di Emiro Endrighi
a cura di Alessandro Cantarelli
(Scatto di immagine di
alcuni Relatori convegno. Procedendo da sinistra si riconoscono:
Valter Manfredi, Antenore Cervi, Emiro Endrighi, Michele Stanca ed
Enrico Francia).
|
Come sfameremo i 10
miliardi di persone nel 2050? Come viene utilizzata la risorsa terra?
Non sempre condivido
l’approccio prevalente ‘modernista e industrialista’ al fare
agricoltura; non sono del tutto in sintonia con l’amico Prof.
Stanca (che come rappresentante dell’Accademia dei Georgofili1
e Presidente UNASA2 aveva introdotto questo convegno,
osservando il problema dei forti tagli alla ricerca agraria e della
conseguente perdita di competitività del nostro Paese per scelte
“oscurantiste”, n.d.r.), su questo specifico tema, ma il
confronto deve essere costruttivo.
Le nostre generazioni,
almeno da qualche decennio ad oggi, hanno commesso un errore: quello
di credere sempre e comunque nella modernizzazione e, in più, che
essa passi necessariamente attraverso l’innovazione tecnologica e
che, inoltre, sia in grado di recuperare gli errori da essa stessa
commessi. Si pensi alle
problematiche ambientali; l’agricoltura non è esente da colpe.
La realtà è complessa;
la fede nella produttività, il pensare che oggi la competitività
passi attraverso l’aumento della produttività per abbassare i
costi è fuorviante e anche pericoloso. La questione di fondo
attiene al reddito perché i contadini senza reddito non stanno sulla
terra. Ma il reddito passa
necessariamente dalla riduzione dei costi di produzione, con tutti i
danni che questo modo di operare ha creato? Questa è la domanda
forte. Perché si rischia di non vedere le conseguenze del modello
produttivista, anche a livello mondiale.
Altro tema. Chi lavora
“questa” terra? I contadini3, come preferisco
chiamarli.
I censimenti, le
statistiche, dicono chiaramente che la maggior parte delle aziende,
in Italia e buona parte d’Europa, sono condotte da famiglie
contadine, in ciò smentendo (si invita ad una riflessione), una
schiera di marxisti e modernisti che a loro tempo avevano prefigurato
la scomparsa dei contadini, proprio a seguito della modernizzazione;
immaginando che quest’ultima avrebbe portato
all’industrializzazione dell’agricoltura e, così come nelle
industrie capitalistiche, al conflitto di capitale e lavoro. Ma
questo non è successo, e i contadini sono ancora lì!
Ciononostante si deve
rilevare che i contadini negli studi e nelle ricerche figurano poco.
L’Economia agraria si occupa di mercati, poco di contadini. La
Sociologia rurale è, in Italia, quasi scomparsa, forse perché si
scambia l’idea (che i contadini sarebbero scomparsi) con la realtà:
ma nella realtà i contadini ci sono!! Anche su queste ultime
questioni si deve riflettere; sul tipo di ricerche che si fanno
ambito accademico.
Non succede però solo in
tale ambito; i contadini, come argomento, sono scomparsi in generale,
al di là di rare occasioni: provocatoriamente, dove erano i
contadini ad EXPO’? Non perché non siano importanti le industrie
di trasformazione, le multinazionali, tutto il sistema alimentare! I
“contadini” ad EXPO’, questa componente fondamentale, non si è
vista! Prendendo a prestito la
frase di un collega sociologo, bisogna chiedersi: “di cosa ci
parlano oggi i contadini?”. La prima cosa da fare quindi è
ascoltare.
I contadini ci parlano
innanzitutto del fatto che sono inseriti in un sistema che li
condiziona pesantemente, “l’impero” (per dirla con Van der
Ploeg): le multinazionali sementiere, le grandi industrie, le catene
distributive; nessuno mette in dubbio che siano importanti,
innanzitutto per l’apporto che hanno dato (si pensi alla
meccanizzazione), in termini di fatica risparmiata all’uomo. Però
sono altrettanto pesanti i condizionamenti sotto tutti i punti di
vista: ambientali, della qualità degli alimenti, fino all’entità
del reddito.
Prendiamo due casi. Il
primo riguarda gli studi che mettono in relazione le caratteristiche
dei frumenti di oggi (in particolare per il contenuto di glutine) con
i fenomeni di intolleranza, la Gluten Sensitivity non celiaca. La
selezione ed il miglioramento hanno privilegiato gli aspetti
tecnologici, particolarmente utili all’industria. Altri aspetti
sono stati trascurati. Ma la società deve guardare a tutto nel suo
insieme, a tutto il sistema; invece si guardano i “pezzettini”
(“noi” come consumatori, “noi” come agricoltori, “noi”
come industrie). L’industria di trasformazione ha grandi meriti, ma
il contadino dov’è? Il consumatore dove è?
Secondo caso. Come
consumatori siamo tutti ben contenti quando a parità di qualità
spendiamo meno; così succede quando acquistiamo al supermercato il
Parmigiano Reggiano di 22 mesi in promozione a 8,20 € al kg.
Quello che ci sfugge è
che acquistando a quel prezzo, “uccidiamo” il prodotto e le
aziende, soprattutto quelle marginali, di collina, che manutengono il
territorio. Poi ci si lamenta del dissesto idrogeologico, perché non
ci sono i contadini che con la loro attività lo prevengono!
Allora, in una società
come la nostra, dove ormai si spende in media per gli alimenti meno
del 15% del reddito disponibile e di questo una quota rilevantissima
va alla GDO ed all’industria di trasformazione anziché agli
agricoltori…, beh, allora una riflessione su questi temi bisognerà
pur farla!
Va pure messo in evidenza
che il mondo agricolo ricerca, in minima parte, il suo “essere
presente”, la sua capacità di “aspirare” tramite varie
modalità; farmer markets, vendita diretta, GAS, agriturismi ecc.,
sono la spia di un mondo non passivo, anche se oggi queste iniziative
incidono poco rispetto alle modalità standard. Un mondo contadino
che cerca, almeno negli interstizi che gli sono consentiti, di
affermare sé stesso.
Quindi il tema della
cultura contadina, dell’essere contadini oggi, di chi sono i
contadini oggi è un tema forte ed in questo Istituto è un tema da
sempre presente. La Vostra presenza è la prima riconoscenza e, anche
grazie all’iniziativa di oggi, si continuerà a parlarne. La
Biblioteca “Emilio Sereni” e l’Istituto “Alcide Cervi”
continueranno a mantenerlo e a proporlo verso l’esterno, a tutti
quanti vorranno ascoltare.
3Contadini= lavoratore della
terra/abitante del contado (=campagna circostante la città, compresi
i poderi, i villaggi e sim.). Contrario di cittadini. Da: Lo
Zingarelli 2008. Vocabolario della lingua italiana di Nicola
Zingarelli. Zanichelli ed., Bologna, 2008 (XII ediz.)
Emiro Endrighi
E' professore di
Economia e Sviluppo rurale all'Università di Modena e Reggio Emilia
dove è presidente del CdS in “Scienze e Tecnologie agrarie e degli
alimenti’. E’ stato Membro del “Comitato scientifico per le
Denominazioni d’Origine” dell’UE, Presidente del “Consorzio
per la valorizzazione dei prodotti dell’Appennino”, Presidente
del GAL Antico Frignano e Appennino Reggiano; è membro del Comitato
scientifico della Summer School sul Paesaggio Agrario ‘Emilio
Sereni’.
Voglio leggere soluzioni e non enumerazioni di problematiche, quelle le conosco anch'io. Un professore universitario è pagato per dare soluzioni e non per fare denunce e se non fa questo ruba uno stipendio.
RispondiEliminaSignor Guidorzi non sono d'accordo nel definire un docente che non la pensa come lei uno che ruba lo stipendio, anche se penso che farmer markets, vendita diretta, GAS, agriturismi, sanno molto di ideologia slow food.
RispondiEliminaAntonio Spina per favore leggere bene perchè il mio pensiero è chiaro e non c'entra un'acca la diversità di visione. Io ho scritto che un professore universitario che si limita alle denunce e non da soluzioni ruba lo stipendio. Le sole denunce sono concesse al cittadino qualunque, vere o presunte che siano, ma non ai professori universitari, questi alle denunce devono far seguire ipotesi di soluzione perchè sono pagati per farlo. Purtroppo però ormai negli ambienti universitari dare soluzioni è un optional.
RispondiEliminaFrancamente, penso che i 'contadini' debbano trasformarsi in imprenditori, in grado di valutare e scegliere le nuove tecnologie (pgm comprese) e di impostare piani industriali. Sono nato e cresciuto in campagna, anche se professionalmente mi occupo di altro, in questi anni ho visto ben pochi cambiamenti nelle aziende agricole, e la situazione è desolante: aziende troppo piccole, conduttori ottantenni (o figli degli stessi, che però hanno un'altra occupazione principale), nessun investimento, scarse competenze, nessuna prospettiva. E il futuro prospettato dalle riviste di divulgazione (associazioni di categoria e enti pubblici) sembra essere quello dei frutti dimenticati, dei grani antichi, del biodinamico, dei dop di nicchia ma così di nicchia da avere costi di gestione amministrativa non lontani dalla plv (es. aglio di Voghiera, ma che senso ha?).. nessuno che dica chiaramente che un'azienda con terreni a seminativi di 15ha o un frutteto/vigneto di 3ha non ha più senso. Dalle mie parti (bolognese) almeno metà dei terreni agricoli sono dati in affitto a contoterzisti o gestiti dai propriari (pensionati o con altre occupazioni) con il criterio di costi minimi e zero investimenti, si tratta di terreni gestiti e coltivati male, la cui vera fonte di reddito (peraltro veramente modesto) è la pac... e qui ci preoccupiamo di salvare le aziende marginali?, ma due terzi delle aziende italiane (o forse anche più) sono marginali!
RispondiElimina
EliminaAnonimo
Pensa che sono trent'anni che dico esattamente le cose che tu dici nel tuo intervento...e sembro ancora un marziano. Ti posso dare un esempio proprio bolognese. Tu sai che la provincia di Bologna era una delle province più bieticolo-saccarifere d'Italia e sembrava che fosse una filiera indistruttibile. Io ci vivevo dentro, ma avevo anche esperienze francesi e tedesche.Nel 1990 in un convegno ebbi a dire che i francesi da 75 q/ha di zucchero del 1970 erano passati a 120 q/ha di produzione, mentre noi avevamo migliorato di soli 10 q/ha (da 50 eravamo passati a 60)e ne avevo concluso che se non avveniva un salto di qualità con innovazioni industriali e agricole, alla prima modifica dello status-quo eravamo destinati alla sparizione. Fui tacciato di disfattismo, ma immancabilmente nel 2005 il 90% della nostra industria e della bieticoltura fu dismessa da un anno all'altro, mentre i francesi continuarono il loro trend di produzione (aumentandolo).
Perché è capitato questo? Semplice i francesi dovevano competere con l'esportazione, mentre noi con nessuno in quanto lo zucchero era autoconsumato ed inoltre per far persistere la filiera si è pensato bene di far far reddito agli agricoltori aumentando i prezzi di vendita del prodotto agricole e di salvare gli zuccherifici con contributi statali a fondo perduto. IN definitiva i francesi per competere innovarono in tutto il settore, mentre noi non abbiamo stimolato nessuna innovazione. Questo discorso te lo potrei fare su ogni pianta agricola che coltiviamo ed infatti importiamo il 50% di ciò che mangiamo.