di ALESSANDRO CANTARELLI
Agosto è il mese delle ferie per antonomasia ma, in questo funesto agosto 2018, nel giro di pochi giorni hanno avuto luogo una serie di tragici accadimenti per i quali, in una sequenza allucinante, non si faceva in tempo a capacitarsi dell’uno che già ne seguiva un altro. E così facendo, tra il dramma del ponte di Bologna (6 agosto) e quello di Genova, purtroppo di ben maggiori dimensioni (14 agosto), seguiva pure il terremoto in Molise del 16 e la drammatica alluvione del cosentino il 20 si inscrive anche quello dei 16 braccianti agricoli periti tragicamente in due distinti incidenti stradali, avvenuti rispettivamente il 4 (4 vittime) ed il 6 agosto (12 vittime), sulle strade pugliesi.
Sarà su quest’ultima cronaca che ci si intende soffermare, per poi formulare alcuni ragionamenti.
Oltre al bilancio delle vite umane perse, colpisce innanzitutto la sequenza temporale dei due incidenti: poche ore e pochi km di distanza li dividono. Entrambi hanno coinvolto dei braccianti di colore dediti alla raccolta dei pomodori in provincia di Foggia.
Questi drammi rimandano direttamente alla piaga del caporalato, fenomeno legato alla malavita organizzata che da anni caratterizza alcune campagne del nostro Paese¹⁻² (paghe di 2,5 €/ora, con “premio” di produzione di 1 €/q.le). Per certi aspetti, sembra di rivedere le sequenze del film Riso amaro del regista Giuseppe De Santis (1949), dove in quel caso le sfruttate erano invece le “padane” mondine del riso.
Oppure quelle, anche se di epoche più recenti (1990), del film Pummarò di Michele Placido.
E’ altrettanto fuori di dubbio che il territorio nel quale si sono verificate le due tragedie, è lo stesso dove esattamente un anno prima (9 agosto 2017), i due fratelli agricoltori Luigi ed Aurelio Luciani (47 e 43 anni), furono freddati dai killer della mafia locale per la sola colpa di essere stati involontari testimoni, mentre erano al lavoro nei campi, dell’agguato mortale al boss Mario Luciano Romito e del cognato Matteo De Palma.
Un problema reale quello della presenza della criminalità organizzata (in quelle zone ritenuta “silenziosa”, ma non per questo da ritenersi meno pericolosa), che per la forza anche economica che è in grado di esercitare, incide presumibilmente in maniera considerevole sull’economia reale del nostro Paese.
Nel docufilm Bioresistenze (dove la locuzione “bio” non è da intendersi nel senso di “agricoltura biologica”, bensì nel senso di vita) di Guido Turus (2014)³, un viaggio lungo lo Stivale agricolo e le Isole, da alcuni degli intervistati (diversi di essi erano agricoltori), viene fuori che la prima forma di Resistenza sia quella alla/e mafia/e.
Al proposito, ricordo bene l’intervento dell’autore alla Biblioteca “Emilio Sereni”-Museo “Alcide Cervi” di Gattatico (novembre 2015), dove tra i tanti punti esposti, quelli in riferimento ai capitali ed alle terre sottratte alla malavita, vertevano sulla constatazione che territori mafiosi sono da considerarsi sottratti alla Repubblica Italiana. Lì, la Costituzione non vale: forse “pochi” o “pochissimi” vivono meglio rispetto se vivessero nella Repubblica, però non ci sono diritti civili e/o di cittadinanza. Ci sono favori, sudditi, ma non ci sono cittadini!
Coltivare quei fondi quindi, sarebbe quasi da intendersi come un’azione “militare” (ovviamente pacifica), per riportare quelle terre nel territorio della Repubblica Italiana.
Nelle ore immediatamente successive agli accadimenti foggiani, i Sindacati avevano indetto nello stesso giorno (8 agosto), due distinte manifestazioni (si vede che anche per le disgrazie in Italia non si è mai sufficientemente d’accordo….!), per portare all’attenzione delle Istituzioni e della società il dramma del caporalato. La prima del mattino era stata organizzata dall’USB, la seconda del pomeriggio da CGIL, CISL e UIL.
Altri e ben più autorevoli analisti esamineranno e commenteranno le rivendicazioni (l’auspicio, in considerazione anche delle elevate temperature agostane, è che lo facciano con solerzia); alla categoria dei braccianti pugliesi va comunque manifestato pieno rispetto ed umana solidarietà. Né è presente intendimento commentare l’efficacia della legge contro il caporalato (la Legge n° 199 del 2016), voluta dal precedente Ministro all’agricoltura on. Maurizio Martina.
Dal lato prettamente agricolo, mi hanno però colpito alcuni passaggi delle dichiarazioni riportate all’interno dei comunicati sindacali (pur con sfumature un poco diverse tra di essi), e/o rilasciate direttamente da alcuni manifestanti. Una su tutte, la dichiarazione rilasciata da Annamaria Furlan segretaria generale della CISL⁴.
In pratica e cercando di riassumerli tutti i suddetti comunicati, nel denunciare la “catena del valore" che parte dai campi per arrivare alle nostre tavole, partivano dai processi di trasformazione e lavorazione del raccolto, per passare alla sua vendita in aste al massimo ribasso governate dalla Grande distribuzione organizzata (Gdo), così come denunciavano la corsa dei mezzi della logistica, con autisti-fattorini per grado di sfruttamento forse secondi solo ai braccianti, per arrivare ad una rete commerciale sempre più regolata dagli interessi delle imprese agroalimentari e delle multinazionali.
L’interrogativo che si pone è perciò il seguente: a quali imprese agroalimentari e a quali multinazionali si riferivano? Il particolare, a chi per mentalità e formazione è portato a misurarsi sui numeri piuttosto che su speculazioni filosofiche, il particolare non é di poco conto. Va sempre tenuto presente che fare agricoltura è fare impresa.
La corrente narrazione (storytelling secondo un linguaggio per alcuni più moderno), infatti vorrebbe che…, ma forse è il caso di aggiornare la soap opera che è stata “mandata in onda” fino ad oggi, iniziando magari a cambiare qualche attore del cast.
Un valido aiuto nella trattazione dei dati che verranno di seguito elencati, è stato fornito dalla lettura delle due opere dell’agronomo-tossicologo Donatello Sandroni⁵⁻⁶. Lo scrivente ha avuta l’opportunità di ascoltarlo lo scorso mese di maggio a Mantova, nel corso del Festival della Scienza.
Come premessa e per predisporsi meglio nella comprensione dei dati che verranno riportati, trovo utile l’invito dell’autore che “vedere solo il male delle cose non è un buon approccio mentale. Così come non lo è vedere solo il bene”. Così come risulta sempre attuale, il monito riportato ed attribuito ad Henry Kissinger già Segretario di Stato americano, il quale ammoniva che chi controlla il cibo, controlli anche i popoli.
Segue perciò una sorta di moderna analisi marxista (mi si consenta questa innocua licenza), condotta sulla base dell’attuale rapporto capitale-lavoro. Si può immaginare che nemmeno ad un fine analista come Karl Kautsky⁷⁻⁸ sarebbero sfuggiti certi rapporti di forza: poi si può magari discutere animatamente sul da farsi, per migliorare lo stato delle cose.
Ma andiamo con ordine. Se si analizzano gli annual report di alcuni imperi economici legati all’agroalimentare e presenti sul web, non risulterà difficile imbattersi in quelli di Coop, di Auchan, di Carrefour e magari anche della statunitense Walmart.
La prima fattura in Italia 12,5 miliardi di €, uno solo in meno di Monsanto a livello planetario (ma si noti bene che questi sono i dati riportati su Orco Glifosat di Sandroni uscito nel gennaio 2018; è notizia dello scorso luglio che Coop Italia ha fatturato nel retail 13,4 miliardi di €)⁹.
Auchan vende in Europa per 54,2 miliardi di €, cioè più del doppio di quanto assommavano i fatturati di Bayer e Monsanto pre-fusione (10,37 miliardi il solo settore “Crop Science” di Bayer e circa 13,5 milardi Monsanto, n.d.r.).
Carrefour fattura 77 miliardi nel 2015, il 10% in più di Basf, colosso numero uno mondiale della chimica.
Inoltre dopo la morte di Bernardo Caprotti, patròn di Esselunga, Carrefour pare in pole position per rilevarla, visto che vi ci aveva già provato -ma senza successo-, nel 2004. In questo modo si accaparrerebbe i 7,3 miliardi di € fatti registrare nel 2015 da Esselunga. Ciò la porterebbe a superare gli 84 miliardi di €, operando solo in Europa.
Una cifra che vale circa una volta e mezza la vendita mondiale di agrofarmaci.
La sola Carrefour venderebbe cioè nella sola Europa molto di più di tutte le multinazionali della fitochimica messe insieme.
Ed infine l’americana Walmart, stimata dal periodico Fortune a 466 miliardi di €, più o meno cinque volte Carrefour. Di queste questioni e con altrettanti dati aggiornati ne hanno parlato recentemente molto bene su A.S. Guidorzi e Mariani ne: Le società sementiere pesi piuma della filiera agroalimentare globale.
Tutti i grandi marchi sopra elencati vendono infatti beni di consumo, fra cui anche il cibo. Parlano ai loro consumatori.
Ne condizionano le loro scelte e preferenze, per dirla con Sandroni. Gli agricoltori contano poco o nulla nelle filiere agroalimentari, raccogliendo solo le briciole dei prezzi alla vendita della loro ortofrutta, sia in Europa, che all’estero.
Sono cioè l’ultima ruota del carro, la Cenerentola che vive di avanzi.
Mentre si iniziava, finalmente anche sui media, a trattare di questi argomenti (la trasmissione “In Onda” del 10 agosto su La Sette, partendo dai fatti di Foggia analizzava la “catena del valore” dei pomodori nei vari passaggi), puntuale come un orologio svizzero ecco che come per incanto, tra sabato 11 e domenica 12 agosto, il riapparire su tutti i media del solito e melenso tormentone, avente per soggetto la multinazionale Monsanto ed i presunti danni da gliphosate. Se si continua a martellare in un verso, quella verità alla fine si impone, devono pensare i contestatori dell’agricoltura moderna, notoriamente ascrivibili alla galassia ambientalista.
Con la notizia del risarcimento milionario a carico di Monsanto, stabilito dal tribunale di San Francisco per il giardiniere 46 enne Dewayne Johnson, affetto da un linfoma del tipo non-Hodgkin.
Quasi a volere cancellare repentinamente il ricordo di certe attenzioni giornalistiche, che nelle ore immediatamente precedenti iniziavano a focalizzare l’attenzione sul peso della Gdo e di certe imprese del food, all’interno della filiera agroalimentare. Le stesse imprese che a suon di paginoni a pagamento sui principali giornali (per smarcarsi dal “complottismo” verde, non si sospetta minimamente che il silenzio su certi argomenti, si possa ottenere con la pubblicità pagante…), mediante lo slogan del “buono pulito e giusto”, con variante “sano”, tenevano particolarmente in quello stesso week end a sottolineare che con i fatti di Foggia, Loro non c’entravano un bel niente.
Di seguito, alcune tra le dichiarazioni ed interviste maggiormente significative, a seguito della sentenza della corte californiana (si precisa che siamo agli inizi della vicenda, tuttavia): “La sentenza ci da tristemente ragione. La tragica malattia è una conseguenza della tossicità del pesticida. Dobbiamo combattere l’invasione sul nostro mercato di questa sostanza”. (Luigi Di Maio, Vicepremier, Corsera del 12 agosto).
Una dichiarazione dalla quale si evince una base scientifico-agronomica notevole, ed allora si può stare certi della solidità delle affermazioni di chi ricopre ruoli istituzionali.
Proseguendo: “La strada intrapresa dal nostro paese è quella giusta. Anche se gli studi scientifici non sono univoci (ma se avesse letto Orco glifosat ed anche qualche rivista di settore, in realtà sarebbero molti di meno di quanto si vorrebbe dare da intendere, n.d.r.), è doveroso attenersi a quelli più prudenziali. Se negli USA, dove non esiste il principio di precauzione, si arriva a una sentenza di condanna, vuole dire che tutte le nostre preoccupazioni erano purtroppo fondate”. (Gaetano Pascale, presidente uscente di Slow Food, Corsera del 12 agosto).
Non poteva naturalmente mancare, sempre nella medesima cronaca, l’onnipresente ed ab illo tempore filogovernativa Coldiretti: “L’Italia deve porsi all’avanguardia nelle politiche di sicurezza alimentare nella UE e fare in modo che i controlli effettuati sui nostri prodotti vengano fatti anche su quelli stranieri che entrano nel nostro Paese” (si riferisce con ogni evidenza al caso del grano canadese con residui di gliphosate: in una prossima uscita su A.S., si cercherà di dimostrare la gratuita artificiosità di recenti affermazioni riportate su alcune testate, a partire proprio dai dati tossicologici ed eco tossicologici, n.d.r.).
Ma il gotha del pensiero gastro-culturale nazionale è stato raggiunto nell’intervista a Carlo Petrini (fondatore di Slow Food), il quale su La Stampa, sempre domenica 12 agosto, sosteneva che “La questione non è sostituire una molecola nociva con un’altra meno nociva: la questione è cambiare tipo di agricoltura”. E qui siamo al gran botto, ed allora champagne e cotillons per tutti.
Forse Petrini ignorava che per sviluppare una nuova sostanza attiva, una società chimica può arrivare a spendere fino a 200 milioni di €, anche a motivo di tutti i test che deve obbligatoriamente sostenere, per fornire alle Autorità competenti quelle necessarie garanzie a tutela dei cittadini-consumatori e dell’ambiente.
Ed allora, di fronte alle cifre ed agli scenari riportati, perché ancora tanto clamore per il gliphosate?
Si riportano per ulteriore comparazione i seguenti dati, per aiutare ulteriormente il lettore ad orientarsi tra le diverse cifre ed effettuare paragoni: l’agricoltura biologica sviluppa a livello mondiale un volume di affari di oltre 80 miliardi di dollari rispetto ai meno di 60 raccolti da tutti gli agrofarmaci messi insieme da tutte le multinazionali del Mondo. Nella sola Italia, soddisfa all’incirca il 3% della domanda interna di alimenti, occupando (foraggere incluse), circa il 10% della SAU nazionale¹º (che ammonta a circa 128.100 km², sulla base del censimento ISTAT del 2010).
Ma allora perché le filiere agroalimentari, peraltro, sono tutte tranne che amiche degli agricoltori?
Frequentemente vengono spremuti come dei limoni, dando loro quanto serve per tirare avanti.
E a volte neanche quello, a giudicare dalla progressiva contrazione del numero di aziende agricole italiane, specialmente per quanto riguarda il n° degli allevamenti, ove solo le aziende più grandi e strutturate riescono a sopravvivere alla crescente pressione commerciale cui sono sottoposte.
Traggo liberamente dal Ki ti paga del Sandroni: “Le dimensioni medie degli allevamenti stanno, non a caso, aumentando. E le dimensioni maggiori obbligano anche ad una crescente intensivizzazione, cioè a quell’insieme di pratiche che fanno rizzare i capelli a ecologisti, Gdo, consumatori e, purtroppo, anche a quelle associazioni che per lo più preferiscono sorridere al fianco di salumi Igp da gastronomia di lusso, invece di denunciare il dramma di un suinicoltore intensivo ridotto sul lastrico."
Si può capire che nell’attuale Mondo delle illusioni mediatiche sia più conveniente fare la bella faccia nei confronti del Grande Pubblico anziché fare quella brutta in difesa dei “rozzi contadini”, ma questa, per quanto puzzi un po’ di stalla, dovrebbe essere l’unica vera mission di certe realtà sindacali.
Realtà che invece sembrano più attente a mostrarsi allineate ai voli pindarici dei più, tuonando contro agro farmaci, sementi “industriali”, fertilizzanti e, perché no, anche contro l’adozione di colture geneticamente modificate.
Cioè tutti quei mezzi tecnologici che andrebbero invece ringraziati per averci fatto andare a letto sazi di cibo a prezzi accessibili, anziché sazi di sogni”.
Sempre l’autore del Ki ti paga?, prosegue con un interrogativo del tipo: i Cittadini saranno realmente ignari di tutto questo o concorrono anch’essi ad alimentare questo circuito non propriamente virtuoso?
Cercano prodotti che siano arrivati nel proprio frigorifero senza avere usato né “pesticidi”, né fertilizzanti e, perché no, che siano stati prodotti anche nella tutela del Fischione Maculato della Val Frugazza.
Però, quando al supermercato vedono un frutto con un danno ridicolo, lo lasciano lì.
“Loro, i Cittadini, comprano sempre le insalate di quarta gamma perché non hanno più il tempo di lavarsela, l’ortofrutta. E se il figlio alla mensa scolastica ci trova dentro un insettino la casa produttrice finisce in tribunale.
Perché la Natura, agli occhi di quei Cittadini (che non sanno distinguere un mandarino da un bergamotto), pare sia divenuta un’entità moralmente obbligata a non infilarsi nei loro occhi quando non richiesta.
Loro, infine, mica vogliono accettare quel rovescio della medaglia che l’agricoltura intensiva porta con sé: magari vegetariani, buddisti e omeopatici, vogliono solo chiudere il loro computer di bancario, di grafico pubblicitario o di commerciante e andare a cercare se stessi in Tibet o nelle erboristerie biologiche, lontano da “pesticidi”e inquinamenti vari. O almeno così Loro credono”.
Ed ancora: “non avendo memoria delle proprie radici contadine, recise un paio di generazioni prima (alcuni poi, se ne vergognano, n.d.r.), i Cittadini non riescono proprio a capire che per ritrovare se stessi gioverebbe più che altro riprendere la zappa sui colli, anziché lanciarsi su ogni moda new age dalle fumose pretese salutiste o ambientaliste”.
Industrie e Gdo hanno così capito molto bene che conveniva loro cavalcare queste pretese anacronistiche e hanno sapientemente amplificato ogni velleità cittadina (garantendo per es. di commercializzare solo prodotti con il 30% in meno dei residui di legge, oppure assicurando ai propri clienti di rifiutare merci con più di quattro residui differenti), riversandone le conseguenze su quei quattro gatti di agricoltori rimasti a produrre cibo per tutti. Che ciò non abbia alcun senso dal punto di vista tossicologico è assolutamente secondario, anche perché i capricci di immagine di certe Gdo finiscono spesso col rasentare il ricatto quando si arrivi a discutere di prezzi alla produzione, trattative dalle quali gli agricoltori escono sempre con le ossa rotte.
La stessa Coldiretti alcuni anni fa (era il periodo della “vacca pazza”), basò un’intera campagna di comunicazione sul seguente messaggio: “Sei proprio sicura che quello che mangia tuo figlio non contenga schifezze?” Nel rivolgersi alle madri, ne toccava il nervo più sensibile: i figli.
Il risultato fu che nelle mamme quel messaggio instillò anche il pensiero che oltre alla “vacca pazza”, di schifezze in giro ce ne fossero di tutti i tipi. Un autogol comunicativo notevole.
Sugli agricoltori sono state addossate le molteplici richieste di ricevere cibo abbondante e perfetto, prodotto però senza lasciare residui, senza usare concimi e magari operando anche in modo da non disturbare i nidi dei rarissimi Fischioni maculati della Val Frugazza.
Quattro gatti di agricoltori si diceva (i politici però, il loro numero lo hanno presente bene), anche se al confronto con USA ed Olanda sembreremmo un Paese “rurale”: da noi la percentuale di agricoltori si assesta attorno al 2,7 % del totale, mentre nei primi è pari allo 0,7% e nei secondi lo 0,41%.
Parecchi Cittadini dovrebbero pure considerare che mentre gettano nella spazzatura milioni di tonnellate di cibo all’anno, rendono inutili gran parte dei sacrifici che gli agricoltori stessi hanno sopportato. Parecchi anni prima, in Galilea, .dopo il miracolo di Cristo la folla riempì 12 canestri con i pezzi avanzati: non lascio il cibo in terra ai maiali pascolanti e ancora oggi, a qualcuno dovrebbe insegnare.
Si suggerisce ai moderni pretenziosi, di ricordare quando i lori bisnonni abbandonarono i massacranti lavori nelle campagne, per finire nelle tute blu delle fabbriche.
A quel punto, forse, “capirebbero perché oggi i pochi rimasti a farsi il mazzo usano trattori, diserbanti e concimi, visto che da un rapporto 1:1 fa chi produceva cibo e lo consumava del 1950, siamo arrivati ad un rapporto di 1:32 (1: 140 negli USA e 1:250 in Olanda, n.d.r.).
E soltanto con la zappa e con l’aratro trainato dai buoi un agricoltore non ce la può davvero fare”.
Se così stanno le cose, può l’1% della popolazione del Mondo occidentale compensare, attraverso i propri sacrifici, i danni fatti dal rimanente 99%?
Solo il Bio e i settori similari pare si salvino da tale gioco al massacro della scarsa remunerazione (che riguarda non solo le coltivazioni, ma anche i prodotti dell’allevamento). E forse è anche per questo che parte degli agricoltori si è spostata su questo orientamento produttivo. Qualcuno per convinzione, altri per necessità, altri per mera scaltrezza, come osserva il Sandroni e con il quale si concorda pienamente.
“Perché alla fine, stando nei panni di un agricoltore costantemente sotto attacco, pare facile decidere di passare al Bio e di vendere prodotti belli e infiorettati nelle catene di Slow Food ed Eataly, anziché nei supermercati.
Poi magari un giorno si renderà conto che anche lì è una questione di domanda e offerta e quindi il giochino si incepperà. Ma fino a lì saranno soldi per tutti. Magari per qualcuno di più e per qualcun altro di meno. E quest’ultimo, non ci si illuda, sarà sempre l’agricoltore, anche se Bio”.
Sempre dal “Ki”: “Perché il business può reggere solo finché i consumatori continueranno a credere a chi afferma che il Bio sia sempre più sano del convenzionale e che sia sempre un business onesto. Se questi idealisti dell’agroalimentare dovessero realizzare che parte dell’ortofrutta Bio che comprano, a prezzi anche più cari del normale, è in realtà un bidone confezionato dai soliti furbi, forse l’intero comparto subirebbe danni importanti”. I lettori ricorderanno a questo punto le bizzarre prese di posizione del duo Carnemolla-Triarico di Federbio. Al proposito A.S. aveva ospitato autorevoli interventi in risposta alle suddette reprimende dei menzionati soggetti (che incalzati, non si sono più fatti sentire e già questo particolare la dice lunga).
Giudichino perciò i lettori, sulla base dei dati richiamati, se le missive federbiologiche erano effettivamente “contro” oppure, diversamente, perfettamente funzionali all’attuale sistema agroalimentare.
“Non far sapere al contadino quanto è buono il cacio con le pere”, recita un vecchio proverbio. Soprattutto se entrambi gli vengono remunerati una miseria.
Il Bio sembra essere pertanto una pregevole opportunità di reddito per quei produttori agricoli che si vogliano differenziare sui mercati dei Paesi ricchi.
Agricoltori, è bene sottolinearlo, tra cui ne esistono numerosi di assoluta onestà ed affidabilità.
Un breve inquadramento della filiera agroalimentare nazionale risulta a questo punto opportuno.
Proseguendo nell’indagine di Sandroni, secondo Ismea (acronimo di Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare), il valore complessivo dell’agroalimentare italiano sarebbe stimabile in 250 miliardi di €, di cui però solo 12 sarebbero generati dalle produzioni Dop e Igp, ovvero il 5% circa del tot. Di questi 12 miliardi poco più di 10 verrebbero portati da sole 10 Dop e Igp, fra le quali spiccano ovviamente quelle dei due noti prosciutti, Parma e San Daniele, e i due noti formaggi, Grana Padano e Parmigiano Reggiano.
La top ten delle Dop e delle Igp italiane rappresenterebbe quindi l’84% dell’intero business di pregio italiano (questi dati, sono già per sé una risposta a chi sostiene che il trattato C.E.T.A. non tuteli a sufficienza tutte le denominazioni di origine).
Il resto sono quindi minutaglie, molto più adatte alle sagre paesane che al business agroalimentare globale.
Per di più a livello di import export le cose non sembrano tanto rosee; l’import di prodotti agroalimentari sarebbe infatti di 45 miliardi, contro un export di soli 37. La nostra bilancia commerciale sarebbe quindi in negativo di ben 8 miliardi (ma gli ultimi rilievi successivi all’uscita del libro, indicano raggiunta la quota di 10 miliardi, n.d.r.), pari a due terzi del business di tutti i Dop e Igp italiani messi assieme. Al contrario di Germania e Francia, le cui esportazioni sono pari rispettivamente a 55 e 42 miliardi di €.
Passi per la Francia, patria anch’essa di grandi vini e formaggi, ma la Germania?
Quando i vari Oscar Farinetti, Carlo Petrini e i molti cultori dell’enogastronomia di pregio sostengono l’agroalimentare elitario come unico futuro per l’Italia, di cosa si sta parlando in realtà? Chiudono il quadretto, i favoleggiamenti indo-brahminici di Vandana Shiva…, che pure hanno trovato ascolto nel recente passato all’interno di alcune Sedi istituzionali. Perché al pari dei ponti che crollano, per l’agricoltura italiana che è sempre meno forte sotto il profilo della sicurezza alimentare interna (e anche della redditività), si pone il problema di qualità e selezione di certa classe dirigente con la pletora dei portaborse, per esperienza diretta¹¹ legati alle volte direttamente al mondo ambientalista e gastro-culturale.
E quell’accidente di inquinamento da micotossine di intere derrate dove lo mettiamo? A distanza di anni e nonostante pubbliche denunce¹², si continua a non solo a non ricevere risposte (anche se qualche scandalo più o meno grosso nel frattempo è emerso¹³), ma a seconda del bisogno si seguita a dar da mangiare ai digestori del biogas (che tra l’altro, godono pure di incentivi pubblici). Altro che continuare a menare il can per l’aia con il gliphosate!
Tragedie come quelle del foggiano le cui vittime rappresentano i nuovi schiavi dell’età contemporanea, dovrebbero insegnare che forse la narrazione fino ad oggi presentata, in diversi punti ha fatto cilecca.
Infine a chi avesse l’opportunità, durante queste vacanze di girare per l’Italia, non sfuggirà certamente che c’é una profonda differenza dal fare il turista in Calabria e la stessa persona che fa la spesa al supermercato.
Da turista egli apprezzerà molto i prodotti locali, tipici della zona che avrà scelto per la sua villeggiatura. In ogni Provincia d’Italia vi sono infatti prelibatezze del tutto originali, le quali se si è saggi non ce le si fa di certo sfuggire.
Quando però tornerà a casa, in città, la spesa la farà al supermercato: se valutasse attentamente la percentuale di prodotti a chilometro zero su cui può contare nel luogo di residenza, il suo carrello della spesa resterebbe praticamente vuoto.
Tutto ha un prezzo, ma all’interno della “catena del valore” e a partire proprio da quelle campagne pugliesi e molisane, gli uomini non devono mai essere considerati alla stregua delle merci.
Ci si chiede a questo punto: quanti tra i “nemici” dichiarati di Monsanto, avranno mai sentito nominare di ADM, Bunge, Cargill e Luis Dreyfus (le cosidette ABCD), così come di Glencore?
In caso di risposta negativa, potrebbero reindirizzare il quesito direttamente ai vari Petrini-Farinetti-Coldiretti (Shiva lasciamola stare, che magari trova la scusa di tornare in Italia, ed abbiamo già visto che viene a costare troppo), riformulandolo magari nel seguente modo: perché ABCD non le avete mai citate, nemmeno "sfiorate con un dito"?
Chissà perché, a questo punto mi viene in mente un refrain: "Ok il prezzo è giusto!"
Riferimenti essenziali:
¹Cantarelli A., La Terra: lascito dei genitori o prestito dei figli? Le contraddizioni del processo di trasformazione ed evoluzione dell’agricoltura italiana. Novembre 2015. Disponibile su: https://agrariansciences.blogspot.it/2015/11/la-terra-lascito-dei-genitori-o.html
²Cantarelli A. L’evoluzione dell’agricoltura italiana.La trasmissione del patrimonio di valori ambientali, etici e sociali punto di forza per la ricostruzione di un modello di sviluppo. In Bonini G., Pazzagli R. (a cura di) Quaderni n. 10, paesaggi, culture e cibo. Edizioni Istituto Alcide Cervi,Gattatico, 2015, pp. 275-293.
Disponibile nella versione on line: https://agrariansciences.blogspot.it/search/label/Agricoltura%20italiana
³Turus G. (a cura di Alessandro Cantarelli). Bioresistenze. Novembre 2017. Disponibile su: https://agrariansciences.blogspot.com/search?q=turus
⁴https://it.notizie.yahoo.com/foggia-al-via-sciopero-braccianti-furlan-colpa-dellindifferenza-090410317.html
⁵Sandroni D., KI TI PAGA? Le menzogne sul cibo e sull’agricoltura. Orsa maggiore editoriale, Settimo milanese, 2014.
⁶Sandroni D., ORCO Glifosat. Storia di lobby, denaro, cancri e avvocati. Orsa maggiore editoriale, Settimo milanese, 2018.
⁷Saltini A., Le campagne terreno dello scontro sociale: l’opera agraria dell’erede di Engels In: Saltini A., Storia delle Scienze Agrarie (VI° vol.), Ed. Nuova Terra Antica, Firenze, Tipografia Seriart, Fabriano, 2013, cap. VIII°.
⁸Saltini A., Social clashes in the countryside: agrarian labour analyzed by a disciple of Marx and Engels. In: Saltini A. (translated by Scott. J.J.), Agrarian Sciences in the West (volume six), Ed. Nuova Terra Antica, Firenze, Tipografia Seriart, Fabriano, 2018, chap. VIII.
⁹Trovato I., Coop, i ricavi salgono a 14,8 miliardi. Un piano per crescere al Sud. Corriere della Sera, sabato 14 luglio 2018.
¹ºCantarelli A., La legge del minimo e gli alfieri della produzione perduta. Maggio 2018. Disponibile su: https://agrariansciences.blogspot.com/2018/05/la-legge-del-minimo-e-gli-alfieri-della.html
¹¹Cantarelli A., Conclusioni del convegno “La Terra. Lascito dei genitori o prestito dei figli?"- Note critiche. Novembre 2017 Disponibile su: https://agrariansciences.blogspot.com/2017/11/conclusioni-del-convegno-la-terra.html
¹²Alessandro Cantarelli, agronomo, conversa con Antonio Saltini storico delle scienze agrarie, sul 7° volume della Sua Storia delle Scienze Agrarie.
Il Novecento: la sfida tra le conoscenze agronomiche e la crescita della popolazione del Globo.
Intervista disponibile sul sito della biblioteca “A. Bizzozero” di Parma al seguente indirizzo:
¹³Cantarelli A. Micotossine nel Parmigiano Reggiano: casualità o conseguenza di improbabili divieti? Luglio 2014. Disponibile su: https://agrariansciences.blogspot.com/2014/07/micotossine-nel-latte-per-il-parmigiano.html
Negli anni seguenti casi analoghi si sono verificati anche a carico di altre DOP, così come in intere partite di derrate alimentari, sono stati rilevati valori di micotossine superiori ai limiti di legge. Tali prodotti, sono stati obbligatoriamente sequestrati dalle Autorità di controllo per essere tolti dal consumo alimentare
Alessandro Cantarelli
Laureato in Scienze Agrarie presso la Facoltà di Agraria di Piacenza, con tesi in patologia vegetale. Dal febbraio 2005 lavora presso il Servizio Territoriale Agricoltura Caccia e Pesca di Parma (STACP), della Regione Emilia Romagna (ex Servizio Provinciale), dapprima come collaboratore esterno, successivamente come dipendente. E’ stato dipendente presso la Confederazione Italiana Agricoltori di Parma. Ha svolto diverse collaborazioni, in veste di tecnico, per alcuni Enti, Associazioni e nel ruolo di docente per la formazione professionale agricola. Iscritto all’Ordine dei dottori Agronomi e Forestali ed alla FIDAF parmense.
Ho condiviso questo articolo su facebook perché quando qualcuno "dà i numeri" mi piace e sinceramente , devo riconoscerlo, non sopporto Slow Food.
RispondiEliminaRingrazio per l’apprezzamento ed auspico che anche tramite Facebook, si possano diffondere maggiormente i dati riportati.
RispondiEliminaEffettivamente e per “non dare eccessivamente i numeri”, col rischio reale di appesantirne il già ricco elenco, non mi sono soffermato sul fatto, che effettivamente la stessa Slow Food si possa considerare una vera e propria impresa multinazionale.
Conta infatti circa 100.000 associati in tutto il mondo, operando attraverso sedi locali (410 “condotte” in Italia, 1.000 “convivium” in 130 Paesi).
In Italia è proprietaria di una casa editrice che pubblica due riviste, libri, manuali, guide gastronomiche…, gestisce una società di servizi, varie Onlus ed un’Università: quella in Scienze gastronomiche a Pollenzo (Cn).
Gestisce inoltre la Banca del Vino e la fondazione Terra Madre. Organizza i Presidi Slow Food, quindi iniziative quali Il Salone del Gusto di Torino, Slow Fish e Cheese.
Una multinazionale che raccoglie ingenti finanziamenti ed ha rapporti di collaborazione con governi e imprese.
Approfondire questi aspetti, richiederebbe una trattazione a parte. Perché non si possono, se non altro per coerenza, accusare solo alcune multinazionali ed ignorarne delle altre. Magari perché più o meno vicine ai “propri” interessi.
Su Slow Food segnalo comunque due letture di approfondimento: 1) La filosofia di Slow Food. In: S. Fuso. naturale=Buono? Carocci ed., 2016, pp. 82-86.
2) L. Simonetti. Mangi chi può. Meglio, meno e piano. L’ideologia di Slow Food. Pagliai ed.,2010.
In definitiva il consumatore cosa dovrebbe fare:
RispondiElimina"dovrebbe riprendere la zappa sui colli"
L'1% che ha già la zappa e non riesce comunque a fare a meno di andare ad acquistare alimenti, dove dovrebbe acquistare?
snocciolo altri numeri di fatturati della GDO:
Carrefour 81 miliardi di €
REWE group (Penny market, Billa) 50,6 miliardi di €
Auchan(Simply market, punto Simply, Punto SMA)42,5 miliardi
Spar 29,7 miliardi di €
Coop 14,5 miliardi di €
Conad 13 miliardi di €
Selex(Dpiù,Famila,ecc.) 10,35 miliardi di €
Esselunga 7,7 miliardi di €
Gruppo VéGé(DiMeglio,Sidis) 6,2 miliardi di €
Crai 4,25 miliardi di €
Eurospin 4,2 miliardi di €
Il totale dei fatturati delle catene presenti nel nostro Paese darebbe quindi 264 miliardi di €, ossia circa 20 volte il fatturato di Monsanto pre-fusione con Bayer (grazie per questi dati).
RispondiEliminaSi lascia ai lettori a questo punto il beneficio del dubbio, rispetto la narrazione corrente della Monsanto schiavista a tutti i costi, con tutti gli altri attori costretti invece a subire. Sulla reale pericolosità tossicologica ed efficacia agronomica del diserbante gliphosate, A.S. ha invece già ospitato diversi ed ampi interventi.
Lei mi chiede in questo scenario dove dovrebbero ad acquistarli, i consumatori, gli alimenti.
Proprio perché la maggior parte degli alimenti acquistati passa dalle Gdo e, a quanto pare, alla maggioranza dei consumatori fa pure comodo che sia così (per tanti aspetti che non si richiamano in questa sede), sarebbe già un ottimo traguardo come consumatori informati, il non aderire/postare acriticamente quelle campagne di disinformazione che hanno per risultato il misconoscimento del lavoro agricolo.
E naturalmente le rappresentanze agricole e le Istituzioni ognuno per il proprio ambito, devono tutelare il settore agrario.
Cosa succederebbe se all’improvviso gli scaffali dei supermercati non risultassero più colmi di ogni genere alimentare (le “schifezze” secondo l’infelice espressione che ho richiamato)? Perché l’altro pericolo è dare tutto per scontato, che è un modo come un altro di disprezzare la il settore rurale e chi ci vive.
Per sopravvivere le imprese agricole devono arrivare così a tagliare anche sui costi del personale.
Che in situazioni particolari come quelle delle campagne pugliesi e molisane richiamate nei fatti di cronaca, questo meccanismo al ribasso può degenerare costituendo così l’humus per il caporalato.
E la risposta agricola, non può essere solo/sempre quella di convertirsi ai prodotti di nicchia (nulla in contrario a chi riesce nell’impresa, ma se non è da tutti arrivare a creare un Sassicaia, d’altra parte non tutti i giorni può presentarsi un Gérard Depardieu). Questo nel comune interesse.
Tutti abbiamo sentito dire/letto del cibo oramai inquinato da “pesticidi” tout court, che gli allevamenti emanano cattivi odori e portano le mosche ed allora li facessero da un’altra parte…, delle invenzioni più fantasiose sugli o.g.m, per arrivare a convincerci che ci stiamo avvelenando tutti. Queste campagne di disinformazione, se più o meno artatamente orchestrate lo diranno i lettori, a chi avranno fatto comodo? Agli agricoltori certamente no (almeno quelli non “bio” e nemmeno a tutti quelli), nemmeno ai consumatori se si guarda bene, ed è esattamente quello che ho cercato di riportare.
Perché è anche successo che un tale abituato ad aizzare le folle, di sana pianta si è inventato che 60 persone sono morte dopo avere mangiato il “pomodoro-pesce” in quanto erano allergiche al pesce (”Ki ti paga”?, p.22), si ritrovi pure a “dirigere” la politica nazionale. Lui non ha mai dato conto di queste stupidaggini, ma alla fine qualcuno invece quel conto lo sta ancora pagando.
Nel mutuare l’espressione di Sandroni “dell’andar sui colli a zappare”, l’invito è rivolto essenzialmente a quelle schiere di consumatori (non la totalità ovviamente, come coloro che conservano o coltivano la memoria contadina), che con la loro ipocrisia cittadina (mi viene in mente l’intervento di Luciano Sassi ospitato su queste pagine), contribuiscono ad erodere la reddittività delle aziende agricole. Invece di mettersi la cuffietta per “staccare” ed andare a fare jogging, provassero qualche volta a lavorare loro la terra (che è bassa). Magari troverebbero pure il tempo di mondare l’insalata (e capirebbero meglio che non è facile proteggerla dai nemici naturali), anziché ricorrere alla quarta gamma (così risparmierebbero).
A quel punto, ne potremmo riparlare.
Nell'elenco sopra riportato a commento, delle catene Gdo presenti in Italia,non compare la comasca Bennet che fattura comunque 2,2 miliardi di euro. Potrebbero quindi seguire altre catene minori..., ma senso e proporzioni non cambierebbero comunque.
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