di A. Michele Stanca
L'intervento
del convegno: “La Terra. Lascito dei genitori o prestito dei figli? Le
contraddizioni del processo di evoluzione e trasformazione
dell’agricoltura italiana.”
Con i risultati fin qui raggiunti si può pensare di alimentare il pianeta nei prossimi 40 anni, quando la specie umana supererà i 9 miliardi di individui? Benché la scienza e la tecnologia abbiano fornito in questi ultimi decenni risultati straordinari, e in considerazione del fatto che non possiamo più applicare la regola della messa a coltura di nuove terre, ma che dobbiamo risparmiare il terreno dalle continue razzie antropiche, nasce l’imperativo di dover chiedere all’unità di superficie l’ulteriore sforzo di ospitare, in perfetto equilibrio, nuove piante capaci di garantire il cibo per 10 miliardi di persone.
Alla domanda se ciò sia possibile, la risposta è stata positiva, ma dobbiamo disegnare nuove strategie. Gli obiettivi attuali sono rivolti a convogliare gli sforzi delle diverse discipline scientifiche verso lo sviluppo di tecnologie mature per l’agricoltura del futuro, a garanzia di produzione di alimenti per tutti. Se si analizza lo sviluppo e la crescita di una pianta addomesticata, si evidenzia che anche nelle migliori condizioni ambientali non si è riusciti a ridurre in modo consistente il gap esistente tra la produzione potenziale e quella effettiva raggiunta in azienda. Questo è il primo problema da affrontare. Il secondo è quello di disegnare nei prossimi anni un nuovo modello di pianta capace di innalzare ulteriormente la potenzialità produttiva. Se consideriamo il frumento risulta evidente che le nuove varietà e le nuove tecniche agronomiche, in alcuni Paesi europei, hanno permesso di raggiungere una media nazionale superiore a 8 t/ha con una potenzialità di 12-14 t/ ha, cioè sono stati ottenuti circa 20.000 semi/m² di terreno senza intensificare l’uso di prodotti di sintesi (Figura 3).
Oggi conosciamo in modo approfondito la tappa metabolica di risposta all’insulto; disponiamo della sequenza del genoma di molte specie, compresa la più complessa, il frumento; presso le banche del germoplasma sono disponibili i passaporti delle singole varietà con la descrizione fenotipico-molecolare delle loro caratteristiche peculiari; sono state disegnate nuove architetture di piante arboree; con l’aiuto della genomica nuove strategie di breeding sono state messe in opera per incorporare più geni in un genotipo superiore (Pyramiding); nuove tecniche agronomiche saranno via via disponibili per appiattire sempre più la curva degli input di sintesi. Un esempio molto appropriato riguarda l’architettura della pianta del melo regolata da un gene che controlla il portamento colonnare Colomnar (Co) mappato sul cromosoma 10. L’habitus di crescita colonnare, scoperto nel melo intorno al 1970, è caratterizzato da internodi corti, ridotta altezza e ramificazione della pianta. Questo modello ottimizza l’intercettazione della luce, permette di aumentare la densità di piante per ettaro come pure la produzione di frutti, riduce al minimo la potatura e facilita la raccolta meccanica (Wolters et al. 2013). Se a tutto ciò aggiungiamo i risultati ottenuti sulle resistenze, è evidente come anche per questa specie esistano già oggi incoraggianti prospettive. È interessante osservare come all’aumentare della produzione di prodotti utili, la curva degli input tecnologici non segua lo stesso andamento in parallelo ma si appiattisce. Come già detto, tutti questi sforzi dovranno seguire un percorso di compatibilità ambientale. Per alcuni aspetti della destinazione d’uso della biomassa, si comincia a sperimentare la coltivazione di piante perennanti al fine di ridurre l’input dei prodotti di sintesi. Nuovamente, alla domanda quindi se la scienza e la tecnologia abbiano gli strumenti per produrre alimenti per 10 miliardi di individui nei prossimi 40 anni, la risposta non può essere che positiva, perché abbiamo già oggi, rispetto a qualche decennio fa, strumenti di conoscenza assolutamente nuovi: siamo nell’era della Systems Biology.
L’analisi dei genomi è stata la maggiore conquista della genetica moderna per lo studio della struttura e funzione dei singoli geni e dell’intero genoma degli esseri viventi, fondamentale anche per comprenderne le dinamiche evolutive e sviluppare ulteriori biotecnologie al fine di migliorare specie vegetali per caratteri utili. Sono oggi disponibili le sequenze genomiche ad alta qualità di specie modello quali Arabidopsis e Brachypodium (oltre a quelle di specie di elevato interesse agronomico quali riso, mais, vite, melo, pioppo, patata, pomodoro, orzo e frumento). I genomi del riso e del Brachypodium sono particolarmente importanti perché servono anche da modello per lo studio dei genomi degli altri cereali, le Poaceae. Tra i genomi di maggiore complessità si annovera quello del frumento tenero (Triticum aestivum, 2n = 6x = 42-AABBDD) , stimato in 17 miliardi di bp, pari a cinque volte il genoma umano e a circa quaranta volte quello del riso. È caratterizzato dalla presenza di elementi ripetuti per circa l’80%. Si stima che soltanto nel cromosoma 5A siano contenuti da cinque a seimila geni (Vitulo et al. 2011). Il primo importante incrocio avvenne tra la specie portatrice del genoma A (Triticum urartu AA) e quella portatrice del genoma B (Aegilops speltoides BB), incrocio che diede origine a Triticum turgidum (AABB), il grano duro tetraploide che utilizziamo per fare la pasta; successivamente, questa specie unì il proprio genoma con quello di Aegilops tauschii (DD). Sequenziare il genoma del frumento è un po’ come completare un puzzle di migliaia di pezzi, tutti molto simili tra loro. Considerando la qualità dell’assemblaggio, i ricercatori stimano che Triticum aestivum possieda qualcosa come 106.000 geni codificanti per proteine, un numero elevatissimo se rapportato ai 25.000 geni umani, ma perfettamente in linea con le dimensioni considerevoli di questo genoma. Ciò che rende davvero speciale il genoma di Triticum aestivum è il fatto che esso sia in realtà costituito da tre distinti genomi, costretti dall’evoluzione a convivere all’interno della stessa specie. Nel genoma del frumento si trovano moltissime tracce di questi esperimenti evolutivi: si contano infatti migliaia di geni che mostrano differenze rispetto alla versione originale presente nelle piante selvatiche. Generalmente si tratta di mutazioni senza effetti particolari, ma in alcuni casi l’impatto sulla funzionalità della proteina è stato rilevante. Da queste sequenze ridondanti potrebbero ad esempio originarsi i microRNA (di 20-24 nucleotidi), una categoria di molecole fondamentali per la resistenza agli stress ambientali e agli agenti patogeni (Colaiacovo 2014). Nelle piante, sono particolarmente attivi durante lo sviluppo, ma non mancano esempi di microRNA che controllano la risposta agli stress ambientali, quali la siccità o la carenza di nutrienti nel terreno, e all’attacco di agenti patogeni. Agiscono spegnendo altri geni in modo mirato, controllando in questo modo la sintesi di nuove proteine. Ogni microRNA colpisce un particolare set di geni bersaglio, e gli effetti di questa regolazione possono amplificarsi notevolmente, perché spesso i geni target sono fattori di trascrizione, molecole che a loro volta controllano l’espressione di altri geni. Complessivamente, questi risultati suggeriscono che il frumento possiede un enorme “serbatoio” di microRNA al momento poco utilizzato, che potrebbe però essere attivato a seconda delle necessità (Mayer et al. 2014). Altri genomi vegetali il cui sequenziamento è stato già completato o è ancora in corso comprendono il caffè, la Medicago truncatula, la fragola, il pesco, l’arancio, nonché specie cosiddette orfane, di minore rilevanza economica rispetto alle grandi colture, ma comunque con utili destinazioni d’uso. Parallelamente si sta procedendo al sequenziamento del genoma di diversi funghi fitopatogeni, la cui analisi apre la possibilità di meglio comprendere quali siano i meccanismi evolutivi che determinano la patogenicità. Tra le piante da frutto più diffuse, è noto il genoma del melo (Malus domestica) varietà Golden Delicious, tra le più diffuse al mondo. I 17 cromosomi (2n = 34) contengono 742 milioni di basi e oltre 57.000 geni, tra cui spiccano i fattori di trascrizione (oltre 4.000), e i geni correlabili alle resistenze ai patogeni (circa 1.000), oltre quelli che regolano il portamento colonnare della pianta. Sono inoltre rappresentati in numero estremamente elevato i geni MADS coinvolti nello sviluppo del frutto, e i geni del metabolismo basale del pomo, quali ad esempio quelli legati alla sintesi del sorbitolo o glucitolo, lo zucchero tipico delle Rosaceae. Il genoma della vite (Vitis vinifera), varietà Pinot Noir, è formato da 475 milioni di basi, tre volte più grande di quello di Arabidopsis e sei volte più piccolo di quello dell’uomo, e contiene 30.434 geni codificanti per proteine. Una peculiarità di questo genoma è rappresentata dalla presenza di famiglie di geni legati alle caratteristiche organolettiche del vino. I genomi vegetali cambiano più rapidamente di quanto non facciano i genomi animali, portando così a una maggior variazione tra specie anche strettamente correlate e anche all’interno di una stessa specie. Il motivo di questa estrema plasticità è da ricercarsi nelle diverse condizioni di vita e di strategie di sopravvivenza delle piante rispetto agli animali, che sembrano dunque richiedere per le prime la presenza di genomi più “flessibili”. Un’importante caratteristica delle piante è che vaste porzioni dei loro genomi sembrano essersi duplicate, ossia interi segmenti di cromosomi con tratti di sequenze geniche quasi identiche si ritrovano in molteplici posizioni del genoma. Ciò suggerisce che, a un certo punto dell’evoluzione, questi genomi siano andati incontro a duplicazione (interamente o in parte) e che in seguito le sequenze duplicate (e quindi ovviamente sia geni che regioni regolative) siano andate in parte perdute e in parte si siano diversificate. Ci sono forti evidenze infatti che indicano come la duplicazione del genoma abbia importanti conseguenze morfologiche, ecologiche e fisiologiche, con effetti sui processi fotosintetici della pianta, sul suo sistema riproduttivo, sulla sua interazione con gli erbivori e gli impollinatori, sulla speciazione. Durante l’evoluzione, la formazione di poliploidi ha giocato probabilmente un ruolo di primo piano nella diversificazione delle angiosperme ed è stata molto rilevante anche nella genesi di importanti piante coltivate, quali il frumento, brassicacee e alcune rosacee. Il sequenziamento del genoma della vite ha suggerito come questa pianta, considerata diploide dalla genetica classica, sia in realtà derivata dalla fusione di tre genomi. Questo arrangiamento ancestrale è condiviso da molte altre dicotiledoni e assente in riso, che è una monocotiledone. La conclusione è, quindi, che questa triplicazione non fosse presente nell’antenato comune alle mono- e dicotiledoni. Il sequenziamento del genoma del pomodoro coltivato e del suo antenato selvatico, Solanum pimpinellifolium, ha evidenziato il fenomeno della poliploidizzazione. Come noto, il pomodoro appartiene alla famiglia delle Solanaceae, che comprende sia piante agrarie, quali patata e melanzana, che piante ornamentali e medicinali, quali la petunia, il tabacco, la belladonna e la mandragola. Una peculiarità delle Solanaceae è la loro diffusione in ecosistemi molto differenziati. La sequenza del genoma ha fatto nuova luce sulle basi molecolari di questo adattamento. Si è infatti dimostrato che il genoma di pomodoro si è “triplicato” improvvisamente circa 60 milioni di anni fa, in un momento vicino alla grande estinzione di massa che ha portato alla scomparsa dei dinosauri. Successivamente, la maggior parte dei geni triplicati sono stati persi, mentre alcuni di quelli superstiti si sono specializzati e oggi controllano caratteristiche importanti della pianta, comprese quelle della bacca, come il tempo di maturazione, la consistenza e la pigmentazione rossa. L’avvento dei marcatori molecolari ha consentito di definire la base genetica dei caratteri qualitativi e quantitativi (QTL), di stabilire le relazione di sintonia tra i genomi, di verificare i meccanismi genetici che controllano l’eterosi in specie quali il mais. La selezione assistita con marcatori molecolari per caratteri qualitativi è una realtà ormai diffusa anche presso le grandi aziende sementiere private. Lo sviluppo di una nuova classe di marcatori molecolari (Single Nucleotide Polymorphism - SNP) consentirà di automatizzare ed estendere più di quanto sia stato fatto finora le applicazioni basate sui marcatori molecolari, ad esempio sviluppando approcci di Whole Genome Association Mapping (Tondelli et al. 2013). Studi volti all’analisi dell’espressione genica in condizioni di stress e basati su svariate tecnologie di screening hanno permesso l’isolamento di numerosi stress-related genes, coinvolti nei processi metabolici più complessi del ciclo vitale delle piante (sviluppo e crescita, resistenza al freddo, al caldo, alla siccità, alle malattie, maturazione dei frutti ecc. L’identificazione dei recettori dei segnali ambientali o ormonali, dei messaggeri secondari, dei fattori di trascrizione coinvolti nei processi cellulari complessi, nonché lo studio delle interazioni di questi elementi tra loro e con l’ambiente rappresenta la chiave per comprendere il funzionamento globale della cellula e quindi la base molecolare del fenotipo (Cattivelli 2008).
L’analisi su larga scala del trascrittoma ha infatti evidenziato che centinaia di geni sono attivati o repressi in risposta agli stress. I diversi geni individuati, oltre ad avere un ruolo diretto nella protezione delle cellule dai danni causati da stress osmotico, sono coinvolti nell’attivazione di circuiti di regolazione che controllano l’intero network della risposta. I geni coinvolti sono, quindi, generalmente divisi in due categorie: geni funzionali, che includono geni implicati nella sintesi di molecole e proteine con ruolo protettivo di processi cellulari cruciali (proteine protettive, enzimi detossificanti, osmoliti compatibili ed altri), e geni regolatori, codificanti proteine regolatrici coinvolte nella percezione e trasduzione del segnale di stress (putativi recettori, calmoduline, calcium-binding proteins, fosfolipasi, chinasi e fosfatasi, fattori di trascrizione), che modulano l’espressione dei geni appartenenti alla prima categoria. I fattori di trascrizione sono considerati ottimi targets per rendere una pianta tollerante a stress. La vita della pianta, oltre gli stress abiotici, viene tormentata da attacchi anche massicci di parassiti vegetali ed animali. Durante la loro crescita le piante sono costantemente attaccate da patogeni che cercano di invaderle. Questi patogeni accedono all’interno dei tessuti vegetali della pianta tramite meccanismi di penetrazione attivi che forzano gli strati esterni e la parete cellulare, attuati da funghi e nematodi, o attraverso aperture naturali (stomi, idatodi, lenticelle) e ferite nel caso dei batteri, o veicolati da insetti e funghi e da operazioni meccaniche che causano ferite. I patogeni possono invadere tutti gli organi della pianta, dal seme in fase di germinazione fino alle radici, ai fusti, alle foglie e ai frutti. Per rispondere alla presenza di patogeni che cercano di invaderle, le piante non possiedono un sistema immunitario adattativo, come quello presente negli animali, ma hanno a disposizione meccanismi di resistenza basati su un sistema immunitario innato che consente di riconoscere e rispondere all’azione di patogeni specifici. La cosiddetta “immunità” delle piante dipende da eventi dotati di autonomia cellulare: una singola cellula che subisce un tentativo di invasione è, cioè, in grado di attuare tutti i processi che portano a una risposta di resistenza. Alla base di questa serie cruciale di eventi è stato individuato un repertorio molecolare di riconoscimento molto esteso, ed è proprio grazie a quest’ultimo che gli organismi vegetali sono in grado di sopperire alla già menzionata mancanza di un sistema immunitario adattativo. A valle dei fenomeni di riconoscimento le piante infettate possono attivare geni che determinano la sintesi di un’ampia varietà di molecole, tra cui le fitoalessine, piccole molecole ad ampio spettro antimicrobico sintetizzate dalla pianta in tempi brevissimi, e le proteine PR (pathogenesis related), a più lenta azione, ma dotate di molteplici funzioni. Queste e altre molecole ancora, rientrano in meccanismi di notevole complessità, quali la risposta ipersensibile e la resistenza sistemica acquisita. Molti funghi e batteri che infettano le piante producono una grande quantità di enzimi che degradano la parete cellulare come, per esempio, le poligalatturonasi, le pectin metilesterasi, le endoglucanasi e le xilanasi. Le piante, a loro volta, hanno sviluppato una serie di risposte di difesa tra cui gli inibitori proteici di questi enzimi, come le PGIP (polygalacturonase-inhibiting protein), le PMEI (pectin methylesterase inhibitor), che inibiscono enzimi che degradano la pectina e gli inibitori delle xilanasi che inibiscono enzimi che degradano le emicellulose. Il coinvolgimento di questi inibitori nella risposta di difesa della pianta è stato dimostrato attraverso la produzione di piante transgeniche sovraesprimenti questi inibitori, sottoposte ad infezione con determinati patogeni. Quanto sin qui descritto indica che è possibile tracciare oggi strategie genetico-molecolari per l’identificazione e l’introgressione dei geni di resistenza nel germoplasma coltivato come un valido strumento per costituire nuove varietà resistenti e conseguentemente limitare le perdite produttive imputabili ai patogeni e l’uso di fitofarmaci in agricoltura, con indubbi vantaggi in termini economici e ambientali (Figura 6).
Tuttavia, l’efficacia della resistenza della pianta è sovente limitata nel tempo perché alcuni ceppi patogeni evolvono la capacità di superarla: si tratta di geni resistenza razza-specifica che agiscono in tempo limitato. Da una parte, si sta percorrendo la strada della rincorsa verso la scoperta di nuovi alleli utili nel germoplasma anche selvatico, e dall’altra dell’introduzione della “durable resistance” come fonte di difesa che conferisce resistenza completa verso tutti gli isolati del patogeno o mediante introgressione di geni multipli derivanti da diversi germoplasmi attraverso il “gene pyramiding” e la selezione di rari ricombinanti tra geni di resistenza strettamente associati (Stanca et al. 2014). Uno degli aspetti di particolare considerazione riguarda la genomica per la qualità e sicurezza alimentare. La qualità delle produzioni agroalimentari rappresenta un concetto particolarmente complesso, coinvolgendo le esigenze spesso differenti dei diversi attori delle filiere, quali i produttori, gli stoccatori, i trasformatori ed infine i consumatori. Innumerevoli sono gli esempi di applicazioni biotecnologiche al miglioramento della qualità in piante agrarie, così come ampie sono le prospettive delle biotecnologie applicate alle richieste mutevoli del settore (AA.VV. 2014). Tutto ciò però deve essere dimostrato in qualsiasi tappa della filiera e pertanto il processo necessita di disporre di strumenti inequivocabili di tracciabilità. Con il termine tracciabilità molecolare vengono indicate metodiche genomiche, proteomiche e metabolomiche capaci di dare indicazioni su diverse caratteristiche di una produzione agraria o di un prodotto agroalimentare, quali sicurezza e qualità, origine geografica, valore nutrizionale, autenticità. Il fingerprinting molecolare è applicabile a tutti i livelli delle filiere di produzione agroalimentari, partendo dalla caratterizzazione della diversità genetica fino ad arrivare alla tracciabilità delle materie prime nelle fasi di trasformazione, confezionamento e distribuzione degli agro derivati. È perciò oggi possibile utilizzare tecniche di DNA profiling per verificare la presenza in un prodotto finito di specie vegetali potenzialmente allergeniche, ma anche verificare la composizione di una pasta alimentare sia in termini di specie cerealicole presenti, che in termini di varietà. A questo si aggiunge l’importanza di avere a disposizione anche approcci proteomici per la diagnostica di proteine ed enzimi responsabili di caratteristiche desiderabili o, al contrario, indesiderabili. Alla selezione assistita con marcatori molecolari si affianca la tecnologia della trasformazione genetica. I nuovi indirizzi biotecnologici sono rivolti a produrre piante geneticamente modificate prelevando geni da piante filogeneticamente affini -Piante Cisgeniche- oppure da piante filogeneticamente lontane -Piante Transgeniche- (Clive James, ISAAA –International Service for the Acquisition of Agri-Biotech Applications, www. isaaa.org). I benefici attesi dall’impiego delle Piante Geneticamente Modificate in agricoltura sono stati ampiamente discussi in pubblicazioni internazionali e nazionali nonché con interventi sul sito di società scientifiche come la Società Italiana di Genetica Agraria (www.siga.unina.it/gmo_01.html) o la Società Americana di Biologia Vegetale (http://tinyurl.com/pfanvcq). Tra i benefici, sono stati segnalati: il minor consumo di pesticidi chimici, l’incremento percentuale di specifici nutrienti, la maggiore produttività e quindi un minor sfruttamento delle risorse naturali, la possibilità di utilizzare le piante come fabbriche naturali di sostanze industriali o farmaceutiche, individuando così nuovi orizzonti per la produzione agricola, la possibilità di cambiare in maniera mirata e più velocemente, rispetto al tradizionale incrocio, pochi caratteri deficitari in una varietà altrimenti buona, la possibilità di eliminare potenziali allergeni nelle colture, la possibilità di monitorare il livello d’inquinamento nel suolo e di ridurlo rimuovendo i composti inquinanti.
La conoscenza dei meccanismi che regolano l’architettura della pianta, molto spesso mediata da un controllo ormonale, sono fondamentali per i nuovi ideotipi di pianta per il futuro. In genere gli studi sono stati rivolti principalmente a fisiologia, metabolismo e genetica della parte aerea delle piante. Oggi tuttavia una maggiore attenzione viene rivolta alle radici, per migliorare l’efficienza d’uso dell’acqua (WUE), dell’azoto (NUE), del fosforo (PUE), alla resistenza al freddo (cor genes), alle proprietà fisico-chimiche e biologiche del suolo e al loro impatto sulla resistenza alle malattie, in modo da disegnare un moderno sistema integrato (IPM: Integrated Pest Management) per mettere i nuovi genotipi di pianta nella migliore condizione di crescita. Sono in atto in “Open Field” i primi esperimenti di simulazione dell’incremento della CO₂ nell’atmosfera, che passerà dalle 400 ppm (parti per milione in volume) attuali a 600 ppm nel 2050 per verificare l’effetto sulla fotosintesi e qualità dei prodotti. Sulla base di tutto ciò è stata disegnata una nuova pianta di frumento tenero capace di raggiungere una potenzialità produttiva di 20 t/ha nel 2020 partendo dalle attuali 14 t/ha. Non trascurabile è anche il tema che vede il sistema produttivo agrario non più basato sul trinomio Pianta-Atmosfera-Suolo ma piuttosto sul quadrinomio Pianta-Atmosfera-Suolo-Microrganismi che vivono intorno o dentro le radici. Questa nuova visione ha stimolato la nascita di network per monitorare l’evoluzione del metagenoma al variare dei diversi sistemi colturali e degli ambienti, e come questo possa influenzare la vita delle specie agrarie e selvatiche. Si ipotizza già che la performance di specie di piante e di genotipi entro specie dipenderà anche dagli inoculi microbici, specifici per l’esaltazione di determinati caratteri, che interagiscono con gli elementi fisico-biochimici del suolo e con il microbioma naturale in specifiche condizioni (Schlaeppi and Bulgarelli 2015).
Le nuove sfide della moderna agricoltura per alimentare il mondo si baseranno sempre più sulla scienza e l’innovazione tecnologica, in particolare quella derivata dalle discipline “omiche”, e sulla velocità con cui queste nuove tecniche raggiungeranno l’azienda agraria.
Bibliografia
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Antonio Michele Stanca
Docente universitario, genetista di fama internazionale . E' Vicepresidente dell’ Accademia dei Georgofili e dal 2011 è Presidente dell’UNASA. Laureato in Scienze Agrarie; è autore di oltre 350 pubblicazioni su riviste scientifiche nazionali e internazionali.
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Antonio Michele Stanca
Docente universitario, genetista di fama internazionale . E' Vicepresidente dell’ Accademia dei Georgofili e dal 2011 è Presidente dell’UNASA. Laureato in Scienze Agrarie; è autore di oltre 350 pubblicazioni su riviste scientifiche nazionali e internazionali.
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