mercoledì 28 giugno 2017

I trabocchetti della globalizzazione - Comprendere le dinamiche e le fratture della globalizzazione - Seconda parte


Sintesi assicurata da Alberto Guidorzi e Luigi Mariani


Questo lavoro costituisce il seguito di uno già uscito e presenta le tesi sulla globalizzazione espresse dall’economista Henri Regnault nel suo scritto uscito su La crise, n°37 dell’aprile 2017 in cui si discute di globalizzazione da un angolo di visuale originale.


La globalizzazione nella storia
Da quanto scritto nella prima parte dell’articolo si potrebbe arguire che i paesi sviluppati per l’avidità di sfruttare la manodopera povera si sono scoperti “becchi e bastonati” perché hanno arricchito solo pochi a scapito dei propri concittadini delle classi medio-basse. Una tale interpretazione è però eccessivamente semplificatoria in quanto classifica in toto i vari paesi come perdenti o vincenti di fronte alla globalizzazione, mentre la realtà ci dice che all’interno di ogni nazione vi sono perdenti e vincenti, contenti e scontenti.
Si tenga inoltre conto che la globalizzazione è un processo antico la cui origine può essere quantomeno fatta risalire alle grandi scoperte geografiche del Rinascimento europeo. In seguito il processo è proceduto fra alti e bassi assumendo ad esempio un profilo alto fra 1850 e grande guerra, stagnando poi fra le due guerre e ripartendo infine in grande stile nel secondo dopoguerra.
Ogni fase espansiva del fenomeno si lega ad evoluzioni istituzionali, tecnologiche e sociali. Il GATT (Accordo generale su tariffe e commercio), poi OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio) e l’FMI (Fondo Monetario Internazionale) ne sono la dimensione istituzionale che ha dato un quadro normativo al commercio ed agli investimenti. Solo che si dimentica che questo quadro macroeconomico è il frutto di tante decisioni microeconomiche prese da attori dell’economia reale (industriale e dei servizi) in quanto sfruttanti l’evoluzione dei trasporti e della comunicazione. Il fatto poi che ben 164 paesi del pianeta, cioè la stragrande maggioranza, o sono membri dell’OMC e hanno fatto domanda di adesione la dice lunga sul fatto che comunque si giudichi la globalizzazione tutti sentono il bisogno di partecipare alle discussioni. E’ vero oggi viviamo un momento di stanca negli accordi commerciali multilaterali ( il Doha Round dura da quasi 20 anni e non si è concluso ancora con un accordo). Tuttavia si cerca di portare avanti degli accordi bilaterali geograficamente più limitati (CETA, UE-Canada, TAFTA, UE-USA), seppure essi trovino molte opposizioni, solo che non sono una opposizione tra tutta una nazione rispetto a tutta un’altra nazione. Si può essere stati indotti in errore dal fatto che vi sono casi di ricerca di accordi tra paesi eminentemente esportatori di derrate agricole non sovvenzionate (gruppo di Cairns) e paesi che hanno agricolture sovvenzionate (UE,USA,Giappone) o da esportatori di servizi verso paesi che invece vogliono difendere la loro organizzazione di servizi ancora in divenire. Tuttavia sono in realtà dei gruppi sociali all’interno di ogni nazione e con interessi divergenti che si fronteggiano, per cui siamo in presenza di fratture o contrapposizioni che sono sia intersettoriali che intrasettoriali.
Una linea di frattura intersettoriale e quella ad esempio che oppone l’agricoltura all’industria. Ad esempio l’Inghilterra ha vissuto questo quando l’industria britannica ha preteso il libero scambio con i paesi del Commonwealth e la concorrenza determinata nei confronti della produzione agricola nazionale ha permesso di diminuire la spesa per il mangiare e di conseguenza all’industria di abbassare i salari; questa frattura si è sanata a seguito dell’ingresso dell’Inghilterra nella UE perché da allora l’agricoltura ha goduto della protezione comunitaria ma si riaprirà di certo con la Brexit. Questa frattura agisce potentemente sui negoziati multilaterali all’OMC, tanto che ne blocca l’evoluzione così come pure frena i negoziati bilaterali scelti in conseguenza del blocco della multilateralità precedentemente detto. Inoltre a rendere più difficili i negoziati contribuiscono le fratture intrasettoriali, come nel caso dove degli interessi divergenti tra industrie a grande impiego di manodopera e industrie ad alto impiego di tecnologia. Peraltro la frammentazione a scala internazionale dei processi di produzione aumenta ancora di più queste fratture. E’ vero che l’agricoltura non può delocalizzare, ma l’omogeneità di interessi non esiste neppure qui: pensiamo alle produzioni saccarifere e cerealicole orientate al mercato interno che si oppongono alle filiere della frutta e verdura che pretendono di allargare i mercati di sbocco (si pensi a Marocco, Perù e Cile rispetto a EU e/o USA). Il contrasto non sorge solo tra paesi sviluppati e paesi non sviluppati, bensì anche tra paesi sviluppati: si pensi all’accordo bilaterale UE- Canada (CETA) che se ha favorito e protetto le filiere che producono IGP, che il Canada ha accettato di riconoscere, non ha protetto invece i produttori di carne, tant’è vero che per far passare l’accordo si sono fissate delle quote esportabili in franchigia che comunque qualche perdente lo creeranno.
Comunque sia, se guardiamo cosa è già successo dalla fine dell’ultima guerra mondiale in poi ci accorgiamo che da un punto di vista doganale vi sono stati cambiamenti radicali: i diritti di dogana, da un 40% si sono ridotti a non più del 4%, pur in presenza di picchi di elevatissima protezione e viceversa picchi di elevatissima liberalizzazione. E qui occorre dire che, non avendo più nulla da grattare sui diritti doganali, per proteggersi si è optato per la diversificazione delle normative e ciò ha obbligato a iniziare negoziati sulle norme non tariffarie al fine di uniformarle (ormoni nelle carni, ingredienti nei cibi, tassi di residui di fitofarmaci ecc. ecc.) in modo da consentire economie di scala con produzioni bilateralmente standardizzate.
A questo punto vi è da chiedersi se è ancora possibile che i settori penalizzati dalla globalizzazione di tutte le nazioni si coalizzino per dar luogo a un arretramento nella liberalizzazione degli scambi. In altri termini: una deglobalizzazione è concepibile o è solo uno strumento promesso al loro elettorato da uomini politici in crisi di nervi?
 
La domanda chiave
E qui giungiamo alla domanda chiave: la globalizzazione è reversibile o in altri termini il pianeta è de-mondializzabile? Se riflettiamo bene sul punto a cui è giunta la globalizzazione, la risposta è sicuramente negativa perché ciò condurrebbe alla disorganizzazione totale delle filiere produttive di vaste aree del pianeta, allo stabilirsi di penurie durature e alla crescita dei livelli di disoccupazione. Andremmo cioè incontro ad un abbassamento del livello di vita tale che le società si destabilizzerebbero. Infatti, nella terza fase della globalizzazione abbiamo messo in atto dei processi che si autoalimentano e che rendono il ritorno indietro non auspicabile. A tale riguardo si pensa che l’eventuale scatenarsi di una terza guerra mondiale, a differenza della prima che ha bloccato e annullato la globalizzazione precedente, non potrebbe riuscire a farlo. Infatti, la globalizzazione di fine’800 e inizio ‘900 fu in sostanza solo scambio di merci (manufatti e investimenti da Nord verso Sud e materie prime da Sud verso Nord) mentre i luoghi di produzione dei manufatti non furono espatriati e il valore aggiunto del manufatto rimase nel luogo di produzione. Da ciò il fatto che per de-mondializzare è stato sufficiente, tra le due guerre, ripristinare elevati diritti doganali ed imporre quote importabili, con un processo che tuttavia ha innegabilmente creato recessione (la grande crisi del 1929).
Oggi il paesaggio produttivo è totalmente cambiato e già a partire dagli anni ‘60 si sono imposte nuove realtà nel commercio internazionale con il passaggio da scambi “interbranca” (tessile contro vino, mezzi di trasporto per del legname) a scambi “intrabranca” (automobili di una certa gamma contro automobili di altra gamma). Altro aspetto è che non si scambiano più dei prodotti finali (e cioè direttamente consumabili), contro prodotti finali, bensì si è instaurato un commercio di beni intermedi (componenti) che cioè servono ad un paese per fabbricare i prodotti finali.
Il diagramma in figura 1 mostra come quattro paesi europei siano dipendenti da beni intermedi prodotti altrove, con livelli di dipendenza pari al 45/50% e oltre in tutti e quattro i paesi. 


Figura 1 – Evoluzione della percentuale di beni intermedi nei prodotti manifatturieri importati (fonte Eurostat)

Tra l’altro gli scambi di questi beni intermedi avviene per una quota rilevante (almeno un terzo del commercio mondiale secondo stime non recenti) all’interno di gruppi sovranazionali (da filiale a casa madre) e l’entità del fenomeno per Stati Uniti e Giappone è illustrata in tabella 1.
 
Tabella 1 – Importanza degli scambi intra-gruppo per USA e Giappone in % sugli scambi totali di merci (fonte OCSE).


Gli investimenti all’estero non sono più di portafoglio, cioè veri e propri prestiti, ma sono investimenti diretti all’estero volti a fornire capitali ma anche a partecipare al controllo della gestione sia di società esistenti che di società create ex-novo. Ora negli ultimi 40/50 anni su scala mondiale il tasso di crescita dell’IDE (Investimenti Diretti all’Estero) è stato superiore al tasso di crescita del commercio mondiale ed addirittura del PIL (prodotto interno lordo).
Tutto ciò è la conseguenza della frammentazione o scomposizione internazionale dei processi produttivi delle attività economiche manifatturiere. Già nel 1987 una autovettura Ford Escort assemblata in Inghilterra o in Germania usava componenti provenienti da 15 paesi diversi. Oggi il fenomeno è ulteriormente aumentato, ad esempio per i telefonini e i computer. In altri termini il Made in …… ha perso quasi completamente il suo significato e tutti i “Made” si compendiano in “Made in World” e di conseguenza assistiamo alla suddivisione del valore aggiunto totale tra le diverse “manifatture mondiali” che così si sostentano. In altri termini le economie dei vari stati si nutrono a vicenda. I grafici di pagina 15 mostrano ad esempio il contributo straniero alle esportazioni francesi ed evidenziano inoltre che la domanda straniera rappresenta circa il 50% del valore aggiunto nazionale totale prodotto dal settore manifatturiero francese (ndt: l’Italia dai grafici citati non è da meno). Tutto ciò evidenzia che non si può più parlare di economia internazionalizzata ma mondializzata e che cioè si è creata una tale rete di connessioni multiple che si auto sostenta e dov’è ormai impossibile estrapolare una maglia singola. In conclusione coloro che pretendono la deglobalizzazione e lo dicono prima delle elezioni, se lo devono dimenticare subito dopo, oppure diventerebbe un atto suicida se portato avanti. In tal senso altrettanto irrealistica è la fiducia che i cittadini ripongono nelle promesse elettorali protezionistiche; ammesso che diventino maggioranza e facciano comandare i loro leader, rischiano o di essere imbrogliati da promesse elettorali non messe poi in atto, o di divenire le prime vittime di politiche economiche catastrofiche; becchi e bastonati insomma. Protezionismo chiama protezionismo, come ben sappiamo, per cui al punto in cui siamo giunti si disgregherebbero fortemente e durevolmente le attività produttive perché il processo ormai internazionale della produzione si disorganizzerebbe. Altro che un milione di disoccupati in meno, in un paese come la Francia si avrebbero ben presto due milioni di disoccupati in più. Purtroppo, nel contesto creatosi di import-export così intimamente legati, sono ormai spuntate le armi di politica monetaria (ritorno alle monete nazionali e svalutazioni competitive) perché gli eventuali guadagni delle svalutazioni nelle esportazioni sarebbero annullati dalle perdite nelle importazioni obbligate (ndt: l’autore dell’articolo parlando della Francia dice che per le filiere industriali sarebbe un disastro, ma salva l’agroalimentare, essendo la Francia un paese esportatore di prodotti agricoli, noi italiani invece vedremmo un disastro sia nell’industria che nell’agricoltura, essendo ormai dei forti importatori di derrate agricole, pertanto a noi, in fatto di cibo, non resta aperta neppure l’arma dell’autarchia).

Conclusioni generali

Quale morale trarre da quanto fin qui scritto? Dobbiamo rassegnarci dunque a subire solo gli effetti negativi della globalizzazione? Certamente no, anche perché questa è un fenomeno soggetto a continue evoluzioni e tali evoluzioni occorre discuterle a ragion veduta, avendo cioè ben chiaro cosa si va a negoziare.
Orientare la globalizzazione in termini più favorevoli ai popoli tramite una maggiore e più egalitaria ripartizione dei valori aggiunti sarà una nuova “fatica di Ercole” alla quale saranno dedicati articoli futuri.
Figura 2 – Frazione di valore aggiunto straniero nelle esportazioni lorde. Le barre in blu rappresentano il dato 2011 mentre rombi e linee rappresentano rispettivamente il dato 2008 e 2009 (per l’Italia e la Francia siamo a circa il 50% del totale).
Figura 3 – Frazione di valore aggiunto nazionale del settore manifatturiero nella domanda finale straniera. Le barre in blu rappresentano il dato 2011 mentre rombi e linee rappresentano rispettivamente il dato 2008 e 2009 (per l’Italia e la Francia siamo a circa il 50% del totale).




Alberto Guidorzi  
Agronomo. Diplomato all' Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureato in Scienze Agrarie presso UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni presso la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.



Luigi Mariani 
Docente di Storia dell' Agricoltura Università degli Studi di Milano-Disaa, condirettore del Museo Lombardo di Storia dell'Agricoltura di Sant'Angelo Lodigiano. E' stato anche Docente di Agrometeorologia e Agronomia nello stesso Ateneo e Presidente dell’Associazione Italiana di Agrometeorologia.
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