di ANTONIO SALTINI
Tra il 9 e l'11 marzo 1982 Arcangelo Lobianco, celebra il secondo anno di presidenza aprendo, a Rimini, i lavori della conferenza organizzativa convocata per introdurre alcune regole nuove nella vita della Confederazione: prima tra tutte l'incompatibilità tra mansioni confederali e incarichi di partito e di governo. Infrangendo una tradizione consolidata, i direttori delle federazioni provinciali che vogliano rivestire incarichi di governo, a Roma o in una giunta regionale, dovranno abbandonare l'attività sindacale: per rendere accettabile l'innovazione il presidente concede che i funzionari che si impegnano sul terreno governativo conservino, con il titolo di "ispettori straordinari", il posto nei ruoli dell'organizzazione, nel cui alveo potranno assumere nuove responsabilità alla scadenza del mandato. La modifica statutaria non coinvolge, peraltro, la rappresentanza parlamentare: fino a quando non accetti incarichi governativi, il direttore di una federazione della Coldiretti può continuare a sedere a Montecitorio o a Palazzo Madama.
La decisione, che la conferenza approva con una votazione plebiscitaria, innova radicalmente i legami tra la Confederazione e il Partito che hanno contribuito a scrivere la storia politica dell'Italia repubblicana. Nell'innovazione statutaria Lobianco vede la condizione per fare della Coldiretti un autentico sindacato, che, in quanto tale, deve distinguersi dalle correnti di partito, pure conservando, sul piano ideale e su quello e politico, i legami originari con la Democrazia cristiana, il partito di cui Arcangelo Lobianco è tuttora rappresentante in Parlamento.
E' la sanzione della nuova versione del "collateralismo" cui si ispira Lobianco, che impone la regola contro resistenze oltremodo tenaci: ma a Rimini, dopo la serie ininterrotta di manifestazioni di successo con cui ha rianimato la Confederazione, il deputato barese gode del sostegno incondizionato della base sociale, e può sfidare l'opposizione dei più temibili boiardi provinciali. Si mormora che abbiano tentato, invano, di opporsi alla decisione i signori di potenti baronie regionali: Ernesto Vercesi, nume della Coldiretti in Lombardia, Michele Bellomo, direttore della Federazione di Bari, Nino Cristofori, proconsole democristiano di Ferrara.
Proverà che l'incompatibilità delle funzioni non costituisce, nella concezione dell'attività sindacale di Lobianco, rescissione dei vincoli con la Democrazia cristiana, l'affollato convegno dei dirigenti locali che l'anno successivo segnerà, nel corso di una campagna elettorale rovente, l'ingresso in campo della Coldiretti, salutata dallo stato maggiore democristianao, presente al completo all'auditorium dell'Eur, come l'antico, invitto baluardo del Partito nelle campagne.
Se la conferenza di Rimini è piuttosto incontro per iniziati ai misteri del collateralismo che si tramuta rinnovandosi, segna una data significativa nella storia dell'agricoltura nazionale la celebrazione del novantesimo anniversario della fondazione della Federconsorzi, l'evento che riporta il confronto agrario, impetuosamente seppure fugacemente, al centro dell'interesse politico. La cerimonia si compie, solennemente, a Piacenza, la città che è stata culla dell'organismo, il 16 ottobre 1982, nel Teatro municipale gremito di tutte le autorità dell'agricoltura nazionale.
Ha deciso la celebrazione Ferdinando Truzzi, presidente dell'organismo da otto mesi, che in otto mesi ha dato prova di un attivismo che i funzionari della Federconsorzi non ricordavano dall'idillio di Paolo Bonomi con il titolo di presidente appena conquistato. Secondo l'intesa tra Bonomi e Mizzi che ha esonerato il primo dal controllo quotidiano sull'organismo, il presidente della Federconsorzi è stato, da allora, figura ombra, solerte nell'apporre la propria firma ove gli fosse richiesto dal direttore generale, attento a non leggere, per rispetto a Mizzi e a colui che Mizzi rappresentava, i fogli che gli fossero sottoposti per l’adempimento, il ruolo cui ha assolto con esemplare senso del vassallagio il professor Ramadoro, con ritrosie lietamente risolte dalla moltiplicazione degli appannaggi l'onorevole Vetrone.
La serena fruizione delle prebende in cui si è convertito, assennatamente, il mandato di Vetrone, si è interrotta, bruscamente il 3 ottobre 1981, quando il deputato campano è stato stroncato da una malattia dal decorso fulmineo. L'urgenza della sostituzione si è imposta a meno di sei mesi dall'insediamento di Lobianco alla guida della Coldiretti, al cui vertice il deputato barese non ha avuto il tempo di ridisegnare ruoli e funzioni in coerenza ai propri progetti. La necessità di designare un successore a Vetrone è intervenuta, così, nel clima di rancori prodotto, inevitabilmente, dalla successione, che ha dissolto attese e speranze dei luogotenenti di Bonomi, primo tra gli altri Ferdinando Truzzi, che del tribuno è stato, per lunghi anni, luogotenente in Senato e portavoce al vertice della Democrazia cristiana.
In gioventù modesto fittavolo, nella maturità ambasciatore della Coldiretti nel cuore del potere romano, Truzzi non ha accarezzato chimere immaginandosi il successore naturale di Bonomi. Ha contrastato invano, alleato e avversario degli altri luogotenenti bonomiani, la candidatura di Lobianco, le cui capacità di comunicazione hanno conquistato, in un libero confronto, la base e i quadri confederali: dopo la scelta del Consiglio nazionale ha atteso l'attribuzione di un appannaggio compensativo, qualche voce ha sussurrato che quell'appannaggio gli sia stato garantito da un preciso impegno del neopresidente. Quando la morte di Vetrone dischiude la grande opportunità, Truzzi pretende la designazione. Appena insediato, Lobianco si trincera invano dietro l'opzione del partito, che al vertice dell’organismo preferirebbe Lorenzo Natali: metà vincolato da un patto, metà costretto dagli equilibri appena delineati attorno a sé, è costretto a cedere all'avversario la preziosa presidenza.
Il decreto del 1948 che detta le regole statutarie dei consorzi agrari prescrive che il presidente della Federconsorzi sia eletto dal Consiglio, a sua volta nominato dall'Assemblea dei presidenti dei consorzi provinciali. Una convocazione d'urgenza del Consorzio di Mantova, la città natale di Truzzi, investe il vecchio senatore della presidenza in tempo utile per partecipare alle assise romane, che gli aprono le porte del Consiglio, di cui alla riunione successiva assume la guida. E' un mandato interinale, essendo destinato a concludersi alla scadenza alla quale l'assemblea avrebbe dovuto confermare Vetrone, ma la brevità dei tempi assicura un vantaggio al senatore mantovano, che nel maggio del 1982 è presidente a pieno titolo della Federazione italiana dei consorzi agrari. Al suo fianco, siede ancora, direttore generale, Enrico Bassi, che, raggiunta l’età della pensione, sarà sostituito dal ragionier Luigi Scotti, già direttore del Consorzio agrario di Milano, da qualche anno investito, a Roma, di incarichi rilevanti, che gli consetono di guadagnare rapidamente l’iuncondizionata fiducia di Lobianco.
Forte di un'investitura che non è più incarico personale del presidente della Coldiretti, ma promana dal vertice dell'organizzazione, dove Truzzi conserva un posto tra gli esponenti di maggiore prestigio, il luogotenente di Bonomi affronta l'assolvimento del mandato ostentando un’autorevolezza che si discosta platealmente dalla subordinazione dei predecessori: concede significative interviste, getta il peso del titolo sulle decisioni del Consiglio, si impegna a preparare la più solenne celebrazione del novantesimo anniversario dell'organismo, che ricorre l'anno medesimo. L'obiettivo al quale, nel corso dei preparativi, proclama di mirare: ricondurre la Federconsorzi al centro della vita economica, scientifica e divulgativa dell'agricoltura italiana, restituendole il ruolo cui ha assolto, dal consolidamento, all'alba del secolo, del proprio apparato, fino agli anni della Ricostruzione, quando Leonida Mizzi ne ha fatto un efficiente, ma anonimo apparato di ammasso e di vendita, l'organismo che nel quadro dell'agricoltura degli anni '80 manca, ormai, di qualunque legittimazione politica. Ad una considerazione retrospettiva è la proposta di un confronto che riproponga gli obiettivi votati a Montecatini nel 1925 e dissolti dalla prepotente intromissione fascista, riesumati alla vigilia del convegno di Fiuggi del 1950 e subito accantonati da Bonomi per calcolo di opportunità.
Il disegno è lungimirante, e non manca di ardimento. La Federconsorzi è creatura del liberalismo massonico, il credo che univa gli uomini che l'hanno ideata e costruita, è stata potenziata dai gerarchi fascisti, i quali ne hanno fatto l'ammiraglia della flotta degli organismi dell’agricoltura corporativa, è stata trasformata in colosso finanziario, infine, da uomini ai quali Bonomi, militante democristiano, non ha mai chiesto professioni di fede, pretendendo che gli assicurassero, piuttosto, sicurezze bancarie. Se proporre alla Federconsorzi obiettivi che le restituiscano il ruolo di perno dell’agricoltura italiana costituisce, nel 1982, necessità cogente per arrestarne il declino, il proposito impone la pubblica analisi, veridica e convincente, della storia dell'organismo, quindi l'esame dei suoi rapporti con lo Stato e con la Coldiretti, e la definizione di una nuova collocazione, originale e coerente, sulla scacchiera agroeconomica. La possibilità che il disegno possa compiersi è subordinata a due condizioni, una statutaria, una finanziaria e politica.
La prima è la soluzione della disputa sul rispetto dello statuto. Conquistata la maggioranza, in un confronto crudo ma democratico, nel 1949, e insediati i propri uomini nei consigli di amministrazione, Bonomi si è premunito contro l'eventualità che elezioni future potessero sottrargli il potere acquisito imponendo il rigido controllo, in tutti i sodalizi provinciali, dell'ammissione di nuovi soci, escludendo qualunque candidato non potesse mostrare la tessera della Coldiretti o della Confagricoltura. Ha giustificato la prassi proclamando che lo statuto di qualunque cooperativa attribuisce al consiglio di amministrazione la facoltà di accogliere o respingere qualunque domanda di ammissione, un'argomentazione palesemente speciosa siccome i consorzi agrari non sono cooperative ordinarie, ma cooperative investite, dalle norme statutarie, di funzioni pubblicistiche, il cui ordinamento, emanato per decreto, assicura, all'articolo 5 del secondo titolo, la facoltà di richiedere l'ammissione a quanti "esercitano... un'impresa agraria di qualsiasi dimensione, siano essi proprietari, usufruttuari, affittuari, mezzadri o coloni parziari". Il sistematico rigetto delle domande di iscrizione degli appartenenti alle ultime tre categorie, generalmente legati ai partiti di sinistra, ha assicurato agli avversari un argomento capitale negli scontri sulla Federconsorzi.
La seconda condizione cui è subordinato il rilancio è la chiusura dell'annosa pendenza tra l'organismo, il Ministero del tesoro e la Banca d'Italia. Leonida Mizzi ha lasciato agli eredi l'onere di presentare gli ultimi rendiconti della distribuzione di generi alimentari americani, degli ammassi, delle importazioni di frumento. Dopo il perentorio intervento della Corte dei conti, nel 1977, Giovanni Marcora, che nella sollecitazione della Corte ha letto, o è stato invitato a leggere da Aldo Moro, un esplicito messaggio politico, si è impegnato a definire la pluridecennale pendenza. Richiamati alla solerzia, Vetrone e Bassi hanno incaricato gli ultimi contabili competenti dell'intricata materia di recapitare i rendiconti mancanti al Ministero, Marcora ha fatto procedere i controlli secondo tempi solitamente sconosciuti agli uffici romani.
Ha frapposto un intralcio significativo alla solerzia meneghina del geometra di Inveruno la clausola dell'antica convenzione che addossava alla Federconsorzi il pagamento dei gettoni della commissione ministeriale, facendo dei controllori gli stipendiati dell'ente controllato: la ragna in cui Mizzi aveva involto il vertice democristiano conservava l'efficacia paralizzante anche dopo che il suo artefice aveva raggiunto la pace nel cimitero di Pontenure. Rompendone l'incantesimo Marcora riusciva, peraltro, a reperire i fondi necessari a erogare i gettoni in qualche voce sufficientemente elastica del bilancio del Ministero.
La trasmissione dei rendiconti, approvati dal Ministero, alla Corte dei conti, costituisce adempimento preliminare, necessario ma non sufficiente, alla chiusura della vicenda: a fronte del credito, di incerta esigibilità, che dai mille miliardi denunciati da Rossi Doria è lievitato, per il comporsi degli interessi, a quasi duemila, la Banca d'Italia ha accantonato, in uno speciale fondo di riserva, una cifra equivalente. La stessa Banca d'Italia potrebbe fornire al Tesoro, perciò, i fondi necessari a chiudere il proprio credito, ma ad autorizzare il trasferimento occorre un voto del Parlamento sulla voce relativa del bilancio del Tesoro, quindi una scelta politica. Ha affrontato il nodo politico della seconda condizione necessaria alla soluzione dell’antico contenzioso istituzionale Giulio Andreotti nell'età della "non sfiducia", quando ha incaricato Truzzi di negoziare la pace federconsortile con Emanuele Macaluso, un tentativo fallito nonostante che la cordiale concordanza tra il gabinetto del parlamentare laziale e il Partito comunista assicurasse le condizioni più fauste per il successo. Voci informate hanno mosso a Truzzi l’appunto di avere avanzato la proposta a Macaluso in termini tali da obbligare il senatore comunista al rifiuto.
Dopo che la possibilità dell'accordo si è dissolta, sull'argomento si è ripetutamente pronunciato, a nome della nuova confederazione agraria, Giuseppe Avolio, che, dichiarandosi neutrale verso l'eventualità di intervento dei partiti, ha reclamato con veemenza la riapertura delle iscrizioni ai consorzi agrari di chiunque ne faccia domanda. La nuova confederazione socialcomunista non gode, per il fato che pretende la rissosità tra organismi agrari di tutte le ispirazioni, di buoni rapporti con l'onnipotente Lega delle cooperative, i cui manager si preoccupano dei propri bilanci e percepiscono con fastidio il desiderio degli iscritti della Confcoltivatori di esercitare un peso maggiore nei consigli degli organismi cui consegnano uva, pesche e frumento. Se si riaprissero le iscrizioni ai consorzi agrari, la Confcoltivatori potrebbe conquistare, in più di uno, una dignitosa minoranza, potrebbe aspirare, nelle province in cui la sua presenza è più forte, alla maggioranza, e alla poltrona della presidenza. Alla richiesta Arcangelo Lobianco ha replicato ripetendo la tradizionale equiparazione dei consorzi agrari alle cooperative a statuto ordinario, dove non si acquista il titolo di soci se non si è graditi al consiglio di amministrazione.
Convinto che negoziare costituisca scelta più ragionevole che soggiacere alla paralisi, e contando di forzare il groviglio di remore e impedimenti, Truzzi appresta la celebrazione piacentina imprimendole la solennità degli eventi storici. Sorpresa dalla prova di vitalità del colosso assopito, la stampa alimenta l'attesa dell'evento, qualche osservatore avanza la supposizione che esso possa sancire uno storico compromesso: riverberando, come in un gioco di specchi, da una nota di cronaca a un commento politico, l'ipotesi si tramuta in probabilità, la probabilità assume le parvenze della certezza. Alla certezza la pompa del gran gala piacentino, presenti, col ministro Bartolomei, gli ultimi numi dell’economia agraria degli anni '50, Giuseppe Medici e Lugi Perdisa, e tutti i capitani degli organismi agrari, Confcooperative, Anca, Confcoltivatori, Confagricoltura, offre, il 16 ottobre, l'avallo più appariscente: tutte le forze che attorno alla Bastiglia bonomiana hanno combattuto battaglie senza quartiere paiono essere convenute per sancire la tregua, avviare negoziati di pace.
Smentisce le supposizioni e infrange le attese Arcangelo Lobianco. Esibendosi nell'arte della farsa che trionfa nella città che gli è patria adottiva, e compiacendosi di un frasario che per un oratore abitualmente pudicissimo sfiora la scurrilità, il successore di Bonomi irride come amplesso contro natura ogni eventualità di ingresso nella Federconsorzi delle forze tradizionalmente estranee, e al rigetto delle attese aggiunge l'invito, a chi ritenga che negli armadi dell'organismo governato dalla Coldiretti siano riposti scheletri imbarazzanti, a compiere una verifica negli armadi di casa propria. Ciascuno custodisca, è il monito che conclude l'allocuzione, i retaggi del proprio passato meno adamantino: il passato della Federconsorzi non consente a nessuno di accampare, in cambio di condiscendenze, pretese nei confronti dell'organizzazione che ne goduto, tradizionalmente la signoria esclusiva, che di quella signoria rivendica la continuità a pieno diritto.
Recitato magistralmente, il monologo, metà farsa metà invettiva, infrange l’effervescenza mondana del teatro che attende una svolta che nessuno immaginava sarebbe stata proclamata con clamore, che tutti contavano sarebbe stata annunciata con ovattate allusioni. Ci si chiede perchè il presidente della Coldiretti abbia assistito, nei mesi precedenti, ai preparativi della celebrazione riservandosi di sconvolgerne il programma, sul proscenio del Municipale, tanto teatralmente. I collaboratori di Lobianco asseriranno che il Presidente della Coldiretti non sarebbe stato informato delle intenzioni di Truzzi che nelle ore immediatamente precedenti. Truzzi, preavvertito alla vigilia delle intenzioni di Lobianco, incapace di opporre qualsiasi difesa della propria iniziativa, ha informato Avolio, il destinatario dell'affondo del presidente della Coldiretti, per riparare ad un invito improvvido, e prende posto, al Municipale, al centro del palco presidenziale, in attesa della propria umiliazione.
I rappresentanti delle organizzazioni concorrenti, al primo posto la cooperazione "bianca", timorosa di un'alleanza tra la confederazione "rossa" e l'arrugginita corazzata federconsortile, constatano con compiacimento il dissolversi dell'eventualità di legittimazione che reintrodurrebbe la Federconsorzi tra gli enti ammessi alle pubbliche elargizioni. L'attenzione generale è fissa su Avolio, fautore di una soluzione che restituirebbe la legittimazione istituzionale alla Federconsorzi senza la necessità di un accordo tra partiti, la soluzione che l'allocuzione di Lobianco rigetta con sprezzo irridente. Offeso, il presidente della Confcoltivatori evita di prendere la parola anche per un saluto formale.
Lobianco spiegherà, successivamente, che al Municipale non erano presenti i rappresentanti dei partiti, senza il cui accordo ogni ipotesi sulla riforma della Federconsorzi sarebbe stata vana elucubrazione, sottolineando che nessuna intesa sul futuro dell'organismo sarebbe stata possibile senza l'avallo di Craxi, a nome del quale Fabio Fabbri, nemico antico della Federconsorzi, della cittadella bonomiana continuava a pretendere, in dichiarazioni solenni, la capitolazione. Ma se Truzzi aveva ceduto all'ottimismo immaginando che fosse possibile riesumare le ipotesi di riforma di cui aveva discusso, a Palazzo Madama, con Macaluso, e di cui aveva personalmente contribuito al naufragio, Lobianco rigetta la possibilità di assicurarsi, accogliendo le istanze della confederazione concorrente, un alleato nella difesa del colosso vacillante. Chi seguirà le vicende successive dell'organismo non potrà stabilire se quell'alleanza avrebbe potuto evitarne il crollo, dovrà constatare che quando Lobianco avrà sospinto l’organismo ad una crisi di gravità forse irreparabile sarà una pugnalata alle spalle di Avolio, che avrà atteso nove anni l’occasione della rivalsa, a inferire al colosso barcollante il colpo che accenderà attorno al galeone alla deriva l’arrembaggio di tutte le filibuste della politica e della finanza, l’assalto che annienterà il gigante già paralizzato.
Riconosciute le difficoltà alla coerente collocazione storica dell’evento, le luci della ribalta piacentina illuminano di luce solare l’incredibile sicumera con cui il Presidente della Coldiretti proclama, davanti al mondo politico nazionale, la titolarità esclusiva sull’ente che rappresenta, ancora, la fonte capitale della corruzione politica nazionale. Dall’importazione delle derrate americane contabilizzate in resoconti falsi la Federconsorzi è stata il pilastro economico della preminenza democristiana. Lo è stato violando la legge che prescrive l’ammissione di qualunque agricoltore ne presenti domanda e producendo conti palesemente infedeli, due peccati mortali perpetrati, senza falsi pudori, fino a quando le maggioranze democristiane hanno consentito di sfidare tutte le opposizioni coalizzate. Quando quelle maggioranze non sono più, da lunghi anni, invincibili, Arcangelo Lobianco pretende, insieme, di escludere il proprio partito dai benefici della gestione, che immagina di riservare alla Coldiretti, irride le riserve degli avversari sulle irregolarità della gestione: sfida, insieme, amici e nemici, una prova di presunzione che suscita l’incredulità dello storico, di cui moltiplicherà la meraviglia constatare che la gestione della Federconsorzi sarà, sotto lo scettro di Lobianco, una gestione insostenibile anche sul terreno economico, tale da offrire ai nemici, di cui la vanità dell’erede di Bonomi ha moltiplicato le schiere, l’occasione per l’assalto finale al galeone dell’oro.
Chi scrive può attestare personalmente quanto vanità e presunzione avessero sottratto a Arcangelo Lobianco ogni capacità di giudizio sulla situazione dell’ente nello scacchere politico. Essendogli stato proposto, nel 1989, dallo stesso Lobianco, di rievocarne l’avventura politica e sindacale, raccoglieva le vivaci testimonianze di amici e collaboratori sull’attivià sindacale del deputato barese in Lucania e in Campania, componendo una vicenda personale non priva di elementi di vitalità nel mondo contadino del Mezzogiorno. Giunto al confronto del personaggio con il problema Federconsorzi, il testo che proponevo sottolineava le difficoltà del tema rilevando che Arcangelo Lobianco aveva esperito i primi assaggi verso un problema che ne avrebbe impegnato sagacia e lugimiranza negli anni a venire. Letto il lavoro il Presidente della Coldiretti mi invitava a discuterne, dichiarava riduttivo il giudizio finale, ribadivo i miei convincimenti, che irritavano il mio interlocutore, che chiudeva la conversazione proclamando: “Lei non ha capito, Saltini, che io non ho affrontato il problema della Federconsorzi, io lo ho risolto.” Un collaboratore del Presidente mi avrebbe proposto l’acquisto dei miei appunti, che uno scrivano di corte avrebbe utilizzato per l’agiografia pretesa dal Presidente. Mancavano due anni al tragico assalto che avrebbe rimesso la cassaforte della politica nazionale nelle mani di consorti e correi di Giulio Andreotti, impedendo a Lobianco, ricattato per i propri errori, ogni difesa del galeone di cui aveva vantato, a Piacenza, l’assoluta, incontrastata signoria.
Insieme al rifiuto del compromesso federconsortile, il 16 ottobre 1982, a Piacenza Arcangelo Lobianco annienta la presidenza di Ferdinando Truzzi. Riassumendo, verso il successore, l'atteggiamento di sottomissione che per trent'anni ha praticato verso Paolo Bonomi, per altri sette anni Ferdinando Truzzi sarà presidente ombra, testimone passivo, per conto della Confederazione di cui è, ancora, esponente autorevole, dell’agonia dell'organismo che ha sognato di ricollocare al centro dell'economia agraria. Nei mesi successivi voci autorevoli suggeriranno a Lobianco di sostituire a un presidente umiliato un uomo che disponga dell'autorità necessaria a dirigere la navigazione di una corazzata già minacciata da falle devastanti. Personaggi di prestigio cospicuo, si sussurrerà il nome di Giuseppe Medici e quello di Romano Prodi, sarebbero stati pronti, riferirà chi ha assolto a funzioni di ambasciatore, ad accogliere l'invito, che avrebbero atteso invano. Obbediente ai canoni di un machiavellismo da avvocatuccio napoletano, Lobianco preferirà un uomo umiliato, vassallo sicuro, a un uomo prestigioso, di cui gli possa sfuggire il controllo.
Con un'arringa di grande effetto teatrale, al Municipale di Piacenza Arcangelo Lobianco ha rivendicato il predominio imposto da Bonomi alla roccaforte agraria, alla cui guida, sulle orme del predecessore, destina non un presidente ma un'ombra di presidente. L'occasione della duplice scelta è la celebrazione del novantesimo anniversario della fondazione dell'organismo, il cui imponente edificio crollerà, fragorosamente, alla vigilia del compimento del secolo di vita. Il crollo priverà la confederazione creata da Paolo Bonomi del controllo del più solido e capillare apparato finanziario, industriale e mercantile dello scacchiere agrario, priverà l'agricoltura italiana dell'unica organizzazione logistica in grado di distribuire fertilizzanti e antiparassitari, gasolio e pezzi di ricambio alle aziende agricole disseminate nelle pianure e sui rilievi della multiforme geografia della Penisola. Ossessionato dal fantasma di Bonomi, Arcangelo Lobianco potrà vantare di non averne spartito l'eredità con le forze amiche e con quelle concorrenti, piuttosto che cedere preferendo destinare l'ammiraglia all'affondamento. Preoccupandosi, per le differenze ideali tra un attivista democristiano e un ammiraglio giapponese, di mettere in salvo, nel naufragio, la poltrona di presidente, che, al compimento del crollo, baratterà con una delle più lucrose sinecure della Roma di Caligola. Tra cronache e corsivi che i settimanali agricoli dedicano al coup de théâtre del nuovo guitto napoletano un corrispondente da Piacenza annota che tra i cento convenuti a celebrare la grandezza imperitura della Federconsorzi, al cimitero di Pontenure, sulla tomba in cui riposa l'uomo che dell'organismo ha moltiplicato magazzini, mangimifici e titoli mobiliari, è stato recato un solo mazzo di fiori. Il cronista solerte è riuscito a sapere che a portarlo, in taxi, è stato il direttore siciliano di un piccolo consorzio toscano, che, nella sua isola, combatterà, negli anni successivi, la battaglia disperata per riportare la buona amministrazione in un consorzio agrario saccheggiato dai politicanti democristiani iscritti al club palermitano di Giulio Andreotti, che il consorzio l'intera Catania sussurrava governassero attraverso subappalti concessi a un tale Nitto Santapaola (maldicenze?). Minacciato dai beneficiari del dissesto, un infarto lo stroncherà nel corso dell'impresa impossibile. Salvatore Buscemi ha offerto un mazzo di fiori all'illusione cui sacrificherà la vita.
Antonio Saltini
Già Docente di
Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico
delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura
Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di
argomento agricolo, Terra e Vita. E' autore della Storia delle Scienze
Agrarie opera in 7 volumi.
Nessun commento:
Posta un commento