venerdì 10 novembre 2017

Le nuove frontiere dell' agricoltura: spunti da uno scritto di Luigi Einaudi

di Luigi Mariani

Luigi Einaudi
Ho avuto modo di leggere un interessante scritto di Luigi Einaudi dell’autunno 1954 e che si propone con l’emblematico titolo “Esiste una frontiera?”1 . Tale scritto è in sostanza la “recensione lunga” e per molti versi elogiativa, del libro “The farming ladder2 dell’imprenditore agricolo britannico George Henderson. Tale libro, ci ricorda Einaudi, fu scritto al ritmo di mille parole l’ora fra le 13 e le 16.30 dei pomeriggi domenicali del periodo fra il 9 maggio e il 4 settembre 1943, fu pubblicato a Londra nel 1944 da Faber & Faber e, tradotto in italiano da Giuseppe Medici, fu infine pubblicato da Edagricole nel 1955 con il titolo “L’ascesa al possesso della terra3.

Giuseppe Medici, intervistato dall' allora Vice direttore di Terra e Vita , Antonio Saltini

Occorre anzitutto evidenziare che il libro di Henderson ha avuto una considerevole fortuna, influenzando moltissimo i giovani agricoltori di quella generazione (e non erano giovani qualunque, in quanto spesso si trattava di reduci dalla seconda guerra mondiale) e delle generazioni successive. Una fortuna che non è tutt’ora svanita, come dimostra la trasmissione radiofonica andata in onda sulla BBC (qui) e in cui si intervistano la vedova e la nipote dell’autore, che oggi proseguono la sua attività nell’azienda di Oathill di cui parleremo più avanti.
Procedendo con ordine, l’esperienza autobiografica narrata da George Henderson è quella di un giovane proveniente da una famiglia di agricoltori scozzesi inurbatasi a Londra ove il padre, dopo aver avviato un’impresa commerciale, era morto prematuramente lasciando una vedova e cinque ragazzi, tutti di età inferiore sai 16 anni. Uno di questi, George, al compimento del 16° anno d’età, decise di tornate all’agricoltura nonostante il fratello maggiore, che gli proponeva l’alternativa di una più tranquilla carriera impiegatizia, gli pronosticasse un gramo destino: “senza un soldo non ti libererai dalla fatica, dal fango, dalla neve e della polvere; risparmierai tanto da comprarti la cassa da morto e forse finirai i tuoi giorni in un ospizio per poveri”.
George fece però di testa sua, e ciò accadeva in un periodo in cui l’agricoltura britannica andava letteralmente a rotoli, fra prezzi che precipitavano ed innumerevoli fallimenti di affittuari. Fu così che divenne garzone presso aziende agrarie, il che si rivelò per lui l’occasione per prendere da un lato familiarità con arativi, pascoli, vacche, cavalli e pecore e dall’altro per osservare nel bene e nel male il comportamento dei vari imprenditori agricoli con cui veniva a contatto.
Il gran balzo verso l’imprenditoria ebbe luogo dopo quattro anni di lavoro come garzone allorché George, forte dei propri risparmi e di un prestito ottenuto in famiglia, affitta (siamo nel 1924) il fondo di Oathill, di 34 ettari, collocato a circa 100 km da Londra ed il cui ultimo affittuario era fallito. Sul fondo lavorano lui e suo fratello Frank, un factotum abile anche nel tenere la contabilità, e nell’attività sono coinvolti vari salariati che a loro volta in diversi casi diventeranno poi imprenditori agricoli, il che testimonia anche la capacità di far proseliti di Henderson. Il fondo di Oathill viene migliorato e fatto rendere al meglio, al punto che dopo cinque anni i fratelli Henderson sono in grado di acquistarlo accrescendone poi progressivamente le performance, tant’è vero che nel 1942 il bilancio aziendale, certificato dall’università di Reading, si chiude con il lusinghiero profitto netto di 4484 sterline oltre al salario dei due fratelli (409 sterline). Grazie ai profitti conseguiti in quegli anni, i fratelli Henderson hanno peraltro modo di acquistare altri fondi poi dati in affitto, il che indica che eravamo in presenza di un mercato fondiario molto attivo ed in cui i grandi proprietari tendevano a disfarsi delle loro proprietà anziché ad affittarle.
Ma il successo di George Henderson, si domanda Einaudi, fu frutto di fortuna? Henderson offre una sua definizione di fortuna che chiama “occasione” (opportunity) e che si concretizza soprattutto in tempi difficili: “Abbiamo sempre, quando i tempi sono difficili, creduto nelle occasioni e non abbiamo mai guardato alle difficoltà quando l’occasione si presentava”. E ancora: “non dite mai ai giovani che la terra non offre buone occasioni. Le occasioni ci sono, belle e buone, ma si nascondono ina fitta sterpaglia di dura fatica. Dicono che la fortuna bussi alla porta una volta sola. Guardandomi indietro direi invece che essa passa il più del suo tempo a bussare alla porta di qualcheduno ma il qualcheduno non si scomoda a farla entrare o si lamenta che la porta è troppo pesante o cigola o schiaccia le dita”.
La morale che ne trae Einaudi è che il vero imprenditore allontana la frontiera, per cui “il vero grande pericolo non sta nell’avvicinarsi della frontiera ma nella rarità di persone come gli Henderson”. Con ciò Einaudi si riferiva alla teoria della frontiera, secondo cui raggiunte tutte le frontiere geografiche verso le quali ci si poteva spingere, il mondo sarebbe stato condannato ad un’economia stazionaria, il che mutatis mutandis è poi l’idea propria fatta propria da Serge Latouche e sposata da Carlo Petrini e da altri neomalthusiani o iper-malthusiani (questi ultimi convinti che l’ideologia di Malthus sia fin troppo ottimistica).
Sempre Einaudi scrive che “La terra libera non scompare mai: ad ogni generazione sorgono uomini che vedono più lontano degli altri, che “speculano” sull’avvenire, che scoprono le vie atte a salvare dalla miseria le moltitudini. Guai se gli inventori, i creatori del nuovo non esistessero o se troppi vincoli si ponessero all’opera loro! Si giungerebbe allora sì, ben presto alla frontiera, al di là della quale gli uomini non sarebbero capaci di avanzare. Nel giorno in cui lo spirito di invenzione del nuovo e di ribellione al vecchio fosse morto, come le moltitudini potrebbero essere occupate? Se non si inventano nuovi bisogni e nuovi metodi per soddisfare i bisogni nuovi, non si può impedire che ai bisogni vecchi si provveda con fatica sempre minore e ad ogni innovazione … la domanda di lavoro si contrae. Se davvero ci fermassimo di fronte la frontiera, se ci dovessimo contentare delle piccole normali innovazioni, il destino degli uomini sarebbe segnato.”
E ancora: Vanamente politici e filantropi si pongono il quesito su cosa far fare ai lavoratori che la macchina espelle dalle fabbriche o la trattrice dalla terra, ai montanari che il frumento della pianura costringe ad abbandonare i miseri campicelli della montagna. Politici e filantropi non possono dare la risposta. Farebbe d’uopo che essi diventassero quel che non è ufficio loro di essere, quel che mai non furono e non saranno: inventori, scopritori, amanti del rischio e della ventura.
Secondo Henderson l’agricoltore che invoca aiuti dal governo non farà mai bene. Chi è il governo? Sono signori che della terra non sanno nulla e che nonostante ciò si piccano di voler salvare l’agricoltura.

L’ATTUALITA’ DEL MESSAGGIO DI HENDERSON - EINAUDI
A conclusione di questo breve scritto c’è da domandarsi se sia ancora attuale il messaggio che ci proviene dal libro di George Henderson e dallo scritto di Luigi Einaudi. Certo, si tratta di scritti redatti negli anni 50 e dunque in un contesto molto diverso da quello attuale in termini storici (da poco usciti dalla seconda guerra mondiale si era in un contesto di piena guerra fredda), economici (le politiche agricole della comunità europea erano ancora di là da venire), sociali (nel 1956, pur essendo l’esodo dalle campagne già in atto, l’agricoltura italiana assorbiva ancora il 40% della manodopera complessiva contro il 3.8% odierno) e culturali (il livello medio di istruzione era senza dubbio assai più basso allora rispetto ad oggi).
Gli scritti in questione sono essenzialmente inni ad un imprenditore agricolo come self made man che si confronta costantemente con il mercato e rifiuta una cultura statalista ed assistenziale. E confrontarsi oggi con il mercato significa, allora come oggi, da un lato porsi il problema delle economie di scala e dunque di dimensioni aziendali adeguate e dall’altro orientare le proprie produzioni alle esigenze del mercato senza pretendere che qualcuno deformi il mercato per adeguarlo alle caratteristiche aziendali.
A ben vedere la visione di Henderson e di Einaudi è l’esatto contrario di quella che traspare da alcuni brani dell’enciclica “Laudato si” di papa Francesco4, da cui promana una visione essenzialmente statalistica e che vede l’agricoltore come il povero cui lo stato deve dare aiuto per raggiungere i mercati e per essere sul mercato. Il Papa pone così al centro della propria riflessione l’agricoltura di sussistenza, trascurando con ciò che il mondo ed in specie quello urbano è nutrito dall’agricoltura imprenditoriale che opera per il mercato. Con ciò dimentica che i piccoli produttori (quelli che producono in prevalenza per l’autoconsumo) devono essere messi in condizione di evolvere e di lavorare veramente per il mercato, il che si ottiene aggregandoli in modo da far raggiungere dimensioni aziendali sufficienti e livelli tecnologici adeguati allo scopo. Dico questo perché abbiamo di fonte a noi l’esempio degli agricoltori che operavano in Italia in aree marginali e che fra gli anni 50 e 70 hanno abbandonato la terra per inurbarsi, perché non ne potevano più “della fatica, del fango, della neve e della polvere”. Vi immaginate poi le grandi megalopoli come Shangai in Cina (45 milioni di abitanti), Karachi in Pakistan (23,5 milioni di abitanti), Il Cairo in Egitto (15 milioni di abitanti nell’area metropolitana), Lagos in Nigeria (11 milioni di abitanti), Città del Messico (25 milioni di abitanti nell’area metropolitana) o Buenos Aires (13 milioni di abitanti nell’area metropolitana) nutrite da “piccoli produttori che vivono di agricoltura, caccia e pesca5? Senza una logistica efficiente i cittadini di tali città sarebbero fritti, altro che piccoli produttori e chilometro zero. E siamo poi sicuri che i metodi tradizionali siano a minor impatto ambientale? Prendendo la CO2 come paradigma (anch’io sono ahimè vittima delle mode… ) segnalo che un litro di latte prodotto da zootecnia da pascolo comporta l’emissione di 3.7 kg di CO2 contro 1.5 kg per un litro di latte prodotto dalla zootecnia in stalla delle agricolture più avanzate (Capper, 2009).
Henderson e Einaudi ci additano dunque un agricoltore - imprenditore il cui scopo è quello di realizzare profitti e che ha come fari etici quelli di rifornire il mercato di cibo e beni di consumo, di comportarsi in modo corretto con clienti e fornitori e di conservare ed arricchire la fertilità del proprio fondo. Un simile agricoltore si aspetta uno stato leggero e che gli imponga unicamente le norme strettamente necessarie senza oberarlo di sovrastrutture burocratiche inutili. Questi a mio avviso sono gli elementi di più stringente attualità del messaggio di Henderson e di Einaudi.

Bibiliografia
Capper JL1, Cady RA, Bauman DE, 2009. The environmental impact of dairy production: 1944 compared with 2007, J Anim Sci. 2009 Jun;87(6):2160-7
1 lo scritto occupa le pagine che vanno dalla 520 alla 550 del libro di Luigi Einaudi “Lo scrittoio del presidente (1948 – 1955” pubblicato nel 1956 da Giulio Einaudi editore, ricevuto in dono alcuni anni orsono da un amico purtroppo scomparso e che solo ora mi sono deciso a leggere.
2 Tradurrei “Farming Ladder” con “La scala dell’agricoltura”, che è poi quel meccanismo che ha portato Henderson da garzone ad affittuario ed infine a proprietario.
3 Lo stesso testo, assieme allo scritto di Luigi Einaudi qui discusso, è stato ripubblicato da Edagricole nel 1987 con il titolo “Guadagnarsi la terra, esiste una frontiera?”.
4 Mi riferisco in particolare al brano che segue: “Per esempio, vi è una grande varietà di sistemi alimentari agricoli e di piccola scala che continua a nutrire la maggior parte della popolazione mondiale, utilizzando una porzione ridotta del territorio e dell’acqua e producendo meno rifiuti, sia in piccoli appezzamenti agricoli e orti, sia nella caccia e nella raccolta di prodotti boschivi, sia nella pesca artigianale. Le economie di scala, specialmente nel settore agricolo, finiscono per costringere i piccoli agricoltori a vendere le loro terre o ad abbandonare le loro coltivazioni tradizionali. I tentativi di alcuni di essi di sviluppare altre forme di produzione, più diversificate, risultano inutili a causa della difficoltà di accedere ai mercati regionali e globali o perché l’infrastruttura di vendita e di trasporto è al servizio delle grandi imprese. Le autorità hanno il diritto e la responsabilità di adottare misure di chiaro e fermo appoggio ai piccoli produttori e alla diversificazione della produzione.”
5 Per esempio, vi è una grande varietà di sistemi alimentari agricoli e di piccola scala che continua a nutrire la maggior parte della popolazione mondiale, utilizzando una porzione ridotta del territorio e dell’acqua e producendo meno rifiuti, sia in piccoli appezzamenti agricoli e orti, sia nella caccia e nella raccolta di prodotti boschivi, sia nella pesca artigianale.” (fonte: Enciclica Laudato si).



Luigi Mariani
Docente di Storia dell' Agricoltura Università degli Studi di Milano-Disaa,  condirettore del Museo Lombardo di Storia dell'Agricoltura di Sant'Angelo Lodigiano. E' stato anche Docente  di Agrometeorologia e Agronomia nello stesso Ateneo  e Presidente dell’Associazione Italiana di Agrometeorologia.

3 commenti:

  1. Luigi siamo i "matusa" (ti ricordi Luigi il neologismo sessantottino?) che avranno ragione. Io sicuramente non ci sarò più (spero che tu abbia la soddisfazione di vedere che hai avuto ragione)ma sono sicuro che prima che ciò avvenga ci sarà qualcuno che rimpiange di esserci!

    RispondiElimina
  2. Alberto, sono convinto anch'io che abbiamo ragione ma sui tempi del riconocimento di una linea di pensiero aperta all'innovazione in agricoltura la vedo dura, nel senso che non mi è dato di scorgere all'orizzonte un movimento di opinione in grado di ricevere il testimone.

    RispondiElimina
  3. Alessandro Cantarelli27 novembre 2017 alle ore 18:54

    Questo tuo contributo Luigi induce anche una riflessione sull'evoluzione della classe politica ma anche della società.
    Luigi Einaudi che a Piacenza il 30 ottobre 1949 (alla presenza del rettore della Cattolica p. Agostino Gemelli), posa la prima pietra della Facoltà di Agraria. Erano gli anni in cui bisognava dare più pane e l'Italia doveva riscattarsi nel mondo, anche in agricoltura.
    In questi anni invece le figure istituzionali, a partire dai ministri dell'Agricoltura, l'ultimo della serie Martina se ne vanno in pellegrinaggio a Pollenzo. E le Facoltà di Agraria? Si vede che sono roba "vecchia"?
    Quanto alla società. Si mettono sotto processo tutti gli alimenti, indiscriminatamente; lo zucchero di bietola fa male, le farine hanno il glutine..., la carne non ne parliamo, il latte oibò...
    Mangiamo direttamente gli scarafaggi (dal primo gennaio 2018), quelli si che sono buoni. Perché solo se il menù è quello di uno chef stellato, beh allora non si può dire nulla.
    E' il regno degli sciacalli.
    Anche quello è un modo di fare impresa: per i gonzi.

    RispondiElimina