L'agricoltura più arretrata, patrizi e borghesi avversi a ogni progresso. Prima parte
Per una storia dell’economia agraria (e non solo) nazionale. Seconda parte
Abbiamo rilevato, dalle origini del Risorgimento al sorgere di quella che enfaticamente è stata definita “seconda” Repubblica, l’infausta sorte del proposito di “fare gli Italiani”, un disegno irriso, per primi, dai padri della Patria che l’Italia avevano unito sotto le insegne sabaude, ma che l’Italia erano decisi a conservare divisa in due classi tra le quali non sussistesse possibilità di transito: sicome l’Italia era paese agricolo, padroni della terra e lavoratori della terra.
All’impegno della classe politica a conservare la ferrea divisione si può associare, per la completezza del quadro, l’impegno, altrettanto determinato, della Chiesa: un papa obbediente al proprio Signore quanto pochissimi tra i predecessori, Leone XIII, suggella, il 15 maggio 1891, un’enciclica, la Rerum novarum, che erge la Chiesa a tutrice della plebe miserabile delle campagne, alla sua morte il concistoro cardinalizio, un cenacolo di alfieri intemerati della grande aristocrazia terriera, si impegna a sostituirlo con un successore che ristabilisca la dottrina che proclama le disguaglianze sociali espressione della volontà divina. Per assolvere al mandato, Pio X, teologo supremo, inventa un’eresia inesistente, il “Moderismo” e col pretesto di annientarla scaglia il proprio anatema contro ogni forma di unione creata, nello spirito dell’enciclica di Leone, dai miserabili per proclamare i propri diritti di uomini. Con devota riconoscenza il concistoro cardinalizio eleverà alla gloria degli altari l’inventore del “Modernismo”per avere riaffermato la legge divina della disuguaglianza scandalosamente infirmata da un solerte Vicario di Cristo.
Dopo l’ottusa, feroce lotta dei parlmenti del Regno per impedire che i ceti rurali potessero mai affacciarsi alle soglie della vita civile abbiamo registrato, conclusa tragicamente la titanica difesa dei diritti di classe del Duce, la cieca opposizione all’idea che gli Italiani fossero, prima di ogni cosa, uomini di pari dignità, cittadini chiamati a cooperare per il benessere collettivo, che accomuna tutte le forze che hanno firmato la Costituzione, il sublime testo teorico che non è mai divenuto l’autentica “magna charta” della vita nazionale.
Grandi alfieri di un’autentica democrazia, di un regime cioè, fondato sull’uguaglianza di diritti e doveri di tutti i cittadini, hanno militato nella Democrazia cristiana, possiamo ricordare Alcide de Gasperi, Ezio Vanoni, Guido Gonella, tra repubblicani e socialisti: menziono Ugo La Malfa e Pietro Nenni, impossibile trovarne uno solo nella falange del Partito Comunista, composta da intemerati militanti della lotta di classe e della dittatura del proletariato, una filosofia politica intrinsecamente incompatibile con ogni idea di democrazia parlamentare.
Per misurare quanto l’Italia sia sempre stata psicologicamente lontana dal riconoscimento in ogni italiano di un concittadino degno, in quanto tale, dei medesimi diritti, e soggetto ai medesimi doveri di ogni altro, è sufficiante appaiare le immaginette di Palmiro Togliatti e di Giulio Andreotti, il primo pronto a convertirsi, gli equilibri internazionali lo avessero consentito, nel Ceaucescu, nel Kadar o Gomulka che governasse l’italica nazione secondo le disposizioni del Kremlino, il secondo autentico plenipotenziario della Cia in Italia, nel convincimento, caratteristico di un allievo di Machiavelli, che il mandato della Cia, universalmente noto, gli assicurasse il controllo di tutti i poteri occulti, in forma diversa delinquenziali, la cui sottomissione garantiva all’erede del Valentino il sicuro, inviolabile controllo della vita nazionale.
Siccome, ho già annotato, non può esistere società democratica se le sue regole non siano quelle dello “stato di diritto”, nel catalogo di classi e categorie che lo stato di diritto delineato dalla Costituzione hanno enfaticamente esaltato a parole, opponendosi alla sua affermazione nel solerte operare quotidiano, si impone l’inclusione della Magistratura, che anzichè il superiore, imparziale organismo impegnato a “unicuique tribuere suum” è stata, ed è, conglomerato di fazioni ciascuna alla altre avversa per la diversa militanza politica degli associati, liberi, palesemente, come qualunque cittadino, di coltivare convincimenti politici, non, come ogni diverso cittadino, di farsene alfieri convertendo ogni processo che coinvolgesse responsabili politici in tutela del proprio schieramento (e degli interessi, quanto si voglia illegali, dei suoi accoliti).
A rendere il ruolo politico dei magistrati ruolo istituzionale, quantunque illegale, assolve ad una funzione capitale la diffusa militanza massonica, un legame che li unisce al ceto politico con obblighi che gli adepti onorano con devozione assai maggiore di quella che prestano alla Costituzione cui pure hanno giurato fedeltà.
La Massoneria italica si rivela, in questi termini, un cancro invincibile dell società nazionale, le cui leggi sono applicate da chi non reputa dovere tanto la loro osservanza quanto, ove occorra il caso, la loro distorsione a vantaggio dei confratelli, non di rado uomini politici rei delle più inimmaginabili malversazioni del denaro pubblico.
Chi scive reputa di essere abilitato all’annotazione essendo stato l’unico “grillo parlante” del giornalismo italico a narrare, dalle origini remote alla conclusione, la vicenda giudiziaria “nota” (più corretto sarebbe definirla ignota) col titolo di “Scandalo Federconsorzi”, il più clamoroso caso di distorsione della normativa fallimentare per favorire l’appropriazione di un patrimonio frutto di secolari investimenti pubblici per il progresso dell’agricoltura, da parte degli “amici degli amici”.
Raccogliere gli elementi essenziali della vicenda con precisione tale da frustrare le cento possibili querele non fu, ricordo, impresa scevra da difficoltà. La ricostruzione consisteva, essenzialmente, nella decifrazione della più confusa (certamente non a caso), procedura concorsuale, di due processi per bancarotta fraudolenta, uno celebrato a Roma (di cui nessuna notizia è mai trapelata, suggerendo che le udienze fossero state pazientemente reinviate fino allo scadere dei termini di prescrizione), uno a Perugia, concluso dall’ammirabile recita del Malato immaginario di Molière da parte del procuratore aggiunto, che non citò una prova sola delle cento raccolte in lunghi anni di fruttuoso lavoro, recita tanto magistrale da assicurare al solerte magistrato il titolo di procuratore della Repubblica nel medesimo tribuale in cui avea assicurato l’impunità ad autentici numi della finanza italica, il più insigne amico personale dell’allora presidente della Repubblica. E di un terzo procedimento per una truffa alla Comunità europea di entità astronomica, perpetrata da chi della Federconsorzi si reputava il privato proprietario, per quella truffa ricattato e obbligato al silenzio. Imposto quel silenzio, e costretto il vanitoso architetto di truffe alla collaborazione, il fascicolo istruttorio, di cui a chi scrive fu consentito di leggere titoli e sottotitoli (senza che, in ossequio alla legge, la cartella venisse aperta), disparve, e il procuratore che l’aveva redatta, a quanto è dato supporre, trasferito.
Ricostruire la vicenda fu impegno lungo, paziente, riuscito perfettamente grazie alla disponibilità di collaboratori diretti dei protagonisti. L’esito di tano lavoro procurò all’autore, peraltro, la querela dell’emulo del supremo personaggio di Molière, il quale accettò prontamente, tuttavia, la sconfitta in appello, siccome l’arringa del difensore del presunto reo dimostrava che il suo piagnisteo lo avrebbe esposto al ludibrio dell’intera Cassazione proprio mentre i meriti preclari gli guadagnavano il titolo di procuratore della Repubblica; gli assicurò il feroce rancore di cento colleghi (?), costernati per la violazione della prima norma dell’etica professionale, l’omertà-connivenza con la classe politica; gli procurò, infine, la cessazione di tutte le collaborazioni giornalistiche, impartito dall’Alto dopo l’intimazione all’editore di non pubblicare l’ultimo articolo dell’inchiesta, che dava spiegazione diei misteri della vicenda narrata, certa ma inspiegabile senza postulare il ricatto che rendeva palese la denuncia della truffa contenuta nel fascicolo voltilizzato.
Il veto alla pubblicazione e il simultaneo ordine agli editori con cui il reprobo collaborasse di rifiutare qualunque articolo ne portasse la firma sarebbe stato impartito, fu spiegato all’avventuroso cronista, da un funzionario di grado elevato nell’augusto palazzo dell’Avvocatura dello Stato, da Palazzo Chigi. Fosse veritiera l’ipotesi nessuno, ritengo potrebbe farsene meraviglia: l’inquilino dello stabile è, secondo il costume ottomano imperante, già allora, a Roma, l’arbitro degli equilibri tra cosche, partiti e camarille nazionali, tutte d’accordo sull’appropriazione del secolo. Quello che sorprese il “grillo parlante”, e lo sorprende ancora, dopo due deceni, è l’assoluta indifferenza che accolse la sua inchiesta: nessun cittadino italiano osò mai esprimere il proprio apprezzamento per un’impresa ingrata a servizio della trasparenza dell’opera di chi ci governa, ciò che prova che a Palazzo Chigi si sarebbe deciso di arrestare l’opera del cronista importuno in perfetta coerenza alla morale nazionale, e che la medesima morale avrebbero applicato, devotamente, i direttori di quotidiani e settimanali che alla vicenda non dedicarono, scrupolosamente, una sola riga, salvo gli articoli trionfali per l’assoluzione, in un processo di cui non aveano mai dato notizia, dei numi della finanza tutelati da chi aveva raccolto le prove che li dichiaravano artefici della fantasmagorica bancarotta (ancora una prova di sodalità massonica?).
Antonio Saltini
Docente di
Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico
delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura
Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di
argomento agricolo, Terra e Vita. E' autore della Storia delle Scienze
Agrarie opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com (qui)
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