di ANTONIO SALTINI
10ª parte
La vicenda di un mangimificio per il quale l’organizzazione
cooperativa cattolica aveva richiesto il contributo Feoga e il
rifiuto degli organi comunitari, propone uno dei nodi più difficili
della vicenda emiliana. Il suo esame impone interrogativi inquietanti
sul ruolo del Ministro dell’agricoltura e sullo spazio di manovra
tuttora a disposizione delle due parti per proseguire una trattativa
già tanto avanzata quando l’esplosione del “caso” ne impediva,
drammaticamente, la conclusione.
Ho ricordato che nella vicenda già complessa dell’intesa tra
Emilia Romagna e Federconsorzi se ne innesta una collaterale, la cui
disamina costituisce condizione essenziale per la comprensione
dell’articolata contesa. E’ una storia di mangimifici. Per
illustrarla occorre ricordare, preliminarmente, che in Emilia Romagna
si producono, annualmente, 18, 1 milioni di quintali di mangimi, 11,1
da parte dei mangimisti privati, 1,8 da parte dei Consorzi agrari,
5,2 da parte degli stabilimenti della Lega socialcomunista.
Lo stabilimento negato La Confcooperative, l’organizzazione
cooperativistica cattolica, cui aderiscono caseifici e stalle sociali
che consumano volumi considerevoli di mangimi, non dispone,
attualmente, di impianti adeguati alle necessità degli associati,
che soddisfano le necessità ricorrendo a fabbricanti terzi.
Considerando i vantaggi che deriverebbero all’organizzazione dalla
possibilità di coprire con impianti propri la domanda degli
associati, l’Unione regionale delle cooperative avanzava, alcuni
anni fa, la domanda al Feoga di un contributo per il finanziamento di
un impianto proporzionato alla domanda potenziale degli organismi
aderenti, che stimava in 600.000 quintali annui. A Bruxelles la
domanda veniva rigettata con una motivazione precisa: l’esistenza,
nella Regione, di un numero di mangimifici, costruiti con contributi
della Comunità, tale da soddisfare per intero la domanda degli
allevatori emiliani e romagnoli. Il nuovo impianto avrebbe costituito
un’inutile duplicazione, e determinato uno spreco di fondi. I
mangimifici impiantati nella Regione con il contributo comunitario
sono rappresentati, in prevalenza, da impianti dei Consorzi agrari,
ai quali sono stati concessi contributi comunitari in cinque
province. Nella Regione l’apparato federconsortile dispone,
attualmente, di una capacità di produzione stimabile in 1.400
quintali/ora, una capacità che, anche considerando il funzionamento
per sole otto ore, risulta superiore alla domanda della clientela dei
Consorzi agrari.
Il negoziato per l’uso degli impianti Veduta respinta la propria
domanda l’Unioone regionale delle Cooperative si rivolgeva alla
Federconsorzi chiedendo la cogestione degli impianti utilizzati a
regime meno intenso, in primo luogo quello di Ravenna, dotato di
preziose appendici portuali. Alla richiesta la Federconsorzi, pure
non rigettando l’ipotesi di produrre mangime per le cooperative
dell’Unione, rifiutava ogni eventualità di cogestione: quanto era
disposta ad accettare era l’impegno ad una produzione per conto
terzi. Proprietà e responsabilità degli impianti avrebbero dovuto
restare, inequivocabilmente, di pertinenza dei Consorzi agrari: la
condizione che abbiamo reperito, enunciata chiaramente, nella “bozza”
di Ceredi. Offesa dal rifiuto, oltre a contestare il “compromesso”
con la Regione, la Confederazione delle cooperative dirigeva alla
Federconsorzi un attacco sul della contesa mangimistica, minacciando
di denunciare a Bruxelles la sproporzione tra le dimensioni degli
impianti mangimistici realizzati dai Consorzi con i contributi
comunitari e l’entità del prodotto che gli allevatori della
Regione acquistano dagli stessi Consorzi. Se quei mangimifici non
vendono, le stime della clientela proposte dalle domande di
contributo erano, palesemente, stime false. Per chi abbia percepito
anche le eco remote delle difficoltà tra le quali l’Italia, poco
preoccupata delle regole del gioco comunitario, abbia usufruito, tra
ritardi e irregolarità, dei finanziamenti delle prime tranches del
Feoga la minaccia non può non rivelarsi insidiosa: i beneficiari dei
primi finanziamenti debbono sperare che delle modalità con cui le
loro domande sono state soddisfatte nessuno richieda mai più la
verifica. Le gesta gladiatorie di un ministro valente nei ludi
comunitari ha riscattato lunghi anni di latenza e di inadeguatezza:
l’interesse dell’agricoltura si unisce all’amore di patria a
pretendere che sulle imprese dei predecessori sia disteso il velo
della pietà
L’assenza del Ministro Ma chi si interroghi su quali potrebbero
essere le conseguenze della denuncia, a Bruxelles, di
un’organizzazione cooperativistica nazionale, della falsità delle
stime sulla cui base sono stati erogati i contributi per gli impianti
mangimistici realizzati in Emilia Romagna è condotto a proporsi una
domanda correlata. Di fronte ad una minaccia di ritorsione che
danneggerebbe la credibilità del Paese a Bruxelles è verosimile
immaginare un intervento di mediazione del Ministro: quale è stato
l’atteggiamento, è la domanda, del Ministro nella disputa? Quale
ruolo ha svolto Giovanni Marcora nella difficile vicenda del
“compromesso emiliano”? E’ domanda cui può darsi una risposta
sola: dalla vicenda Giovanni Marcora ha conservato il più assoluto
distacco. Al di là del dubbio, che cento indizi rendono consistente,
che sia stata la copia della “bozza” di Ceredi indirizzata a via
Venti Settembre a generare la fotocopia che ha raggiunto la
Confcooperative, Giovanni Marcora alla disputa si è mantenuto
assolutamente estraneo. Contro la Federconsorzi si può ricordare che
il Ministro si era profuso, all’inizio del mandato, in attacchi a
colpi di spadone, ai quali è subentrato un atteggiamento sempre più
cauto, probabilmente dettato dalla difficile posizione politica
dell’organismo, che costituisce ancora fonte preminente di vita del
partito cattolico. Si può ricordare, peraltro, che anche il Ministro
ha presentato alla Camera un proprio disegno di legge sull’Aima, un
disegno che, come quello comunista, risulta insabbiato: ma se è
comprensibile che il Partito comunista presenti un disegno di legge
come semplice strumento deterrente, evitando di farlo procedere verso
la discussione, per imporre la medesima sorte a un disegno
ministeriale i deputati comunisti debbono contare sulla connivenza di
deputati del Centro: si sussurra che abbiano operosamente contribuito
all’insabbiamento i luogotenti parlamentari di Bonomi.
Ma l’autocrate non ha eredi Ma se interrogarsi sull’inerzia
di Giovanni Marcora nella vicenda conduce a verificare l’assenza
del Governo nello scontro sull’organismo cui è affidata, in misura
cospicua, l’economia agraria nazionale, i cui destini sarebbero
stati rimessi ad un assessore di romagnola intraprendenza e a un
direttore generale aduso a lucrare sugli oneri dell’ammasso del
grano, è doveroso chiedersi di quali capacità di manovra disponga
ancora il grande apparato economicodopo l’esplosione di tensioni
contenute, per anni, nell’assenza di ogni volontà di affrontare e
risolvere i problemi che le alimentavano. Ho suggerito che la
vitalità della Frederconsorzi non può non risultare compromessa
dalla perdurante assenza di un vertice in grado di giostrare
nell’agone politico alla Coldiretti, per trent’anni baluardo
politico dell’organizzazione federconsortile. Al rilievo si può
aggiungere essere probabile che sia stata proprio l’assenza di quel
vertice a indurre Leonida Mizzi a negoziare, senza richiedere il
placet del proprio signore politico, il “compromesso” che, per
parte propria, il Partito comunista era altrettanto interessato a
suggellare. Ma Mizzi è scomparso: è difficile credere che la
dirigenza federconsortile, rimasta orfana dell’autocrate che l’ha
governata, per tre decenni, tutto disponendo e nessun potere
delegando ad altri, priva del baluardo della Coldiretti, possa
proseguire la perigliosa navigazione che aveva affrontato l’antico
ammiraglio, la navigazione che si è rivelata fatale quando in rotta
di collisione contro la corazzata condotta con tanta improntitudine
si è diretta, determinata allo schianto, la torpediniera della
Confcooperative. Allarmata la Coldiretti, allarmata la Democrazia
cristiana, costretti alla difensiva i comunisti contestati dagli
alleati socialisti, pare difficile che tra le parti del “compromesso”
non suggellato possa riaprirsi la trattativa per giungere alla
conclusione che le reazioni hanno impedito. Scomparso Mizzi il ruolo
è stato ricoperto da Enrico Bassi, uno dei collaboratori più fidati
dell’autocrate, per giudizio unanime un amministratore capace: ma
Mizzi non era solo un amministratore, era la Presidenza ed il
Consiglio, sistematicamente impegnati a prevederne la volontà, per
non imporgli l’incomodo di impartire ordini. Alla presidenza siede,
dopo la diuturna presenza ombra di Aldo Ramadoro, il vulcanologo
partenopeo Mario Vetrone, uno degli uomini più vicini a Bonomi, che
all’indomani dell’elezione mostrava propositi di segno
radicalmente diverso da quelli del predecessore, ma che, richiamato,
risulta, dallo stesso Bonomi, alla realtà dei propri compiti,
avrebbe accettato di riconoscere che il mandato che gli era affidato,
sontuosamente onorato, non differiva, nella sostanza, da quello di
chi aveva prima di lui usato la stessa scrivania per firmare quanto
reputava irriguardoso fare oggetto di lettura. E tra i venti membri
del Consiglio di amministrazione, undici di fede bonomiana, sette
paludati delle insegne della Confagricoltura, due rappresentanti del
personale, non è dato scorgere l’impeto per infrangere la
tradizione di una lucrosa sinecura.
Due uomini, le ultime carte
Scomparso Mizzi, Vetrone avrebbe promosso, alle prime riunioni del
Consiglio, due misure a favore dei Consorzi provinciali, la riduzione
del tasso di interesse e il ristorno, a favore degli enti federati,
degli utili della gestione centrale, due misure in stridente
contrasto con la prassi pluridecennale con cui Mizzi pretendeva di
ricavare, dai rapporti con i Consorzi, ogni utile possibile: il
segnale di una strategia nuova, o la furbesca ricerca del consenso
più facile? Di cui il presidente, che dopo le solenni esequie
avrebbe impugnato, per la prima volta lo scettro, si avvarrebbe, si
sussurra a Roma, per la gestione più familiare delle cariche nelle
società collegate, miniera inesauribile di presidenze,
vicepresidenze, rapporti di consulenza. Ma ristornare utili facili ai
Consorzi ed elargire cariche onorevoli nelle società collegate non
sono prove che consentano di attribuire al nuovo presidente un
progetto vitale e l’autorità per realizzarlo. La domanda cui si
vorrebbe poter rispondere, dopo che, scomparso Mizzi, Mario Vetrone
può esercitare i propri poteri, è la domanda sul peso del
parlamentare campano nella corte bizantina che circonda Paolo Bonomi
incapace, ormai, di qualunque espressione pubblica. La Federconsorzi
è nelle sue mani? Non ha dubbi a proporre una risposta negativa chi
ricorda che tra i boiardi che circondano il monarca sofferente la
chiave dei rapporti con la Democrazia cristiana è, probabilmente,
nelle mani di Fernando Truzzi, in Senato membro della commissione
ristretta demandata di amalgamare i disegni di legge sull’Aima,
l’uomo in grado, verosimilmente, di proseguire il negoziato con il
Partito comunista o di dirigerlo al definitivo naufragio. I destini
della Federconsorzi, nave ammiraglia di una flotta poderosa priva di
comandante e di piani di navigazione, potrebbero essere affidati a un
nostromo cresciuto sui “laghi” di Mantova, stagni elevati a rango
di laghi a onore di Virgilio
e dei marchesi di Gonzaga. Ma dalla corte bizantina che attornia il
monarca debilitato sul “compromesso” che stava per essere
suggellato tra il vassallo per trent’anni indefettibilmente fedele
e il nemico storico non è stata proposta una nota di commento, non è
trapelato un segno di assenso o di opposizione. Ha taciuto il
monarca, tacciono i cortigiani: chi pronunciasse una parola avrebbe
pronunciato, probabilmente, l’ultima parola di dirigente della
Confederazione nazionale dei coltivatori diretti. Non parlano i
rivali, non si può attendere che parli Truzzi. Se i destini della
maggiore organizzazione dell’agricoltura italiana sono nelle sue
mani, se dipendono dalla sua volontà di negoziare, o dalla sua
scelta di rifiutare, come Mizzi ha rifiutato per trent’anni, ogni
trattativa, non ci è dato sapere come userà le carte che impugna.
Un giorno, forse, la storia dovrà attribuirgli il merito di avere
preservato il grande apparato alle necessità dell’agricoltura
italiana, forse dovrà imputargli di avere destinato, per sicumera o
per pavidità, quell’apparato alla dissoluzione.
Antonio Saltini
Già Docente di
Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico
delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura
Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di
argomento agricolo, Terra e Vita. E' autore della Storia delle Scienze
Agrarie opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com (qui)
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