dieta ed un altro 20% era dato dai lipidi, nel 2000 i due macronutrienti circa si equivalevano con un 40% ed un 45%, gli unici che non sono cambiati sono i consumi proteici 10-12% ; senza sottacere poi gli aumenti di frutta e verdura del 65% e il crollo dei consumi di vino. Noi occidentali potremmo anche diminuirne il consumo di carne e ciò ci farà bene, ma l’aumenteranno gli asiatici ed il loro contributo nell’aumentare la domanda supererà di gran lunga la nostra in diminuzione, con buona pace dei nostri “flexitariani”, vegetariani, vegetaliani e vegani. Comunque l’evoluzione delineata comporterà un aumento degli scambi internazionali di derrate agricole e la crescita delle industrie alimentari specialmente nei paesi dove l’inurbamento sarà più consistente, infatti, solo l’industria alimentare si potrà interporre tra produzione ed operare la trasformazione necessaria per far arrivare del cibo sano e ben conservato nelle città. I prezzi agricoli mondiali in questo quadro come evolveranno? Dobbiamo subito dire che da 10 anni crescono, un 2,5% si è già consolidato, e non vi è motivo di credere che caleranno. Pertanto l’alimentarsi, globalmente, sarà sempre più una questione di disponibilità di denaro. Qualcuno chiederà come si spiega che gli agricoltori si lagnino dei prezzi agricoli troppo bassi, solo che ci si dimentica che non sono i prezzi agricoli in sé da guardare, ma i costi troppo alti perché crescono più dell’aumento di prezzo del prodotto; il che rende problematico il produrre in certe zone del pianeta. L’UE è fortemente interessata al fenomeno ed all’interno dell’UE l’Italia ha ormai “l’acqua alla gola”. - Siamo in vena di preconizzazioni ed allora mettiamoci anche quella i cui effetti sono solo previsti per grandi linee, oppure dove si va dal pessimismo più nero al realismo un po’ più ragionato. Si tratta del “riscaldamento climatico”. Tre sono gli avvenimenti ipotizzati in base ad un intervallo di aumento di temperatura di 1,8-4° C: 1°-diversa ripartizione stagionale delle piogge e desertificazione di terre attualmente coltivate; 2°- accresciuta frequenza e intensità degli eventi atmosferici estremi (canicole, siccità, uragani e inondazioni); 3°- innalzamento del livello dal mare da 20 a 60 cm e penetrazione dell’acqua salata nelle terre coltivate litoranee. Secondo stime della FAO circa l’11% delle terre coltivate saranno interessate e ciò condurrebbe ad una perdita di prodotti agricoli del 16% in gran parte cereali. Tutto il bestiame vivente nelle zone più calde sarebbe soggetto a più malattie e attacchi parassitari. È sicuro che con questo scenario le piante coltivate oggi e soprattutto le varietà di queste non saranno più adatte a fronteggiare il cambiamento e quindi occorrerà selezionarne di nuove. Affinché gli agricoltori possano continuare a nutrire il mondo occorreranno quindi nuove varietà ed anche nuove razze animali e nello stesso tempo anche le pratiche agricole dovranno essere cambiate (irrigazione e lotta contro le malattie e gli insetti). I tempi occorsi negli ultimi 100 anni per adattare le piante agli accresciuti bisogni di cibo, in un prossimo futuro assomiglieranno ai dei tempi biblici, se visti in prospettiva del pochissimo tempo che abbiamo a disposizione per adattare le piante coltivate, pertanto o usiamo le biotecnologie in modo massiccio oppure siamo condannati ad eventi disastrosi. Pertanto è sicuro che in un futuro non molto lontano gli anti-OGM saranno ricordati come “curiosità storiche alla stregua delle previsioni di Malthus”, inoltre il perito agrario ministro Martina sarà ricordato come persona di pochissima perizia agricola ed il suo manifesto sull’abolizione dei pesticidi entro il 2025 verrà additato come novello libro dei sogni.
Solo che per contrappasso vi è anche l’ipotesi plausibile che un aumento di temperatura (se l’acqua non sarà un fattore limitante e se aumenta la CO₂) comporti una fotosintesi clorofilliana più intensa. Se la concentrazione di anidride carbonica passasse dallo 0,4 ‰ di oggi ad uno 0,8‰ alla fine del secolo si potrebbe avere una stimolazione all’aumento della fotosintesi del 20-30%, con conseguente aumento di biomassa del 10-20% (compresa quella commestibile). Gli esperti ci dicono che saranno più le piante delle regioni temperate a goderne (frumento e bietola da zucchero ad esempio) e meno quelle delle regioni tropicali (mais sorgo e canna da zucchero). Tuttavia questi ci dicono anche che saranno più le piante perenni (praterie e foreste,) a goderne e meno le piante a ciclo annuale. La spiegazione sta nel fatto che le piante annuali raccorcerebbero il loro ciclo di vegetazione e di conseguenza il tempo di fotosintesi sarà più limitato e con minor produzione di biomassa. Comunque sia, una equipe di agronomi avrebbe ipotizzato che le più beneficiate sarebbero le regioni settentrionali dell’emisfero nord con un +30% (ecco che le praterie attualmente non coltivabili perché poste a latitudini troppo elevate e con temperature troppo basse per eccessivi periodi dell’anno lo potrebbero divenire). Per contro le regioni meridionali potrebbero essere svantaggiate anche a livello di -50%. Quella riferita è una delle ipotesi più ottimistiche, altre lo sono meno e parlano di un +3-5% nei paesi sviluppati ed una decrescita uguale in Africa e Asia. In queste zone poi l’adattamento delle coltivazioni ai mutati scenari climatici sarebbe molto più problematico appunto per il diverso grado di sviluppo scientifico. Come si vede nello specifico campo dei cambiamenti climatici siamo molto più nell’ipotetico, i numeri spesso sono usati per scopi di propaganda politica e dunque conseguente perdita di attendibilità. Pertanto l’unica conclusione da trarre ora è: “chi vivrà vedrà”.
Alberto Guidorzi
Agronomo. Diplomato all'Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureato in Scienze Agrarie presso l'UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni per la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.
Agronomo. Diplomato all'Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureato in Scienze Agrarie presso l'UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni per la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.
bellissimo articolo, Alberto
RispondiEliminavedrai comunque che i politici attuali (tutti) risolveranno i problemi :)
è questo il dramma: non ci sono alternative positive; in inglese si dice"alternativa del diavolo"
buongiorno scusate se pongo un quesito che solo in parte e' inerente al'argomento.
RispondiEliminaio la seguo da anni sul sito di dario bressanini e sono qui per sfruttare la sua conoscenza,e la ringrazio per renderla fruibile a tutti anche se questo come e' normale e prevedibile la espone a tante critiche,io dico grazie.
volevo chiederle se analizzando un campione di farina tipo 2 di grani teneri cosi' detti antichi viene fuori un w 47 e un p/L 1.36 come e' possibile?un valore di p/l cosi alto con un w di 47?
e volevo sapere se si analizza anche il grano duro con gli stessi strumenti e parametri.
grazie ancora adriano
Premetto che io non sono un tecnologo delle farine, ho appreso a conoscere la strumentazione ed i dati analitici perchè per selezionare dei frumenti dovevo averne le nozioni.
EliminaAvere un W 47 significa che l'area dell'alveogramma è molto limitata, Se ci riferiamo all'area di un rettangolo, per semplificare, essa può essere limitata perche vi è una piccola altezza ed una base lunga se paragonata all'altezza, oppure una grande altezza ed un ridotta base sempre rapportata all'altezza. L'altezza nell'alveogramma è data dal livello di pressione massimo raggiunto, che evidentemente prevede che la bolla d'impasto trattenga i gas che esercitano pressione, successivamente i gas cominciano a sfuggire e quindi la pressione diminuisce, fino a quando la bolla d'impasto collassa. Il tempo intercorso tra l'inizio del rigonfiamento e la rottura della bolla da la misura dell'L. Quindi il rapporto P/l ci da l'equilibrio della farina tra tenacità dell'impasto e resistenza alla deformazione dello stesso. Ora cerco di dare una mia interpretazione ai dati che mi comunichi: essendo una farina integrale io credo che per solo breve tempo la pressione all'interno della bolla sia cresciuta, ma è cresciuta a sufficienza per avere un valore ben superiore a L. Questa però è la teoria, per quanto riguarda la pratica cioè la realtà dei dati se mi permetti chiedo lumi ad uno che ne sa più di me e ti riferirò.
grazie per avermi risposto.. nel frattempo ,mi e' stato anche detto che l'alveogramma si usa per testare farine idratate al 50% essendo la farina in questione molto ricca di fibre che assorbono molta acqua ,mi viene da supporre che essendo molto piu' dura abbia fatto salire molto la p.se cosi fosse allora alveogramma e' indicato solo per farine raffinate ,per avere un'analisi piu' precisa?
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