di ANTONIO SALTINI
11ª parte
Il palazzo ex Federconsorzi di piazza
Indipendenza a Roma
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La creazione
dell’Aima e il varo delle regioni escludono la Federconsorzi
dai rapporti tradizionali con lo Stato. Solo tardivamente Mizzi cerca
di rompere l’accerchiamento che lo stringe. La sua morte lascia il
compito ai successori, ma Lobianco pretende sull’organismo l’antica
insindacabile signoria, e ne condanna la sorte.
Ferdinando Truzzi
ricorda con arguzia la trattativa che fu incaricato da Moro di
condurre con il Partito socialista per inserire, nei programmi di
quattro successivi governi, il paragrafo dedicato alla Federconsorzi.
Dopo le polemiche roventi, il partito di Nenni non poteva esimersi,
assumendo responsabilità di governo, dal manifestare la
determinazione a ridimensionare l’arbitrio con cui pareva essere
governata la Federconsorzi, pozzo inesauribile di denaro statale per
la Democrazia cristiana, esonerata persino dall’incomodo di
attingere quel denaro in base a conti formalmente regolari.
Il rifiuto del controllo
Per continuare a
godere dell’esclusiva delle gestioni pubbliche, secondo le
intenzioni socialiste la Federazione avrebbe dovuto sottostare a più
rigorosi controlli ministeriali, e i consorzi avrebbero dovuto aprire
i libri sociali, ai quali Bonomi aveva prescritto fosse impedito
l’accesso agli aspiranti privi della tessera della Coldiretti, o in
subordine, della Confagricoltura. Rappresentava il partito socialista
nella trattativa Manlio Rossi Doria, lo studioso i cui saggi avevano
alimentato la polemica sui rendiconti degli ammassi. Fungendo da
ponte tra l’economista socialista e il direttore generale della
Federconsorzi, Truzzi ricorda di avere stilato testi evasivi, in cui
i socialisti accettavano di contrarre le pretese, che Mizzi approvava
dopo resistenze tenaci, sicuro della connivenza democristiana perché
nessun impegno dovesse, poi, essere onorato.
Come vuole il
proverbio, il nodo venne, alla fine al pettine: al varo, nel 1966,
del terzo governo Moro, Nenni proclamò che non avrebbe più
accettato inganni. Il ministro dell’agricoltura uscente, Ferrari
Aggradi, tentò l’estrema mediazione proponendo la nomina di un
commissario che sostituisse il presidente e provvedesse a
ristrutturare l’organismo secondo le direttive governative. Mizzi
si oppose con tutte le forze all’insediamento di un responsabile
singolo o collettivo su uno scranno che sovrastasse il suo.
Verificando che la Federconsorzi non accettava il controllo
governativo, Nenni pretese la creazione di un ente alternativo,
dipendente dal Ministero dell’agricoltura, cui sarebbero stati
affidati gli interventi governativi derivanti dall’applicazione dei
primi regolamenti comunitari, in corso di discussione, allora, a
Bruxelles. Nasceva così nel 1966, l’Aima, l’Azienda nazionale
per gli interventi sul mercato agricolo. Tra le mura marmoree della
sede dell’organismo si sorrise annotando, candidamente, che nulla
sarebbe mutato, siccome il nuovo organismo avrebbe dovuto riporre i
cereali ammassati in magazzini di cui non disponeva, che sarebbe
stato costretto ad affittare dai consorzi agrari. La retribuzione di
oneri di magazzinaggio non eleva, però, chi li percepisca ad un
rango diverso da quello di magazziniere. La Federconsorzi era stata
la centrale finanziaria delle operazioni di conservazione e
trasporto: in sostituzione dei compiti di alchimia bancaria le nuove
convenzioni le avrebbero affidato mere funzioni di custodia. Sarebbe
stata, peraltro, custode di cereali e olio: le operazioni più
lucrose, la distillazione delle eccedenze enologiche e lo stoccaggio
della carne congelata, sarebbero state spartite tra nuovi operatori,
che l’avrebbero sostituita nel ruolo di beneficiaria degli utili
della gestione delle derrate statali.
Regioni e splendori cooperativi
Tra le condizioni
alle quali il Partito socialista aveva accettato di condividere il
governo del Paese v’era l’"attuazione della Costituzione",
il varo, cioè, delle amministrazioni regionali, pretese con veemenza
dal Partito comunista, nelle amministrazioni locali ancora partner
privilegiato del Psi. La convocazione delle prime elezioni nelle
regioni a statuto ordinario prese corpo da una singolare conversione
dei fronti politici: originariamente regionalista, il partito di
Sturzo era stato spinto alla cautela da chi, come Einaudi, prevedeva
che i consigli regionali avrebbero moltiplicato la burocrazia,
accresciuto in modo incontrollabile spese e sprechi pubblici.
Tradizionalmente favorevoli ad uno stato accentrato, il modello di
stato borghese contro cui esercitare l’arte della rivoluzione, i
partiti marxisti erano stati convertiti al regionalismo dai dati
delle elezioni locali, che dimostravano che Pci e Psi avrebbero
governato con proprie giunte l’intera fascia di regioni evolute e
prospere che interseca la Penisola sui due versanti degli Appennini:
Liguria, Emilia, Marche, Umbria e Toscana. Le prime elezioni
regionali si svolgevano il 7 giugno 1970: una legislatura sarebbe
stata sufficiente ad avverare le previsioni di entrambe le parti: le
sinistra conquistavano l’Italia "di mezzo", e, salvo
singolari eccezioni, le nuove amministrazioni non tardavano a
dimostrarsi centri di velleità, di inefficienza e di spreco. Il varo
dei nuovi organismi avrebbe inferto un nuovo, duro colpo all’apparato
commerciale e finanziario della Federconsorzi: all’unisono, i nuovi
assessori avrebbero scoperto i benefici che le agricolture loro
affidate, avrebbero ritratto finanziando organismi nuovi piuttosto
che sostenendo gli obsoleti consorzi agrari. Quando gli storici
dell’economia vorranno esaminare le vicende del debito pubblico
italiano non potranno prescindere dal ruolo svolto, nella sua
diluviale dilatazione, dalla spesa regionale: tra le voci dei bilanci
regionali un esame speciale dovrà essere dedicato al sostegno della
cooperazione, un impegno in cui si sono prodigati, in irrefrenabile
gara, assessori di tutte le militanze politiche. Privato del
controllo finanziario delle operazioni di conservazione delle scorte,
escluso dal supporto pubblico per l’ampliamento della propria rete
di magazzini, il contesto dei consorzi mostrava i primi segni di
sofferenza: se gli organismi operanti in province dall’agricoltura
più ricca, e guidati con sagacia da autentici manager, riuscivano a
conservare le posizioni commerciali, tra quelli operanti in aree più
povere, o diretti con minore perizia, iniziava la successione di
sofferenze che avrebbe portato alla fusione dei più deboli con altri
meno deboli, in una contrazione della maglia consortile che fino al
collasso finale non avrebbe conosciuto interruzioni.
Due strateghi nella pania
L’esame degli
ultimi due decenni di vita della Federconsorzi ripropone il quesito
la cui mancata soluzione rende difficilmente comprensibile l’intera
vicenda: il quesito della consapevolezza, da parte dei diarchi
dell’apparato consortile, della serietà dell’accerchiamento.
Sempre più gravemente menomato dalla malattia che lo minava, non è
improbabile che dall’alba degli anni ’70 Bonomi non fosse più in
grado di preoccuparsi delle sorti della Federconsorzi, le ultime
forze impegnate da un proposito ossessivo: scongiurare che la
Coldiretti pretendesse di sostituirlo con chi ne conducesse la rotta
con vigore rinnovato. E’ probabile, invece, che del pericolo
Leonida Mizzi fosse consapevole: se sono veritiere le testimonianze
del suo disprezzo per gli avversari pare verosimile fosse propenso,
tuttavia, a sottovalutare il pericolo che pure percepiva. Comunque lo
avvertisse, è palese che, impedendogli la ricerca di tutori diversi,
il patto che lo vincolava a Bonomi lo costringeva ad assistere
all’inerzia della controparte senza possibilità diverse dall’invio
di segnali di allarme al vertice democristiano, che poteva sperare
che dell’eredità di Bonomi avrebbe tutelato l’integrità.
Seppure
tardivamente, la consapevolezza di Mizzi si manifestava, con un
disperato tentativo di rompere l’accerchiamento, in coincidenza al
varo dei decreti delegati che definivano la competenza reciproca
dello Stato e delle amministrazioni regionali in materia agricola,
varati, dopo dispute accese, nell’estate del 1977. A quello che
aveva diritto di reputare tradimento democristiano il ragioniere
piacentino tentava di opporre una contromossa palesemente avventata:
l’apertura di una trattativa diretta con l’avversario di sempre,
il Partito comunista. L’interlocutore prescelto era l’assessore
all’agricoltura dell’Emilia Romagna, Giorgio Ceredi, un devoto
dell’ortodossia leninista che dalle prime scelte aveva dimostrato
di essere in grado di opporre ai consorzi agrari, ove non si fossero
assoggettati ai suoi poteri, la più rigida prassi punitiva. Alla
stesura di un capitolato di tregua tra i due avversari reagivano,
però, con rabbioso accanimento, le cooperative cattoliche, che
dall’esclusione dei consorzi emiliani dai beneficio pubblici si
ripromettevano di assurgere a uniche destinatarie "bianche"
delle beneficenze "rosse".
L’uomo che aveva
governato, per trent’anni, attraverso fili riservati, la vita
economica delle campagne, non avrebbe retto alla rissosa polemica che
lo investiva in prima persona: secondo testimoni vicini al vecchio
autarca, Mizzi sarebbe morto di infarto, il 9 dicembre 1977, dopo una
drammatica telefonata al presidente della Confcooperative, Enzo
Badioli, l’alfiere del solidarismo cattolico di cui gli elenchi di
Gelli proclameranno la militanza massonica.
Cambia lo scenario professionale
Come il Partito
socialista ha preteso, accedendo al Governo, la chiusura del
contenzioso politico sulla Federconsorzi, così la ha rivendicata,
per sostenere la maggioranza della "non sfiducia", il
Partito comunista, che, verificato il fallimento dell’iniziativa
del proprio gastaldo emiliano rilancia il gioco in Parlamento. Alla
Commissione agricoltura di Palazzo Madama si sovrappongono, così,
tre progetti di riforma, che alimentano un confronto che procede
ondeggiando fino a quando, dopo amletici affanni, Enrico Berlinguer
converte la "non fiducia" in genuina sfiducia, e il
castello di sabbia si sgretola. Voci informate diranno che ha
indirizzato la trattativa al naufragio l’attiva avversione degli
uomini della Coldiretti, a nome della quale Truzzi ha condotto
personalmente, in Senato, le trattative con Emanuele Macaluso.
Muta radicalmente,
intanto, lo scenario agroprofessionale. Ridotto a larva del tribuno
degli anni roventi, Bonomi si è circondato di boiardi tra i quali sa
alimentare gelosie e invidie che rendono sicuro il trono del monarca
debilitato. Forza il gioco di corte, con una serie di mosse che
isolano il vecchio patriarca, il giovane direttore della Federazione
di Napoli, Arcangelo Lobianco, che riesce a farsi nominare prima
presidente della stessa Federazione, quindi vicepresidente
confederale, la carica cui sa assicurare, a differenza dei
concorrenti, tutte le deleghe del potere presidenziale, di cui
conquista titoli e diadema nel corso della venticinquesima assemblea
generale, nell’ottobre del 1980. Alla testa dei rurali italici la
Coldiretti non è, però, più sola: la lunga agonia politica di
Bonomi ha consentito l’emancipazione della Confagricoltura, nelle
cui vene rinsecchite il marchese Diana ha infuso nuova linfa e nuove
ambizioni, ha favorito l’aggregazione dei piccoli sindacati rurali
di matrice socialcomunista, che nel dicembre del ’77 hanno dato
vita alla Confcoltivatori, la terza organizzazione agricola
nazionale, che il primo capitano, il socialista Giuseppe Avolio, non
nasconde l’ambizione di trasformare, per influenza, nella seconda.
L’instabilità
dello scacchiere professionale si ripercuote nelle scelte al vertice
della Federconsorzi, dove la scomparsa di Mizzi impone come unico
candidato alla successione il capocontabile, Enrico Bassi, il solo,
tra i collaboratori, in grado, a metà dicembre, di chiudere il
bilancio distinguendo, nella matassa dei conti correnti della
direzione, quelli ufficiali da quelli usati da Mizzi per le
incombenze politiche. Consacrando, nel disinteresse per qualsiasi
aspetto manageriale, la scelta del funzionario in grado di assicurare
la continuità alle erogazioni a proprio favore, la Coldiretti pone
la prima pregiudiziale alla sopravvivenza del colosso
agrocommerciale.
Se, peraltro, la
designazione di Bassi, ragioniere e piacentino, al posto del
ragionier Mizzi, è scelta che sottoscrive, formalmente, ancora
Bonomi, la nomina del nuovo presidente dell’organismo è la prima
opzione significativa del successore. Nel 1981 siede sul prestigioso
scranno Mario Vetrone, fondatore della Coldiretti in Campania,
succeduto nel 1976 a Aldo Ramadoro, incarnazione del presidente ombra
preteso da Bonomi e da Mizzi. All’insediamento Vetrone ha
scalpitato per ottenere potestà maggiori, che Mizzi gli ha negato
elargendogli, come munifica compensazione, onorevoli prebende. Ma il
parlamentare campano scompare improvvisamente provocando
l’alterazione di equilibri di difficilissima ricomposizione.
Costretto
dall’impellenza, Lobianco destina alla carica Ferdinando Truzzi.
Ragioni della scelta, un debito e due timori: un’elementare
necessità tattica suggerisce, infatti, la tacitazione del più
autorevole dei concorrenti alla successione di Bonomi, le cui pretese
vengono appagate, eliminando, insieme, un concorrente temibile alla
prestigiosa poltrona, Lorenzo Natali. Figlio emblematico di un
sindacalismo cattolico e di una cultura meridionale che guardano agli
affari economici mescolando diffidenza e sufficienza, cento elementi
dimostrano che dall’assunzione della responsabilità Lobianco non
sarà mai sfiorato dal dubbio che l’interesse dell’agricoltura
imporrebbe di scegliere, per la conduzione della Federconsorzi,
uomini di lungimiranza e prestigio: si compiacerà, invece, di
considerare quel ruolo come la gastaldia demandato di assolvere alle
necessità di cassa della più nobile, luminosa e appagante funzione
politica e sindacale. Favorirà le scelte della Coldiretti la
Confagricoltura, con Giandomenico Serra più distaccata, con Stefano
Wallner più velleitaria, con Giuseppe Gioia più connivente, sempre
acquiescente, comunque, non senza tornaconto, alle pretese
dell’organizzazione preminente.
La concezione di
Lobianco dei rapporti tra i due organismi, e tra i rispettivi
responsabili, conosce la propria espressione più solenne in
occasione della fastosa celebrazione del novantesimo anniversario
della Federconsorzi, che Truzzi, non senza presunzione, organizza al
Teatro municipale di Piacenza, la culla dell’organizzazione, il 16
ottobre 1992. I trascorsi politici del senatore mantovano non sono la
biografia di un paladino della Federconsorzi, che ha difeso
pubblicamente, in memorabili confronti televisivi, per dovere di
schieramento: privatamente ha sempre proclamato che la Federconsorzi
ha costruito il proprio patrimonio dissanguando i consorzi, una
circostanza che si è verificata con precisione nella sua terra
natale, quella provincia di Mantova il cui consorzio, in un momento
di difficoltà, è stato sostenuto da Mizzi in cambio della proprietà
dell’intero patrimonio immobiliare. Conoscitori dei rancori del
ragioniere piacentino dicono che l’espropriazione sarebbe stata
compiuta al fine precipuo di arrecare un torto al mantovano Truzzi.
Assunta la responsabilità dell’organismo il vecchio senatore
dimostra la lucida percezione, peraltro, dell’urgenza di ritrarlo
dalle secche economiche, e, prima ancora, politiche, delle quali è
prigioniero. Concepisce, così, il disegno di offrire la
partecipazione al suo governo alle forze tradizionalmente ostili, la
cooperazione e l’associazionismo agricolo socialcomunista, sperando
di ottenerne, quale contropartita, l’avallo al reinserimento
dell’organizzazione nel novero degli enti beneficiati dalle
sovvenzioni senza le quali nessun organismo agricolo pare poter
sopravvivere. E’ consapevole che l’età d’oro della
"solidarietà" tra Dc e Pci, quando egli stesso avrebbe
potuto favorire il compromesso che avrebbe, invece, ostacolasto, sono
lontani, ha compreso però che la sopravvivenza dell’ente è legata
a un armistizio con gli avversari, e di quell’armistizio tenta di
avanzare la proposta.
Coup de théâtre
Dissolve il
castello di carte, al Municipale di Piacenza, Arcangelo Lobianco, che
con un intervento efficace come sa essere efficace, sul palcoscenico,
un figlio adottivo della patria della sceneggiata, dileggia Truzzi e
quanti hanno partecipato al suo idillio, e proclama la legge
imperitura della sudditanza della Federconsorzi alla Coldiretti, del
suo presidente allo stratega del ruralismo cattolico.
Il saggio teatrale
del presidente della Coldiretti non avrebbe potuto essere più
convincente: mentre il pubblico incredulo lascia palchi e platea,
Truzzi soffoca l’orgoglio che gli imporrebbe di rimettere il
mandato. A trattenerlo è un appannaggio di centoquaranta milioni,
con tutti i benefici connessi: avesse ascoltato il genuino istinto
contadino, avrebbe unito al progetto dissolto l’ultima denuncia del
collasso che Lobianco rende inevitabile. Testimonianze attendibili
riferiscono che l’indomani voci autorevoli avrebbero suggerito a
Lobianco di sostituire al presidente di cui aveva calpestato il
prestigio un uomo capace di tentare, su strade diverse, il rilancio.
Astri di prima grandezza sarebbero stati pronti, si sussurrò, ad
accettare l’invito, che non sarebbe mai stato rivolto. La
disponibilità di personaggi non assetati di titoli offre l’ultima
prova della dovizia dell’eredità di Mizzi, male conformata alle
esigenze nuove del quadro agricolo, tanto sostanziosa da invogliare
uomini autorevoli a farsene curatori, per rimodellarla ai bisogni
nuovi senza il rischio di clamorosi insuccessi. Opponendosi a quel
rimodellamento Lobianco rivelava la propria levatura autentica, più
che stratega politico dimostrandosi agitatore sindacale, come appare
chi fissa la prima preoccupazione nell’impossibilità che altri
possa incrinare il proprio primato, fino ad identificare in un uomo
umiliato il miglior presidente, siccome impotente, di un ente
vassallo. La verità storica pretende si rilevi che, come in altri
momenti cruciali della storia della Federconsorzi, poche voci si sono
levate a chiedere scelte diverse: tanto poche da meritare uno
speciale attestato al valore, ma da non potersi trasformare in
opinione. Solo gli ingenui e gli opportunisti potevano credere che la
Federazione dei consorzi agrari sarebbe sopravvissuta, senza una
drastica virata, alla tragicomica celebrazione del novantesimo
giubileo: confermando le attese, la maggiore organizzazione economica
dell’agricoltura nazionale giungerà al centenario per essere
affidata a commissari ministeriali. Le modalità del loro
insediamento, evento troppo recente per poter costituire oggetto di
rilievi diversi da quelli della cronaca, portano, comunque un
marchio: quello delle rivalità di corrente e delle vendette di
partito, quel gioco tipicamente democristiano cui Arcangelo Lobianco
non sembra essere stato capace di sottrarsi, che il distacco del
tempo consente di riconoscere a Bonomi e a Mizzi di avere evitato,
tanto da meritare, indipendentemente dal giudizio della storia, il
vanto dei grandi manipolatori, e l’inclusione nel novero degli
alchimisti del potere che seppero usare influenza e denaro
mantenendosi, quantomeno formalmente, al di fuori delle risse più
infami. Salvo reputare un’infamia, per chi brandiva uno stendardo
cattolico, avere procrastinato la dissoluzione l’edificio costruito
da apostoli liberali di ispirazione massonica, ingigantito dalla
passione di gerarchi destinati al plotone di esecuzione, la
dissoluzione di cui imporrà l’ineludibilità, impugnando la spada
dell’Arcangelo, il successore.
Già pubblicati:
1ª parte
2ª parte
3ª parte
4ª parte
5ª parte
6ª parte
7ª parte
8ª parte
9ª parte
10ª parte
Antonio Saltini
Già Docente di
Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico
delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura
Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di
argomento agricolo, Terra e Vita. E' autore della Storia delle Scienze
Agrarie opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com (qui)
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