di ALFONSO PASCALE
Caro Antonio,
ti ringrazio per essere tornato su un mio articolo, ormai invecchiato, che trattava un argomento che interessa solo alla piccola cerchia dei nostri affezionati lettori: la tragicomica vicenda della Federconsorzi. Avevo attinto molto ai tuoi scritti, che restano pietre miliari di un tema storiografico e – aggiungerei - di costume, nevralgico per comprendere l’intera vicenda dell’Italia contemporanea. E avevo sviluppato un’analisi dei fatti da un’angolatura diversa dalla tua. E dunque sono ora contento che hai trovato la mia analisi comunque collimante con la lettura che ne avevi dato tu, nei tuoi scritti.
Mi interroghi ora su un tema che abbiamo solo sfiorato nelle nostre rispettive ricostruzioni: come sono andati a finire i processi penali che furono avviati a seguito della procedura fallimentare? C’è stato qualcuno che ha pagato per quella “immane appropriazione di ricchezza pubblica”?
Ricorderai che furono aperti due procedimenti giudiziari distinti per accertare l’esistenza di reati fallimentari e i relativi colpevoli: uno presso il Tribunale di Perugia per l'attività svolta dagli organi della procedura; l’altro presso il Tribunale di Roma per l’attività svolta dagli amministratori e dai sindaci fino al commissariamento.
Il primo si è definitivamente concluso nel 2006 con la sentenza della Corte di Cassazione che assolve Pellegrino Capaldo, ideatore del “piano” a cui dette il nome, e Ivo Greco, presidente del tribunale fallimentare. Erano stati entrambi condannati dal Tribunale di Perugia a 4 anni e successivamente assolti in Corte d’Appello.
Il secondo procedimento è fermo presso la Corte d’Appello di Roma a cui il caso Federconsorzi è stato rinviato nel 2009 dalla Corte di Cassazione a seguito di una propria sentenza che annulla quella, emessa nel 2008, dal Tribunale di Roma.
Ma vediamo con ordine i fatti. Per quattro imputati il Tribunale capitolino aveva dichiarato estinti i reati per sopraggiunta dipartita e per gli altri aveva dichiarato “gli stessi reati estinti per intervenuta prescrizione”. Contro questa sentenza era ricorso in Cassazione il Procuratore della Repubblica. Esaminati gli atti, la quinta sezione penale del Palazzaccio ha concluso: “Balza evidente l’assoluta mancanza di adeguata motivazione in patente violazione del disposto dell’art. 125, comma 3, cpp. Ed infatti i giudici di merito, nel dichiarare estinto il reato per intervenuta prescrizione, hanno omesso di specificare a quali ipotesi di reato si riferissero e quale fosse per ciascuna di esse il ‘dies a quo’, mancando poi di indicare il computo del relativo periodo prescrizionale”. In altre parole, la Cassazione ha rilevato che il Tribunale di Roma non ha ben chiarito quali fossero i reati contestati andati in prescrizione; né ha spiegato quali fossero i termini temporali da cui ha fatto partire il conteggio. Insomma, la suprema Corte ha constatato l’assenza della prescrizione e tutto è tornato in discussione.
Sono trascorsi quasi dieci anni e la Corte d’Appello non ha ancora né individuato i reati contestati agli amministratori e ai sindaci, né rifatto i conteggi per calcolare la prescrizione.
La mia opinione è che la vicenda, di fatto, si è conclusa l’11 giugno 2010 significativamente all’Istituto “Luigi Sturzo”, l’ente morale voluto da un gruppo di amici del fondatore del Partito Popolare. Il quale aveva speso gli ultimi anni della sua esistenza per denunciare le malefatte di Paolo Bonomi e gli intrecci perversi tra pubblico e privato che caratterizzavano la gestione della Federconsorzi.
Basti qui ricordare le dure critiche di don Sturzo al capo della Coldiretti che, utilizzando le risorse della Federconsorzi, finanziava la Dc. E critiche analoghe il sacerdote di Caltagirone rivolgeva ad Enrico Mattei che con l’Eni finanziava la corrente di Base dello stesso partito. Sturzo si fece promotore di una legge sulle incompatibilità - approvata dal Parlamento nel 1953 - che imponeva di scegliere tra lo scranno parlamentare e la guida di enti che gestivano funzioni e flussi finanziari pubblici. Quella legge non aveva un intento genericamente di moralizzazione della politica, ma racchiudeva il proposito, assai più ampio e ambizioso, di dare una precisa forma alla relazione tra Parlamento, Governo e Amministrazione pubblica, capace di rafforzare e consolidare una democrazia ancora gracile (“una bambina linfatica” nelle parole di Sturzo) che andava liberata dai fardelli e dalle degenerazioni ereditate dal fascismo. Ebbene, Enrico Mattei lasciò il suo seggio parlamentare e optò per la presidenza dell’Eni, ma Paolo Bonomi conservò la funzione di parlamentare ponendo alla guida della Federconsorzi – d’intesa con Mizzi - un suo uomo, Nino Costa, il nipote di Segni, il grande proprietario terriero il quale faceva, per professione, l’agricoltore in Sardegna e, per hobby, il presidente a Roma. Così, senza ritegno, aggirò la legge Sturzo e continuò a controllare la Federconsorzi dalla poltrona di presidente della Coldiretti.
In quella sede altamente simbolica, dunque, alla presenza di uno stuolo di politici, come Emilio Colombo e Gerardo Bianco, di giuristi, come il giudice della Corte Costituzionale Paolo Maria Napolitano, e di giornalisti, venne presentato un libro che, il giorno successivo, la stampa indicò come il “dossier di uno dei maggiori errori giudiziari degli ultimi decenni”. Il titolo del volume è “Processo a un’idea”, edito da Brioschi, e l’autore si chiama Giovanni Panebianco, in forza alla Guardia di Finanza presso il servizio investigazione criminalità organizzata e, successivamente, distaccato presso la Presidenza del Consiglio con vari ruoli dirigenziali. È stato anche consulente della Commissione bicamerale sul dissesto della Federconsorzi, curando accertamenti societari sul territorio nazionale.
La tesi del libro è che Capaldo e Greco siano “stati condannati per aver rispettivamente ideato e approvato un piano di salvataggio efficace ma anomalo”. Il tutto sarebbe stato frutto del “profondo malessere della giustizia italiana tra processi lunghissimi, indagini politiche e inefficienze sconcertanti. Una giustizia che, talvolta, processa e condanna un'idea solo perché portatrice di innovazione e discontinuità” (il virgolettato è preso dalla quarta di copertina).
Le cronache raccontarono che nel confronto, moderato dall’editorialista del “Sole 24 Ore” Stefano Folli, Capaldo avrebbe spiegato: “Alla Società gestione per il realizzo (Sgr) potevano partecipare solo i creditori e in proporzione ai loro crediti. Così si evitavano lunghe e dannose procedure tradizionali che si protraggono anche per 10-20 anni. Un’idea limpida, che non poteva celare intenti speculativi. Anzi, voleva essere un modello per il futuro. Tutto andò benissimo, fino all’incursione della procura di Perugia”. E Greco avrebbe aggiunto: “I giudici non si ringraziano mai, né per le sentenze giuste e dovute né per quelle ingiuste che il sistema deve correggere. Ma a quelli della Cassazione voglio dire un grazie perché nella sentenza sono andati oltre il dovuto, sottolineando la mancanza assoluta del mero sospetto di un’ipotesi di corruttela, anche se questa non è stata mai apertamente avanzata”.
Don Sturzo si sarà rivoltato nella tomba per quel sacrilego rito funebre celebrato proprio nel luogo che conserva le sue opere e da cui si dovrebbe divulgare il suo pensiero: lì infatti avveniva la sepoltura degli aspetti penali del crac Federconsorzi.
Ma come, mi dirai, resta ancora in piedi l’altro procedimento? È vero. L’altro c’è ma è destinato a non estinguersi mai perché è assoggettato ad una servitù a vantaggio di quello dominante.
Alcuni amici che se ne intendono mi hanno illustrato un quarto espediente in aggiunta ai tre da te elencati: l’imputazione a vita, la quale non si interrompe nemmeno con la prescrizione, come incautamente era avvenuto nel giudizio di primo grado. In tal modo l’imputato sarebbe tenuto a rispettare per sempre una sorta di “segreto investigativo”. E così la pietra sepolcrale non sarebbe più stata rimossa.
In questo modo i partecipanti (o “complici” come imporrebbe lo Zingarelli) all’impresa si sono potuti dedicare esclusivamente ad altri aspetti della vicenda. Ricorderai che i commissari nominati da Goria convennero in giudizio dinanzi al Tribunale civile di Roma il ministero delle Politiche agricole chiedendo il pagamento dell’importo di 463 milioni di lire, oltre ad interessi convenzionali nella misura del T.U.S. maggiorato del 4,40 % con capitalizzazione semestrale, per crediti maturati nei confronti dello Stato a titolo di compenso per attività di gestione degli ammassi obbligatori di cereali effettuati dai consorzi agrari nel secondo dopoguerra, nell’ambito del Piano Marshall (1948-1951). Si costituì in giudizio il Ministero chiedendo il rigetto della domanda; intervenne, in seguito, la Liquidazione giudiziale dei beni della Federconsorzi a seguito dell’omologa del concordato preventivo in adesione alle richieste del Commissario governativo. Nel contenzioso s’inserirono anche cinquecento dipendenti della Federconsorzi licenziati a seguito del commissariamento.
Nello stesso anno in cui avvenne il “rito funebre” all’Istituto Sturzo, la Corte di Appello confermò il credito nella misura di “euro 511.878.997,39, oltre gli ulteriori interessi pari al tasso ufficiale di sconto aumentato del 4,40% capitalizzato semestralmente maturato e maturando dal 1° luglio 2004 fino alla data dell’effettivo pagamento”.
Sempre nello stesso anno si verificò un strano colpo di scena. Il ministro delle Politiche agricole, Giancarlo Galan, nominò l’ex magistrato della Corte dei conti, Andrea Baldanza, commissario della Federconsorzi con il compito di svolgere una ricognizione dei contenziosi (sia quello relativo alla gestione ammassi, sia quello riguardante gli ex dipendenti) e di definirli, anche in via transattiva. Ma a questo incarico non ha mai fatto seguito – per la sacrosanta opposizione di una parte considerevole del mondo agricolo - l’assegnazione di risorse per poter svolgere i compiti affidati. Tutti i tentativi di dirottare finanziamenti alla riesumata Federconsorzi sono stati prontamente sventati dall’opposizione determinata ed efficace di tutte le organizzazioni agricole che non vogliono la perpetuazione di un sistema di potere arrogante e corruttivo rappresentato dalla Coldiretti. Nonostante tale carenza, il dott. Baldanza ha proceduto comunque a transigere con le controparti senza avere nulla in mano, ma solo facendo affidamento sul fatto che lo Stato un giorno o l’altro dovrebbe trasferire i crediti alla gestione commissariale. Come ha dichiarato egli stesso nel corso dell’audizione informale in Commissione Agricoltura della Camera, il 5 ottobre 2017, si è trattato di mettere in gioco “l’aspettativa del debito dello Stato, confidando che lo Stato, se debitore, prima o poi dovrà adempiere alle proprie obbligazioni”.
Nel dicembre 2017 alcuni parlamentari del M5S (primo firmatario l’on. Gallinella) hanno presentato in occasione della discussione sulla legge di stabilità il seguente emendamento: “In ordine ai crediti spettanti alla Federconsorzi e maturati nei confronti dello Stato a titolo di compenso per l’attività di gestione degli ammassi obbligatori dei prodotti agricoli entro sei mesi il Ministero delle Politiche agricole provvede a liquidare le pendenze in essere tra il personale ex dipendente e la Federazione. A conclusione del processo di liquidazione di cui sopra, i crediti si considerano estinti”.
I parlamentari grillini hanno proposto una norma che vorrebbe rispondere positivamente alle aspettative dei lavoratori. Ma non si sono resi conto che, cedendo a tale pressione, di fatto aprivano la stura al riconoscimento di crediti di settanta anni fa che sarebbero andati agli stessi soggetti che portarono la Federconsorzi al disastro. Fortunatamente l’emendamento è stato respinto.
Con una nota riepilogativa dell’intera vicenda della Federconsorzi, pubblicata sulla rivista Olio Officina Magazine, ho rilevato, in riferimento ad alcune mail inviate al direttore Luigi Caricato da alcuni ex dipendenti della ex holding agroalimentare, che sarebbe più sensato non legare le aspettative dei lavoratori con i presunti crediti per la gestione degli ammassi. Ci sono persone che hanno diritto ad un risarcimento? C’è un giudice che ha accertato che chi doveva ricollocarli dopo il licenziamento non lo ha fatto e che un organo dello Stato doveva vigilare perché questo avvenisse e non ha fatto il proprio dovere? Bene. Provveda lo Stato a risarcire il danno direttamente. Si proponga un emendamento che riconosca questo diritto. Ma cosa c’entrano gli ammassi di settanta anni fa con una condotta omissiva che si è consumata venticinque anni fa? Perché riesumare a tutti i costi un’organizzazione economica morta e sepolta da un quarto di secolo? Perché pagare onorari e strutture a gestioni commissariali del tutto inutili? Forse è del tutto inutile porsi queste domande. Accetto scommesse che nella prossima legge di stabilità, in allestimento al ministero dell’Economia, si porrà di nuovo la questione dei crediti. E vedremo se adesso, con un Parlamento a maggioranza grillino-leghista, i partecipanti (o “complici” come suggerisce più propriamente lo Zingarelli) all’impresa la spunteranno.
Presidente del CeSLAM (Centro Sviluppo Locale in Ambiti Metropolitani). Vicepresidente nazionale della Confederazione Italiana Agricoltori dal 1992 al 2002, ha promosso nel 2005 l’associazione “Rete Fattorie Sociali” di cui è stato presidente fino al 2011. È autore di diversi volumi, tra i quali “Partire dal territorio. Agricoltura, rappresentanza e politica nell'Italia che cambia” (Rce, 2002), “Il '68 delle campagne” (Rce, 2004), “Radici & Gemme. La società civile delle campagne dall’Unità ad oggi” (Cavinato, 2013), "Educarci all'agricoltura sociale. Prove di terziario civile innovativo" (GAL Capo di Leuca, 2015), "La casa comune è casa di tutti" (con M. Campli, Informat, 2016). www.alfonsopascale.it
Ricorderai che furono aperti due procedimenti giudiziari distinti per accertare l’esistenza di reati fallimentari e i relativi colpevoli: uno presso il Tribunale di Perugia per l'attività svolta dagli organi della procedura; l’altro presso il Tribunale di Roma per l’attività svolta dagli amministratori e dai sindaci fino al commissariamento.
Il primo si è definitivamente concluso nel 2006 con la sentenza della Corte di Cassazione che assolve Pellegrino Capaldo, ideatore del “piano” a cui dette il nome, e Ivo Greco, presidente del tribunale fallimentare. Erano stati entrambi condannati dal Tribunale di Perugia a 4 anni e successivamente assolti in Corte d’Appello.
Il secondo procedimento è fermo presso la Corte d’Appello di Roma a cui il caso Federconsorzi è stato rinviato nel 2009 dalla Corte di Cassazione a seguito di una propria sentenza che annulla quella, emessa nel 2008, dal Tribunale di Roma.
Ma vediamo con ordine i fatti. Per quattro imputati il Tribunale capitolino aveva dichiarato estinti i reati per sopraggiunta dipartita e per gli altri aveva dichiarato “gli stessi reati estinti per intervenuta prescrizione”. Contro questa sentenza era ricorso in Cassazione il Procuratore della Repubblica. Esaminati gli atti, la quinta sezione penale del Palazzaccio ha concluso: “Balza evidente l’assoluta mancanza di adeguata motivazione in patente violazione del disposto dell’art. 125, comma 3, cpp. Ed infatti i giudici di merito, nel dichiarare estinto il reato per intervenuta prescrizione, hanno omesso di specificare a quali ipotesi di reato si riferissero e quale fosse per ciascuna di esse il ‘dies a quo’, mancando poi di indicare il computo del relativo periodo prescrizionale”. In altre parole, la Cassazione ha rilevato che il Tribunale di Roma non ha ben chiarito quali fossero i reati contestati andati in prescrizione; né ha spiegato quali fossero i termini temporali da cui ha fatto partire il conteggio. Insomma, la suprema Corte ha constatato l’assenza della prescrizione e tutto è tornato in discussione.
Sono trascorsi quasi dieci anni e la Corte d’Appello non ha ancora né individuato i reati contestati agli amministratori e ai sindaci, né rifatto i conteggi per calcolare la prescrizione.
La mia opinione è che la vicenda, di fatto, si è conclusa l’11 giugno 2010 significativamente all’Istituto “Luigi Sturzo”, l’ente morale voluto da un gruppo di amici del fondatore del Partito Popolare. Il quale aveva speso gli ultimi anni della sua esistenza per denunciare le malefatte di Paolo Bonomi e gli intrecci perversi tra pubblico e privato che caratterizzavano la gestione della Federconsorzi.
Basti qui ricordare le dure critiche di don Sturzo al capo della Coldiretti che, utilizzando le risorse della Federconsorzi, finanziava la Dc. E critiche analoghe il sacerdote di Caltagirone rivolgeva ad Enrico Mattei che con l’Eni finanziava la corrente di Base dello stesso partito. Sturzo si fece promotore di una legge sulle incompatibilità - approvata dal Parlamento nel 1953 - che imponeva di scegliere tra lo scranno parlamentare e la guida di enti che gestivano funzioni e flussi finanziari pubblici. Quella legge non aveva un intento genericamente di moralizzazione della politica, ma racchiudeva il proposito, assai più ampio e ambizioso, di dare una precisa forma alla relazione tra Parlamento, Governo e Amministrazione pubblica, capace di rafforzare e consolidare una democrazia ancora gracile (“una bambina linfatica” nelle parole di Sturzo) che andava liberata dai fardelli e dalle degenerazioni ereditate dal fascismo. Ebbene, Enrico Mattei lasciò il suo seggio parlamentare e optò per la presidenza dell’Eni, ma Paolo Bonomi conservò la funzione di parlamentare ponendo alla guida della Federconsorzi – d’intesa con Mizzi - un suo uomo, Nino Costa, il nipote di Segni, il grande proprietario terriero il quale faceva, per professione, l’agricoltore in Sardegna e, per hobby, il presidente a Roma. Così, senza ritegno, aggirò la legge Sturzo e continuò a controllare la Federconsorzi dalla poltrona di presidente della Coldiretti.
In quella sede altamente simbolica, dunque, alla presenza di uno stuolo di politici, come Emilio Colombo e Gerardo Bianco, di giuristi, come il giudice della Corte Costituzionale Paolo Maria Napolitano, e di giornalisti, venne presentato un libro che, il giorno successivo, la stampa indicò come il “dossier di uno dei maggiori errori giudiziari degli ultimi decenni”. Il titolo del volume è “Processo a un’idea”, edito da Brioschi, e l’autore si chiama Giovanni Panebianco, in forza alla Guardia di Finanza presso il servizio investigazione criminalità organizzata e, successivamente, distaccato presso la Presidenza del Consiglio con vari ruoli dirigenziali. È stato anche consulente della Commissione bicamerale sul dissesto della Federconsorzi, curando accertamenti societari sul territorio nazionale.
La tesi del libro è che Capaldo e Greco siano “stati condannati per aver rispettivamente ideato e approvato un piano di salvataggio efficace ma anomalo”. Il tutto sarebbe stato frutto del “profondo malessere della giustizia italiana tra processi lunghissimi, indagini politiche e inefficienze sconcertanti. Una giustizia che, talvolta, processa e condanna un'idea solo perché portatrice di innovazione e discontinuità” (il virgolettato è preso dalla quarta di copertina).
Le cronache raccontarono che nel confronto, moderato dall’editorialista del “Sole 24 Ore” Stefano Folli, Capaldo avrebbe spiegato: “Alla Società gestione per il realizzo (Sgr) potevano partecipare solo i creditori e in proporzione ai loro crediti. Così si evitavano lunghe e dannose procedure tradizionali che si protraggono anche per 10-20 anni. Un’idea limpida, che non poteva celare intenti speculativi. Anzi, voleva essere un modello per il futuro. Tutto andò benissimo, fino all’incursione della procura di Perugia”. E Greco avrebbe aggiunto: “I giudici non si ringraziano mai, né per le sentenze giuste e dovute né per quelle ingiuste che il sistema deve correggere. Ma a quelli della Cassazione voglio dire un grazie perché nella sentenza sono andati oltre il dovuto, sottolineando la mancanza assoluta del mero sospetto di un’ipotesi di corruttela, anche se questa non è stata mai apertamente avanzata”.
Don Sturzo si sarà rivoltato nella tomba per quel sacrilego rito funebre celebrato proprio nel luogo che conserva le sue opere e da cui si dovrebbe divulgare il suo pensiero: lì infatti avveniva la sepoltura degli aspetti penali del crac Federconsorzi.
Ma come, mi dirai, resta ancora in piedi l’altro procedimento? È vero. L’altro c’è ma è destinato a non estinguersi mai perché è assoggettato ad una servitù a vantaggio di quello dominante.
Alcuni amici che se ne intendono mi hanno illustrato un quarto espediente in aggiunta ai tre da te elencati: l’imputazione a vita, la quale non si interrompe nemmeno con la prescrizione, come incautamente era avvenuto nel giudizio di primo grado. In tal modo l’imputato sarebbe tenuto a rispettare per sempre una sorta di “segreto investigativo”. E così la pietra sepolcrale non sarebbe più stata rimossa.
In questo modo i partecipanti (o “complici” come imporrebbe lo Zingarelli) all’impresa si sono potuti dedicare esclusivamente ad altri aspetti della vicenda. Ricorderai che i commissari nominati da Goria convennero in giudizio dinanzi al Tribunale civile di Roma il ministero delle Politiche agricole chiedendo il pagamento dell’importo di 463 milioni di lire, oltre ad interessi convenzionali nella misura del T.U.S. maggiorato del 4,40 % con capitalizzazione semestrale, per crediti maturati nei confronti dello Stato a titolo di compenso per attività di gestione degli ammassi obbligatori di cereali effettuati dai consorzi agrari nel secondo dopoguerra, nell’ambito del Piano Marshall (1948-1951). Si costituì in giudizio il Ministero chiedendo il rigetto della domanda; intervenne, in seguito, la Liquidazione giudiziale dei beni della Federconsorzi a seguito dell’omologa del concordato preventivo in adesione alle richieste del Commissario governativo. Nel contenzioso s’inserirono anche cinquecento dipendenti della Federconsorzi licenziati a seguito del commissariamento.
Nello stesso anno in cui avvenne il “rito funebre” all’Istituto Sturzo, la Corte di Appello confermò il credito nella misura di “euro 511.878.997,39, oltre gli ulteriori interessi pari al tasso ufficiale di sconto aumentato del 4,40% capitalizzato semestralmente maturato e maturando dal 1° luglio 2004 fino alla data dell’effettivo pagamento”.
Sempre nello stesso anno si verificò un strano colpo di scena. Il ministro delle Politiche agricole, Giancarlo Galan, nominò l’ex magistrato della Corte dei conti, Andrea Baldanza, commissario della Federconsorzi con il compito di svolgere una ricognizione dei contenziosi (sia quello relativo alla gestione ammassi, sia quello riguardante gli ex dipendenti) e di definirli, anche in via transattiva. Ma a questo incarico non ha mai fatto seguito – per la sacrosanta opposizione di una parte considerevole del mondo agricolo - l’assegnazione di risorse per poter svolgere i compiti affidati. Tutti i tentativi di dirottare finanziamenti alla riesumata Federconsorzi sono stati prontamente sventati dall’opposizione determinata ed efficace di tutte le organizzazioni agricole che non vogliono la perpetuazione di un sistema di potere arrogante e corruttivo rappresentato dalla Coldiretti. Nonostante tale carenza, il dott. Baldanza ha proceduto comunque a transigere con le controparti senza avere nulla in mano, ma solo facendo affidamento sul fatto che lo Stato un giorno o l’altro dovrebbe trasferire i crediti alla gestione commissariale. Come ha dichiarato egli stesso nel corso dell’audizione informale in Commissione Agricoltura della Camera, il 5 ottobre 2017, si è trattato di mettere in gioco “l’aspettativa del debito dello Stato, confidando che lo Stato, se debitore, prima o poi dovrà adempiere alle proprie obbligazioni”.
Nel dicembre 2017 alcuni parlamentari del M5S (primo firmatario l’on. Gallinella) hanno presentato in occasione della discussione sulla legge di stabilità il seguente emendamento: “In ordine ai crediti spettanti alla Federconsorzi e maturati nei confronti dello Stato a titolo di compenso per l’attività di gestione degli ammassi obbligatori dei prodotti agricoli entro sei mesi il Ministero delle Politiche agricole provvede a liquidare le pendenze in essere tra il personale ex dipendente e la Federazione. A conclusione del processo di liquidazione di cui sopra, i crediti si considerano estinti”.
I parlamentari grillini hanno proposto una norma che vorrebbe rispondere positivamente alle aspettative dei lavoratori. Ma non si sono resi conto che, cedendo a tale pressione, di fatto aprivano la stura al riconoscimento di crediti di settanta anni fa che sarebbero andati agli stessi soggetti che portarono la Federconsorzi al disastro. Fortunatamente l’emendamento è stato respinto.
Con una nota riepilogativa dell’intera vicenda della Federconsorzi, pubblicata sulla rivista Olio Officina Magazine, ho rilevato, in riferimento ad alcune mail inviate al direttore Luigi Caricato da alcuni ex dipendenti della ex holding agroalimentare, che sarebbe più sensato non legare le aspettative dei lavoratori con i presunti crediti per la gestione degli ammassi. Ci sono persone che hanno diritto ad un risarcimento? C’è un giudice che ha accertato che chi doveva ricollocarli dopo il licenziamento non lo ha fatto e che un organo dello Stato doveva vigilare perché questo avvenisse e non ha fatto il proprio dovere? Bene. Provveda lo Stato a risarcire il danno direttamente. Si proponga un emendamento che riconosca questo diritto. Ma cosa c’entrano gli ammassi di settanta anni fa con una condotta omissiva che si è consumata venticinque anni fa? Perché riesumare a tutti i costi un’organizzazione economica morta e sepolta da un quarto di secolo? Perché pagare onorari e strutture a gestioni commissariali del tutto inutili? Forse è del tutto inutile porsi queste domande. Accetto scommesse che nella prossima legge di stabilità, in allestimento al ministero dell’Economia, si porrà di nuovo la questione dei crediti. E vedremo se adesso, con un Parlamento a maggioranza grillino-leghista, i partecipanti (o “complici” come suggerisce più propriamente lo Zingarelli) all’impresa la spunteranno.
Presidente del CeSLAM (Centro Sviluppo Locale in Ambiti Metropolitani). Vicepresidente nazionale della Confederazione Italiana Agricoltori dal 1992 al 2002, ha promosso nel 2005 l’associazione “Rete Fattorie Sociali” di cui è stato presidente fino al 2011. È autore di diversi volumi, tra i quali “Partire dal territorio. Agricoltura, rappresentanza e politica nell'Italia che cambia” (Rce, 2002), “Il '68 delle campagne” (Rce, 2004), “Radici & Gemme. La società civile delle campagne dall’Unità ad oggi” (Cavinato, 2013), "Educarci all'agricoltura sociale. Prove di terziario civile innovativo" (GAL Capo di Leuca, 2015), "La casa comune è casa di tutti" (con M. Campli, Informat, 2016). www.alfonsopascale.it
Mio padre che deteneva la tessera della Democrazia Cristiana fin da 1945 a seguito della questione don Sturzo lasciò il partito divenendo apartitico per tutta la vita. Io invece essendo creditore della SGR (fornivo sementi di bietola da zucchero allo zuccherificio di Castiglio Fiorentino) ho pagato le tasse sul credito che non mi è mai stato pagato e neppure dichiarato inesigibile. Me ne sono dovuto liberare svendendolo per "lire una".
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