di Sergio Salvi
Jean-Léon
Gérôme: “Bonaparte
devant le Sphinx”
(Wikipedia)
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Sabato 11 novembre 1843 usciva sulle pagine del “The Gardeners’ Chronicle” di Londra un articolo che narrava di un fatto apparentemente prodigioso: il signor Martin Farquhar Tupper, infatti, era riuscito a riportare in vita nientemeno che il “grano della mummia” (Mummy-Wheat).
Tutto aveva avuto origine con il rinvenimento di alcune cariossidi di frumento all’interno di una tomba egizia vecchia di tremila anni ad opera del celebre egittologo Sir John Gardner Wilkinson (1797-1875). Questi aveva passato le cariossidi ad un certo mister Pettigrew il quale, a sua volta, ne aveva consegnate dodici al suddetto mister Tupper. Quest’ultimo, seminatele nel 1840, aveva ottenuto una debole piantina dalla quale, nel corso delle tre generazioni di semina successive, erano discese piante sempre più rigogliose, che Tupper arrivò a considerare quali eredi dirette di quel grano che il leggendario Giuseppe, in previsione dei famosi sette anni di vacche magre di biblica memoria, suggerì al faraone di ammassare nei suoi granai.
Lo stesso “Gardeners’ Chronicle” ricordava come di storie sulla resurrezione del “grano della mummia” ne circolassero molte; ma quella volta, a detta del redattore del pezzo, era quella buona, quella vera. Il motivo? Innanzitutto perché il passamano dei semi sembrava essere ben documentato e coinvolgeva persone ritenute di tutto rispetto, e poi perché quel grano, brutto e scuro e quindi certamente antico, una volta seminato non aveva ripreso vigore subito, ma aveva richiesto ben tre anni per tornare al suo antico splendore. Il tutto grazie ad un procedimento di semina che era stato descritto passo dopo passo dal signor Tupper, un uomo “esatto e coscienzioso” che aveva sicuramente operato con correttezza e buona fede.
Insomma, in poche parole il giornale si bevve la storiella come un bicchier d’acqua e altrettanto bene la diede a bere ai suoi lettori. Al punto che otto anni dopo, in occasione della Grande Esposizione Universale di Londra (1851), un certo Richard Webb, titolare della Calcot Farm di Reading (UK), arrivò ad esibire con orgoglio il suo “Mummy Talavera Wheat”. E qui già qualcosa non quadrava.
Che c’entrava Talavera? E perché la storia dei semi, riassunta succintamente nel catalogo dell’esposizione, era completamente diversa da quella raccontata dal “Gardeners’ Chronicle”?
Nel catalogo si leggeva, infatti, di tre semi ritrovati nella mano di una mummia egizia, spediti ad un certo mister Dobree, presidente della Agricultural Society di Guernsey, che li aveva piantati nel suo giardino e poi aveva inviato parte del raccolto ottenuto ad un certo colonnello Blagrove il quale, a sua volta, dopo aver seminato il redivivo grano, aveva ottenuto nuove cariossidi che, da ultimo, l’espositore mister Webb aveva seminato di nuovo con successo, potendo infine mostrare un campione delle spighe ottenute ai visitatori dell’esposizione universale.
Si trattava ovviamente di una delle “altre” storie sul “grano della mummia” cui già accennava il “Gardeners’ Chronicle” otto anni addietro, così come lo stesso giornale, nell’articolo che aveva dato fama al grano di mister Tupper, aveva riportato una notizia inizialmente rimasta in sordina: il grano ottenuto nel 1843 da mister Tupper somigliava stranamente, in tutto e per tutto, alla varietà “Talavera Bellevue”.
Nota anche come “Talavera de Bellevue”, o “Bellevue de Talavera” o, più semplicemente, “grano di Talavera”, si trattava di una varietà selezionata nel 1815 dal colonnello Le Couteur a partire da grano proveniente dalla Spagna e divenuta molto famosa nell’800 soprattutto per la sua precocità, che all’epoca non aveva uguali tra i grani coltivati. La sua celebrità fu tale che persino Darwin, nella sua famosa opera “The variation of animals and plants under domestication” (1868), le dedicò un cenno.
In realtà, il sospetto che dietro alla storia del “grano della mummia” vi fosse un banale inquinamento di semi, se non una vera e propria truffa, si era fatto largo già a partire dal 1841, quando la British Association for the Advancement of Science aveva dato vita ad un comitato destinato a valutare sperimentalmente la vitalità dei semi “antichi”. Comitato che aveva addirittura emanato specifiche linee guida alle quali attenersi nel verificare la genuinità dei molti casi di resurrezione di “grano d’Egitto” che dilagavano in quegli anni nel Regno Unito.
Il fenomeno del “grano della mummia”, tuttavia, non era confinato alla sola Gran Bretagna, se è vero che, già al rientro dalla campagna napoleonica d’Egitto, un certo monsieur Denon, viaggiatore ed antiquario presente tra gli studiosi aggregati da Bonaparte al seguito delle truppe francesi, aveva ripetutamente seminato, senza alcun esito, le cariossidi ritrovate nella tomba egizia di turno. A detta di monsieur Denon, i semi non erano germinati anche perché apparivano come calcinati, ossia abbrustoliti, il che rimandava allo stesso destino che probabilmente era toccato ai semi, guarda caso di colore scuro, piantati da mister Tupper quarant’anni dopo.
Inquinamento accidentale o doloso, la storia del “grano della mummia” appariva ormai smontata del tutto quando nel 1859, sulle pagine dell’americano “The New Jersey Farmer”, un articolista che ritornava sulla storia pubblicata sedici anni addietro dal “Gardeners’ Chronicle” riportava alcuni casi clamorosi registratisi nel frattempo. Non solo il “grano della mummia” era ormai stato dato per confuso con il “Talavera Bellevue” del colonnello Le Couteur, ma la stessa British Association for the Advancement of Science aveva smascherato più d’un caso d’inquinamento di semi “antichi” con semi “moderni”, rilevando addirittura un caso in cui, seminato l’ennesimo campione di “grano della mummia”, al posto del frumento era nato del mais, pianta del Nuovo Mondo che non poteva certo trovarsi nelle tombe egizie all’epoca dei faraoni.
La vicenda del “grano della mummia”, comunque simpatica da raccontare, non ci meraviglia più di tanto se pensiamo che già da diversi anni, su quello che è stato prontamente ribattezzato “grano del faraone”, circola una favola analoga: negli anni ’30 un pilota americano trovò in una tomba egizia delle cariossidi di frumento vecchie di tremila anni, che poi regalò ad un amico canadese il quale li piantò con successo... L’unica differenza tra le due storielle è che i britannici di epoca vittoriana furono sbugiardati senza pietà dagli scienziati loro contemporanei, mentre oggi il canadese - sicuramente molto più abile dei suoi predecessori - ci ha fatto i milioni sopra.
Bibliografia
The Gardeners’ Chronicle, 1843, n. 45 (Nov. 11), pp. 787-788.
Official descriptive and illustrated catalogue of the Great Exhibition of the Works of Industry of all Nations, Vol. 1, Spicer Brothers, London 1851, p. 205.
The New Jersey Farmer, 1859, Vol. 4, n. 8 (Apr.), pp. 240-242.
Tutto aveva avuto origine con il rinvenimento di alcune cariossidi di frumento all’interno di una tomba egizia vecchia di tremila anni ad opera del celebre egittologo Sir John Gardner Wilkinson (1797-1875). Questi aveva passato le cariossidi ad un certo mister Pettigrew il quale, a sua volta, ne aveva consegnate dodici al suddetto mister Tupper. Quest’ultimo, seminatele nel 1840, aveva ottenuto una debole piantina dalla quale, nel corso delle tre generazioni di semina successive, erano discese piante sempre più rigogliose, che Tupper arrivò a considerare quali eredi dirette di quel grano che il leggendario Giuseppe, in previsione dei famosi sette anni di vacche magre di biblica memoria, suggerì al faraone di ammassare nei suoi granai.
Lo stesso “Gardeners’ Chronicle” ricordava come di storie sulla resurrezione del “grano della mummia” ne circolassero molte; ma quella volta, a detta del redattore del pezzo, era quella buona, quella vera. Il motivo? Innanzitutto perché il passamano dei semi sembrava essere ben documentato e coinvolgeva persone ritenute di tutto rispetto, e poi perché quel grano, brutto e scuro e quindi certamente antico, una volta seminato non aveva ripreso vigore subito, ma aveva richiesto ben tre anni per tornare al suo antico splendore. Il tutto grazie ad un procedimento di semina che era stato descritto passo dopo passo dal signor Tupper, un uomo “esatto e coscienzioso” che aveva sicuramente operato con correttezza e buona fede.
Insomma, in poche parole il giornale si bevve la storiella come un bicchier d’acqua e altrettanto bene la diede a bere ai suoi lettori. Al punto che otto anni dopo, in occasione della Grande Esposizione Universale di Londra (1851), un certo Richard Webb, titolare della Calcot Farm di Reading (UK), arrivò ad esibire con orgoglio il suo “Mummy Talavera Wheat”. E qui già qualcosa non quadrava.
Che c’entrava Talavera? E perché la storia dei semi, riassunta succintamente nel catalogo dell’esposizione, era completamente diversa da quella raccontata dal “Gardeners’ Chronicle”?
Nel catalogo si leggeva, infatti, di tre semi ritrovati nella mano di una mummia egizia, spediti ad un certo mister Dobree, presidente della Agricultural Society di Guernsey, che li aveva piantati nel suo giardino e poi aveva inviato parte del raccolto ottenuto ad un certo colonnello Blagrove il quale, a sua volta, dopo aver seminato il redivivo grano, aveva ottenuto nuove cariossidi che, da ultimo, l’espositore mister Webb aveva seminato di nuovo con successo, potendo infine mostrare un campione delle spighe ottenute ai visitatori dell’esposizione universale.
Si trattava ovviamente di una delle “altre” storie sul “grano della mummia” cui già accennava il “Gardeners’ Chronicle” otto anni addietro, così come lo stesso giornale, nell’articolo che aveva dato fama al grano di mister Tupper, aveva riportato una notizia inizialmente rimasta in sordina: il grano ottenuto nel 1843 da mister Tupper somigliava stranamente, in tutto e per tutto, alla varietà “Talavera Bellevue”.
Nota anche come “Talavera de Bellevue”, o “Bellevue de Talavera” o, più semplicemente, “grano di Talavera”, si trattava di una varietà selezionata nel 1815 dal colonnello Le Couteur a partire da grano proveniente dalla Spagna e divenuta molto famosa nell’800 soprattutto per la sua precocità, che all’epoca non aveva uguali tra i grani coltivati. La sua celebrità fu tale che persino Darwin, nella sua famosa opera “The variation of animals and plants under domestication” (1868), le dedicò un cenno.
In realtà, il sospetto che dietro alla storia del “grano della mummia” vi fosse un banale inquinamento di semi, se non una vera e propria truffa, si era fatto largo già a partire dal 1841, quando la British Association for the Advancement of Science aveva dato vita ad un comitato destinato a valutare sperimentalmente la vitalità dei semi “antichi”. Comitato che aveva addirittura emanato specifiche linee guida alle quali attenersi nel verificare la genuinità dei molti casi di resurrezione di “grano d’Egitto” che dilagavano in quegli anni nel Regno Unito.
Il fenomeno del “grano della mummia”, tuttavia, non era confinato alla sola Gran Bretagna, se è vero che, già al rientro dalla campagna napoleonica d’Egitto, un certo monsieur Denon, viaggiatore ed antiquario presente tra gli studiosi aggregati da Bonaparte al seguito delle truppe francesi, aveva ripetutamente seminato, senza alcun esito, le cariossidi ritrovate nella tomba egizia di turno. A detta di monsieur Denon, i semi non erano germinati anche perché apparivano come calcinati, ossia abbrustoliti, il che rimandava allo stesso destino che probabilmente era toccato ai semi, guarda caso di colore scuro, piantati da mister Tupper quarant’anni dopo.
Inquinamento accidentale o doloso, la storia del “grano della mummia” appariva ormai smontata del tutto quando nel 1859, sulle pagine dell’americano “The New Jersey Farmer”, un articolista che ritornava sulla storia pubblicata sedici anni addietro dal “Gardeners’ Chronicle” riportava alcuni casi clamorosi registratisi nel frattempo. Non solo il “grano della mummia” era ormai stato dato per confuso con il “Talavera Bellevue” del colonnello Le Couteur, ma la stessa British Association for the Advancement of Science aveva smascherato più d’un caso d’inquinamento di semi “antichi” con semi “moderni”, rilevando addirittura un caso in cui, seminato l’ennesimo campione di “grano della mummia”, al posto del frumento era nato del mais, pianta del Nuovo Mondo che non poteva certo trovarsi nelle tombe egizie all’epoca dei faraoni.
La vicenda del “grano della mummia”, comunque simpatica da raccontare, non ci meraviglia più di tanto se pensiamo che già da diversi anni, su quello che è stato prontamente ribattezzato “grano del faraone”, circola una favola analoga: negli anni ’30 un pilota americano trovò in una tomba egizia delle cariossidi di frumento vecchie di tremila anni, che poi regalò ad un amico canadese il quale li piantò con successo... L’unica differenza tra le due storielle è che i britannici di epoca vittoriana furono sbugiardati senza pietà dagli scienziati loro contemporanei, mentre oggi il canadese - sicuramente molto più abile dei suoi predecessori - ci ha fatto i milioni sopra.
Bibliografia
The Gardeners’ Chronicle, 1843, n. 45 (Nov. 11), pp. 787-788.
Official descriptive and illustrated catalogue of the Great Exhibition of the Works of Industry of all Nations, Vol. 1, Spicer Brothers, London 1851, p. 205.
The New Jersey Farmer, 1859, Vol. 4, n. 8 (Apr.), pp. 240-242.
Sergio Salvi
Laureato in Scienze Biologiche presso l’Università degli Studi di Camerino, nel corso della sua attività di ricercatore si è occupato di genetica batterica, genetica medica, OGM, genetica agraria e vegetale, lavorando presso Enti di ricerca pubblici e privati. Attualmente si dedica alla ricerca e alla divulgazione storico-scientifica su tematiche riguardanti il settore agroalimentare. È Socio corrispondente della Deputazione di Storia Patria per le Marche.
Laureato in Scienze Biologiche presso l’Università degli Studi di Camerino, nel corso della sua attività di ricercatore si è occupato di genetica batterica, genetica medica, OGM, genetica agraria e vegetale, lavorando presso Enti di ricerca pubblici e privati. Attualmente si dedica alla ricerca e alla divulgazione storico-scientifica su tematiche riguardanti il settore agroalimentare. È Socio corrispondente della Deputazione di Storia Patria per le Marche.
Un mio collega insegnante di scuola media mi domandò un giorno come mai avendo seminato nell'orto scolastico per tre volte dei semi di zucca questi non erano mai nati. Rispondere fu difficile, finchè però mi mostro i semi che seminava ed allora io provai ad aprirli per vedere se i cotiledoni erano ancora verdi. Per farlo usai il metodo tradizionale cioè quello di schiacciarli tra i denti, solo che al primo contatto con la lingua sentii il gusto di salato, allora capii l'arcano e chiesi al ragazzo che aveva portato i semi dove li aveva presi e lui rispose che li aveva presi dalla nonna che aveva fatto i "brutolini" (i tipici semi di zucca salati e torrefatti). Evidentemente la torrefazione fa perdere la germinabilità ai semi perchè se ne devitalizzava l'embrione. Ho raccontato questo esempio in quanto in antico i semi di grano erano vestiti e venivano torrefatti. Ora i grani vestiti di un tempo ed io credo che al tempo dell'antico Egitto i frumenti fossero ancora in gran parte vestiti subivano la tostatura e quindi perdevano sicuramente la germinabilità di ciò ne abbiamo notizia anche al tempo di Roma con la festa di "Fornacalia" dove si eseguiva appunto la tostatura del farro. Nelle tombe normlmanet si metteva frumento torrefatto e quindi ci vuole una grande fortuna a trovare semi germinabili, indipendentemente dal fatto che se erano nelle mani di un cadavere questo putrefacendosi trasmetteva la marcescenza anche ai semi. Per inciso non dobbiamo ridere degli uomini del XIX sec. perchè i nostri contemporanei si mangiano gli sfarinati di Kamut ed in Toscana si vende la fandonia che la varietà Etrusco discende dai semi degli antichi etruschi.
RispondiEliminaC'è sempre il sottinteso che semi vecchi di tremila anni non sarebbero comunque germinati.
RispondiEliminaEgregio Professore, Le chiedo gentilmente se si possa risalire piuttosto che al tipo di grano del periodo di Giuseppe, o alla sua possibile germinazione al numero (medio) di chicchi che vi erano per ciascuna spiga. Grazie.
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