di Antonio Saltini
9ª parte
9ª parte
Tutta la vicenda che si è venuta svolgendo tra Bologna e Roma apre un
interrogativo ineludibile: tra gli impegni che i responsabili comunisti erano
disposti ad assumere per un accordo con l’organizzazione consortile c’era o non
c’era la promessa di un atteggiamento acquiescente in occasione del futuro dibattito
parlamentare sulla legge di riforma dell’Aima? Gli elementi disponibili non
consentono né di confermare né di smentire con certezza assoluta: tutte le
articolazioni della vicenda vietano, tuttavia, di trascurarlo. Il complicato
gioco di confronto-scontro diviene infatti incomprensibile se
quell’interrogativo non viene assunto come nodo essenziale per spiegare la
strategia seguita dalle due parti che alla vicenda hanno dato vita.
Abbiamo preso in esame, alla ricerca del significato dell’intesa che stava
maturano tra Regione Emilia e Federconsorzi, gli elementi direttamente
leggibili nella “bozza Ceredi” e quelli desumibili dal testo misurandone le
enunciazioni alla luce delle peculiarità istituzionali ed operative della
Federconsorzi. Al termine della disamina abbiamo riconosciuto la necessità ,
per la comprensione complessiva della vicenda, di ampliare il campo
dell’indagine ad alcuni problemi di cui non sussiste nel testo alcuna menzione,
ma che, sulla scorta degli eventi recenti, o di considerazioni di politica
agraria nazionale, non possono non connettersi alla tematica del “compromesso
emiliano”.
Il “credito di esercizio” privilegio dei Consorzi. Quei problemi risultano
essere fondamentalmente due. Il primo è rappresentato dal tema del credito di
esercizio. E’ dal 1974 che l’erogazione del credito di esercizio nella Regione
è al centro di tensioni e di trattative tra il Governo regionale e le forze
agricole. Il lungo dibattito ha conosciuto una fase iniziale in cui la Regione si propose di
ricercare le strade per consentire alle organizzazioni cooperative di
esercitare il credito dietro somministrazione di merci nelle forme in cui lo
esercitano i Consorzi agrari, ai quali l’erogazione è consentita
dall’autorizzazione di legge che abilita la Fedrconsorzi
all’esercizio dell’attività creditizia alla pari di un istituto bancario. Non
sussistendo, per le organizzazioni cooperative, la medesima autorizzazione,
nessun espediente appariva in grado di infrangere il monopolio della
Federconsorzi sul credito cambiario in natura.
Risultando sbarrata la prima strada, un approfondimento della tematica
metteva in luce quanto l’erogazione del credito di conduzione a copertura
dell’acquisto di mezzi tecnici si rivelasse , nella nuova realtà economica
delle campagne, strumento obsoleto, e come se ne potesse ipotizzare
l’abolizione puntando alla creazione di forme di erogazione tali da assicurare
ai beneficiari una maggiore libertà nell’uso dei mezzi finanziari messi a loro
disposizione. L’ipotesi non poteva non suscitare, palesemente, la reazione
della Federconsorzi, che si sarebbe veduta sottrarre quella quota del credito
agrario che oggi passa unicamente attraverso gli sportelli dei Consorzi agrari:
10 miliardi sul monte di 100 di cui consiste l’insieme dei mezzi finanziari
erogati nella Regione nelle forme del credito agevolato.
Lo stesso Assessorato all’agricoltura, tuttavia, sulla linea, da tempo
perseguita, di restringere il più possibile i margini del credito a
disposizione degli imprenditori singoli a favore del credito alle cooperative,
non nascondeva il timore che la concessione di credito in denaro agli
imprenditori individuali potesse essere utilizzato dai medesimi depositando il
denaro in banca a tassi maggiori di quelli del credito agevolato, lucrando la
differenza tra i tassi.
Volendo precludere l’eventualità il credito in natura costituisce,
palesemente, lo strumento più semplice per il controllo dell’impiego del denaro
concesso a credito. La trattativa in corso con la Federconsorzi
consentiva, presumibilmente, di valutare in termini meno ostili anche il potere
esclusivo dell’ente sull’erogazione del credito tramite merci: oltre al
controllo dell’uso del denaro da parte delle imprese agricole, il mantenimento
del sistema del credito cambiario in natura consentiva, infatti, di offrire
alla Federconsorzi una concessione tale da poter pretendere, come
contropartita, l’apertura dei libri sociali a tutti coloro che presso i
Consorzi accendessero cambiali agrarie per l’acquisto di mezzi produttivi.
Sulla scorta di questi elementi è possibile comprendere l’articolazione
della trattativa che si svolgeva in occasione dell’”udienza conoscitiva” del 12
dicembre, quando sulla tematica del credito di esercizio si profilava una
soluzione fondata su tre punti: -il mantenimento in vigore del sistema del
credito in natura esercitato dalla Federconsorzi e dai Consorzi agrari; -la
fissazione di una riserva di disponibilità a favore degli imprenditori
individuali, in particolare, quindi, dei coltivatori diretti, che veniva
fissata nel 30 per cento dei fondi disponibili; - la creazione di una
commissione regionale per il controllo dell’erogazione dei mezzi creditizi a
tasso agevolato. Nel corso di una conferenza stampa tenuta lo stesso giorno
dell’”udienza conoscitiva”, affrontando, dopo avere toccato i temi più caldi
della polemica con la
Confcooperative, il tema del credito, l’assessore Ceredi
collegava esplicitamente il mantenimento del sistema dell’erogazione in natura
all’apertura dei libri sociali dei Consorzi agrari.
L’Aima, gladio appeso a un crine
Il secondo degli elementi dell’intesa Regione Federconsorzi non direttamente
riferibili al testo di Ceredi, la cui considerazione si impone come necessaria
a chiunque voglia penetrare il contesto complessivo entro il quale il
“compromesso emiliano” era venuto maturando, deve identificarsi
nell’atteggiamento delle parti di fronte al progetto di legge sulla riforma
dell’Aima.
E’ noto che il progetto è fermo in Parlamento da oltre un anno per
l’opposizione della Federconsorzi, il cui controllo sui Consorzi agrari
verrebbe definitivamente reciso da alcuni degli articoli del testo depositato.
Seppure non sussistano, data la natura della materia, elementi sicuri, più
di un indizio induce a ritenere che il progetto di legge sia entrato tra i temi
del negoziato tra gli esponenti della Regione e i responsabili della
Federconsorzi. Non si comprenderebbe, altrimenti, come Leonida Mizzi, nel
lucido realismo che ne ha sempre guidato l’azione, avesse potuto giungere alla
soglia di un accordo di tanta ampiezza con i nemici storici dell’organismo di
cui era autocrate onnipotente, lasciando scoperto il fianco a un attacco che
avrebbe vanificato tutte le sicurezze ottenute a Bologna, un attacco per
sferrare il quale gli avversari non avrebbero dovuto esperire che una maggiore
insistenza nel pretendere la discussione di un disegno di legge da troppo tempo
“inspiegabilmente” insabbiato.
La durezza della reazione dei socialisti, da sempre sostenitori dell’Aima
come contrappeso alla Federconsorzi, non pare del resto che confermare, a
contario, l’ipotesi che della legge di riforma dell’Aima tra le parti si fosse
positivamente discusso.
Esponenti autorevoli della Confederazione dei Coltivatori, la nuova
organizzazione contadina della Sinistra, che ho potuto interpellare, escludono
categoricamente che il Partito comunista abbia potuto accedere ad un patto che
costituirebbe la rinuncia esplicita ad un obiettivo per trent’anni additato
come irrinunciabile. Ma come gli indizi non risultano sufficienti a dare
certezza all’ipotesi, che pure rivelano più che attendibile, le smentite non
valgono a dissolvere la consistenza dei medesimi.
L’essenza del “compromesso” Considerando nella sua complessità, dopo
l’analisi che abbiamo svolto, il contesto degli elementi coinvolti nella trattativa,
quella trattativa che pare non essersi conclusa in un’intesa dopo che la
materia sfuggiva al controllo delle parti per la diffusione della bozza di
accordo, emergono i termini di un accordo maturato nello spirito di un
innegabile realismo, all’insegna di quella “ragione di stato” che, se il
termine può essere impiegato nella valutazione della condotta di
un’amministrazione regionale e di un organismo agrocommerciale, deve senza
dubbio essere identificata come criterio ispiratore tanto degli amministratori
del Partito comunista quanto di quel freddo giocoliere economico che tutti gli
osservatori riconoscevano nel ragionier Mizzi.
Nella sostanza il “compromesso” consisteva nel riconoscimento, da parte
della Federconsorzi, ad un’autorità politica, seppure espressa da un partito
tradizionalmente nemico, della potestà di determinare il quadro di
programmazione entro il quale l’attività economica del proprio apparato avrebbe
dovuto esprimersi, e nel consenso all’ingresso di operatori agricoli legati al medesimo
partito nel tessuto dell’organizzazione, a parità di dignità con i titolari di
tessere di colore diverso.
Da parte dei responsabili regionali si riconosceva, invece, la legittimità
della presenza, nel mondo agricolo, di un organismo da sempre combattuto,
rinunciando ad impiegare la maggiore forza conquistata negli anni più recenti
per ottenere la rivincita delle sconfitte degli anni Quaranta e Sessanta.
Così configurata, all’ipotesi del “compromesso emiliano” non può non
riconoscersi un indiscutibile carattere di realismo, e a quel realismo deve
attribuirsi una valenza positiva: una nuova battaglia combattuta attorno alla
Federconsorzi, dalla quale la
Federconsorzi uscisse mutilata e sottoposta a spartizioni,
non assicurerebbe all’agricoltura e all’economia italiana che danni
irreparabili.
Nella conferenza stampa che abbiamo citato Giorgio Ceredi definiva la
ricerca di un’intesa con la
Federconsorzi un tentativo per ovviare al mancato
raggiungimento, durante le trattative per il programma del Governo,della “non
sfiducia”, di un accordo sul difficile tema. Non è confutabile che il
“compromesso emiliano”avrebbe potuto aprire la strada per evitare la mischia e
la possibile distruzione del patrimonio di mezzi economici e di efficienza
operativa dell’organizzazione federconsortile. E non si può in ciò non
riconoscere la fondatezza delle affermazioni di Giorgio Ceredi.
Le stesse considerazioni che consentono di penetrare la logica che ha
guidato le parti nella trattativa rendono, tuttavia, assolutamente inspiegabile
l’atteggiamento dell’organizzazione che da sempre dispone del controllo
esclusivo dell’organismo federconsortile, quella Confederazione bonomiana che
da trent’anni proclama nella funzione di “diga contro il comunismo” la propria
stessa ragione di essere. E’ la tradizione anticomunista della Coldiretti la
ragione di quel grido di allarme che la stampa moderata non ha potuto non
levare quando ha verificato che gli esponenti bonomiani dell’Emilia Romagna si
erano rinchiusi, di fronte all’ipotesi del “compromesso”, nel più impenetrabile
riserbo. Obiettivamente non è facile comprendere come un’organizzazione che si
proclama, dalle origini, “diga contro il comunismo” possa non intervenire a
difesa di un ente di cui da sempre detiene tutte le leve contro l’eventualità
della penetrazione comunista.
Dietro la denuncia della Confcooperative
Tanto più trasparenti appaiono, alla luce dell’analisi che abbiamo svolto,
le ragioni della reazione della Confcooperative: la sua durezza trova la più
spiegazione più convincente nella percezione, nel “compromesso” che stava
maturando, di un accordo di portata tanto ampia da comprimere drasticamente, in
una prospettiva di lungo periodo, lo spazio che la cooperazione di matrice
cattolica stava conquistando a spese della Federconsorzi indebolita dallo
scollamento della base sociale sempre più disaffezionata, uno scollamento cui
l’accordo con il Partito comunista avrebbe in certa misura consentito di
ovviare.
La reazione all’accordo, che Giuliano Vecchi ha manifestato anche dalle
pagine di questo giornale, risulta, in questa luce, pienamente comprensibile,
in quanto difesa di un’organizzazione in vigorosa crescita, che l’ipotesi di
accordo maturata in Emilia Romagna minacciava di stritolare tra la già
combattiva cooperazione di matrice marxista e una Federconsorzi in cui le
stesse forze marxiste fossero venute ad assumere un ruolo di controllo e
corresponsabilità.
Ma oltre alle ragioni di carattere generale e politico, v’erano anche
ragioni specifiche, attinenti all’utilizzazione di impianti e attrezzature
dislocate in Emilia Romagna, a determinare la reazione della Confcooperative
all’ipotesi di intesa tra Regione e Federconsorzi: quelle ragioni costituiscono
un capitolo collaterale della vicenda emiliana, un capitolo il cui rilievo ci
impone di dedicare ad esse un esame autonomo nella ricostruzione del
“compromesso”, quanto “storico” non può giudicare il cronista, fino ad ora
condotta.
Già pubblicati:
1ª parte
2ª parte
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5ª parte
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7ª parte
8ª parte
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Antonio Saltini
Già Docente di
Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico
delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura
Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di
argomento agricolo, Terra e Vita. E' autore della Storia delle Scienze
Agrarie opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com (qui)
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