di Antonio Saltini
"La sacerdotessa di Brahama". A Shiva quale membro della Trimurti è
affidato il ruolo di distruttore, colui che periodicamente riassorbe il mondo.
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Non sussiste alcun dubbio che tra le star assurte nel firmamento dei divi, la carriera più folgorante, applicando la regola, sia stata quella della maga indiana Vandana Shiva: solo gli assessori regionali italici le tributerebbero, secondo le voci di chi sia riuscito a penetrare i misteri della contabilità regionale, milioni di euro. Ma il mercato della diva si estenterebbe alle facoltà americane di livello inferiore, comunque dotate di fondi invidiati dagli ultimi poli della cultura italiana. Autentica alfiere della nuova cultura planetaria la maga sarebbe assurta, per i meriti etici e culturali, tra le donne più ricche del mondo.
Se si vuole, onestamente, attribuire al merito l'onore che gli è dovuto, si deve riconoscere che avere fatto scrivere, ai devoti, per trent'anni, su mille opuscoli, che sarebbe stata una "fisica quantistica", un menzogna smentita, reperendo il testo (uno zibaldone che negava, in base ad elucubrazioni braminiche, le leggi chiave della medesima fisica quantistica) in un'università sperduta tra le praterie del Manitoba, da un reporter del Newyorker, dimostra un'abilità che può derivarle soltanto dall'affetto di Shiva, il nume protettore della maga, la divinità dell'odio della Trimurti.
Siccome, ottenuti dettagli oltremodo circostanziati sulla scoperta, le dedicai una nota, che nessun organo di comunicazione italico accettò di pubblicare, ma fu accettato, con grande disponibilità, dal blog del Department di studi sulla politica internazionale dell'University of California, forse più autorevole dei giornalucoli italici che avevano rifiutato il testo, iniziai a propormi, sulla devota della divinità del male, domande che non mi risulta fossero mai state proposte, ma che la grande menzogna della fisica quantistica imponeva di affrontare.
Tra quelle domande la più insolubile appariva, inequivocabilmente, quella sulle ragioni degli innumerabili suicidi che ogni anno si registrano tra i contadini indiani: palesemente il governo dell'India fa il possibile per negare l'evento, ma pare si tratti di autentiche decine di migliaia. Ora, contro gli sforzi del governo a mantenere segreta una palese vergogna dell'intera società indù, a pubblicizzare tanto vanto è proprio lei, la maga, che attribuisce i suicidi al costo esorbitante delle sementi o.g.m. delle "multinazionali", che odia con tutta la furia che accende in lei la divinità protettrice.
E' assolutamente provato, peraltro, che le sementi straniere nessuno, in India, può importarle e utilizzarle, per volere di un parlamento di ispirazione braminica che la stessa maga ha appassionatamente indotto a bandirle. Chi legga, del resto, i rapporti dell'apparato di ricerca genetica indiana constata che decine di enti producono centinaia di varietà di cereali, leguminose, varietà di lino e di fruttiferi. Negli elenchi ufficiali sono indicate le produttività, che per tutte le specie, sottospecie e cultivar sono catastroficamente inferiori a tutte le medie internazionali. Probabilmente perché i parlamentari con turbante amici della maga hanno proibito ai costitutori l'impiego degli strumenti della biologia molecolare che nei paesi civili costituiscono il caposaldo di qualunque produzione sementiera.
La realtà, che la maga (dato il padrino infernale sarebbe più proprio definirla strega) non ha mai spiegato ai devoti, è che, come in tutte le società premoderne, i contadini vivono, in India, nella disumana soggezione all'usura. Il sistema dell'affidamento, da parte dei feudatari indù, delle proprietà alla casta degli zamindar, gli usurai di villaggio, vige, in India, dall'alba dei principati protostorici: storicamente è certo che fu utilizzato, per dissanguare i rayat, i contadini, fino all'ultima goccia di sangue, come essenziale strumento politico-economico, dall'impero Mogul, che sottomise l'India al più bestiale tra tutti gli imperi orientali durante quello che potrebbe essere definito il Medioevo indiano, e fu accortamente conservato dalla Società delle Indie britannica, e, per i prodigiosi frutti che assicurava, dai vicerè di Londra che ai Mogul sottrassero la preda, troppo lauta per essere lasciata tra gli artigli di barbari disumani.
L'essenza del sistema, che gli storici dell'agricoltura hanno rinvenuto, pressoché identico, nelle società europee prima del riscatto umano che il progresso economico impose al termine dell'Ottocento, consiste nell'imposizione di una divisione dei prodotti che mantenga il contadino perennemente in debito, imponendogli, per quel debito interessi usurari che lo conservano, immutabile, come onere perenne. Ora è palese che l'annata dal monsone avaro decurta produzioni già miserabili, impedendo al rayat di pagare gli interessi sul proprio debito, la circostanza che consente allo zamindar di sequestrare la casupola, il campicello e la mucca, costringendo la famiglia alla strada che conduce alle sontuose città indiane, la strada lungo la quale l'unica fonte di qualche rupia per un boccone di pane sarebbe la prostituzione dei figli, femmine e maschi, l'eventualità che il padre, sconvolto, esorcizza uccidendo moglie e figli prima di suicidarsi. Chi volesse documentarsi sul sistema potrebbe dedicare un'ora alla lettura di La Sicilia nel 1876, il capolavoro di sociologia rurale di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, in quell'anno due brillanti laureati in giurisprudenza all'Università di Pisa.
La grande strega ha sempre proclamato che il suicidio di famiglia sarebbe imposto dalle sementi che nessun rayat può acquistare, e la menzogna ha acceso verso il nemico americano l'universale odio di tutti i creduli (e ignoranti), mentre è conseguenza diretta del sistema di divisione dei prodotti vigente da millenni e che non sarà, verosimilmente, mai mutato.
Perché mai mutato? L'unica risposta storicamente razionale è il riconoscimento che, seppure l'India abbia vestito la maschera di società democratica, il sistema delle caste è tuttora il perno delle relazioni sociali, e i rayat, appartenenti alle caste più infime, o, addirittura, parja, quindi privi di una casta, secondo l'etica indù neppure uomini, possono essere sfruttati, secondo le leggi sanzionate da Brahama e tutelate da Shiva, fino alla morte.
Ho ricevuto una testimonianza agghiacciante della realtà indiana da un amico che mi è sempre stato vicino, inviato, per approfondire la conoscenza sulla diffusione della tubercolosi in India, dall'American Society of Pneumatology, di cui è membo illustre. L'esito del rapporto: in India non esiste alcun sistema pubblico di prevenzione della tubercolosi, che in famiglie denutrite viventi nel medesimo tugurio, si diffonde implacabilmente, assicurando una fonte inestinguibile di proventi alla casta dei medici, che continuano a prescrivere farmaci inutili (data la promiscuità coatta) fino all'appropriamento dell'ultima rupia della miserabile famiglia, cui non resterà che il suicidio degli ultimi, debilitati membri. Le divinità dell'Olimpo, pure praticanti, allegramente, tutti i vizi immaginabili, avevano sancito il "Giuramento di Ippocrate", che avrebbe obbligato ogni medico a soccorrer l'infermo, le divinità del Gange appaiono tanto più bestiali di quelle greco-romane.
Persino Mussolini, che sognava che i contadini italici fossero pronti a ripetere le gesta dei legionari romani, ascoltò i pneumatologi della grande scuola italiana e creò i sanatori. In India come è certo che nessuna autorità politica proporrà mai una riforma agraria che muti le sorti dei contadini, annientando il potere degli usurai, un pilastro della società indù, nessun parlamento voterà mai un sistema di prevenzione pubblica della tubercolosi, che annienterebbe una fonte capitale dei proventi dei medici, ovviamente tutti appartenenti a categorie braminiche superiori.
Ebbene, se la furibonda campagna della strega Vandana contro le multinazionali, che in India vendono solo seme di cotone (ammesso perché non commestibile) che i contadini acquistano perchè immensamente più produttivo delle cento creature del leviatanico apparato sementiero nazionale, sperando di ricavarne un reddito che non solo ripaghi la semente, ma procuri una piccola somma per lo zamindar, ha un senso, quel senso appare essere, palesemente, il proposito di celare la verità sulla tragica vita del miserabile rayat indù, un uomo condannato a vita perché di casta inferiore, nascondendo le responsabilità di tutti gli usurai indiani, delle caste, cioè, che pure rappresentando, nelle campagne, un gradino infimo del sistema sociale, sono autorizzate da Visnù a dissanguare i miserabili, che dal sistema sono esclusi. Singolarmente proprio le caste cui apparterrebbe anche la maga Vandana, nelle cui oscure biografie comparve la notizia che fosse figlia di un agente forestale, palesemente membro delle caste inferiori della piramide civile, ma in possesso del potere di strangolare, senza pietà, qualunque famiglia contadina.
Per approfondire i dettagli suggerisco: Deepak Kumar, Science in Agriculture. A study in Victorian India, pubblicato nell'imponente cornice storica coordinata da A. Rahman, Science and Technology in Indian Culture , 1984 .
Antonio Saltini
Già Docente di
Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico
delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura
Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di
argomento agricolo, Terra e Vita. E' autore della Storia delle Scienze
Agrarie opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com (qui)
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