domenica 1 gennaio 2017

Un anno di blog: consuntivo proposto ai lettori

di Antonio Saltini



E’ costume tradizionale, al termine di ogni anno, tentarne il bilancio, un’abitudine che accomuna il professionista che si interroga su successi e insuccessi della propria attività, l’organismo commerciale il cui titolare computa se i profitti siano cresciuti o scemati, l’organo di informazione la cui direzione si propone, quali quesiti essenziali, se i lettori siano aumentati e se il prestigio editoriale si sia dilatato o contratto.
Gli ultimi interrogativi sono, palesemente, quelli che si propone l’esiguo drappello di quanti hanno partecipato alla redazione di queste pagine, che al primo possono proporre una risposta sicuramente positiva, che di fronte alla seconda debbono riconoscere che gli elementi di giudizio risultano contraddittori, tanto da imporre una risposta bifronte.
Alla risposta alla prima domanda non possono sussistere dubbi: un minuscolo cenacolo di amici, che condivide convincimenti e percezioni lontani distanze astrali dal pensiero “collettivo”, il contesto di “certezze” che omogenizza e accomuna la società nazionale (in misura ingente coincidenti a quelle radicate nei paesi ad elevato benessere, dove ad eguale entità di consumi corrisponde identità di convincimenti “etici”, ha conquistato un pubblico che, lo attestano i dati di lettura, possono vantare solo strumenti analoghi sostenuti da organismi dalle capacità economiche sconfinatamente superiori. E il rilievo più significativo che si impone dalla semplice lettura dei numeri è che più intoccabili siano i tabù che abbiamo calpestato, maggiore è stato il numero dei lettori che ha fatto delle nostre pagine lettura abituale.
La constatazione conduce direttamente alla ricerca di una risposta al secondo quesito, l’interrogativo se alla consistenza del numero dei lettori abbia corrisposto un’eguale eco nell’opinione collettiva. La risposta che si impone, inequivocabile, è il riconoscimento che, seppure l’assiduità dei lettori attesti un significativo, costante interesse per rilievi e argomentazioni sistematicamente “emmerdantes” il Leviatano del “pensiero collettivo” le migliaia di chierici del mostro non hanno mai obiettato, ribattuto, difeso asserzioni che le nostre pagine hanno più di una volta commentato con autentico sarcasmo.
E’ indubbio che chi professa lucrose menzogne, che procurano compensi giornalistici, editoriali e ricolmano le sale di uditori paganti, non ha alcuna convenienza a ribattere, contro l’evidenza, a difesa della genuinità delle uova della gallina che se non depone oro, assicura che tale lo considerino il mondo politico, quello finanziario e quello commerciale.
E non occorrono defatiganti indagini di psicologia collettiva per spiegare l’assoluta assenza di repliche ad analisi spudoratamente irridenti tabù universalmente venerati riconoscendo che, seppure ingente, il numero dei nostri lettori non rappresenta che un lembo dell’esigua fascia di cittadini che non si riconoscono nella scoppiettante filosofia politica di giganti del pensiero politico che portano i nomi di Grillo, Bossi, Berlusconi, D’Alema e Prodi.
Non è inverosimile che la dilatazione sistematica del numero di chi ci legge costituisca fenomeno speculare all’inarrestabile contrazione del numero di chi legge ancora un quotidiano. Seppure la stampa nazionale esperisca sforzi titanici per onorare i luoghi comuni più banali del “pensiero collettivo” la collettività, che quel pensiero incarna, trova stucchevole sentire ripetere, quotidianamente, gli assiomi del medesimo credo, immutabili, su tutte le testate e su ogni pagina di ciascuna, le medesime notizie, gli identici commenti.
Divenuto credo inviolabile, che vieta ogni espressione eteronoma, il pensiero collettivo sta lasciando sul terreno, quale prima vittima, quel mondo giornalistico che ne fu, con accorto opportunismo, il primo beneficiario. I tempi in cui le grandi case automobilistiche donavano la berlina, per Natale, ai pennivendoli di maggiore spicco, sono, ormai, tempi lontani.
E non è stato per caso che sia sul numero del blog che segna lo spartiacque tra due annate che abbiamo scelto di pubblicare una storia breve del giornalismo anglosassone, una realtà dalle caratteristiche incomparabili a quelle nostrane, che quantomeno riconosce i propri vizi, a differenza di chi si proclama immune da vizi cooperando alla redazione di un quotidiano la cui lettura potrebbe convertirsi, in pochi anni, in rito coincidente alla periodica visita al barbiere.



THE MEDIA ARE WHORES

“There is no such thing, at this date of the world’s history, in America, as an independent press. You know and I know it.
“There is not one of you who dares to write your honest opinions, and, if you did, you know beforehand that it would never appear in print. I am payed weekly for keeping my honest opinion out of the paper I am connected with.
“Others of you are paid similar salaries for similar things, and any of you who would be so foolish as to write honest opinions would be out on the street looking for another job.

“If I allowed my honest opinions to appear in one issue of my paper, before twenty-four hours my occupation would be gone.

“The business of the jornalist is to destroy the truth, to lie outright, to pervert, to vilify, to fawn at the feet of mammon, and to sell his country and his race for his daily bread.

“You know it and I know it, and what folly is this toasting an independent press? We are the tools and vassals of rich men behind the scenes.

“We are the jumping jacks. They pull the strings and we dance. Our talents, our possibilities, and our lives are all the property of other men.


“We are intellectual prostitutes.”


John Swinton (considered The Dean of His Profession” by his peers), Chief of Staff, New York Times when asked to give a toast at the New York Press Club in 1953.

A prova del realismo del toast di Swinton si possono citare tre eventi che riassumono l’intera storia della sacra libertà di pensiero che del giornalismo anglosassone costituirebbe l’anima.
Nel 1839 l’oppio inglese aveva invaso la Cina convertendo l’intero ceto dei funzionari pubblici in gregge di debosciati e provocando un’inarrestabile emorragia di argento coniato verso le navi britanniche. La corte di Pechino affidava le insicure speranze di opporsi all’arroganza britannica a uno dei pochi uomini di tempra dell’intero apparato di governo, il sovrintendente Lin Tse-hsu, che giungeva a Canton, il porto preferito dai capitani britannici, e imponeva la distruzione e l’affondamento in mare di ventimila casse di estratto di papavero. Dimostrando l’abissale superiorità morale sugli avversari componeva una commovente ode di scusa ai flutti per averli inquinati. Ventimila casse di oppio prodotte in Bengala e trasbordate a Canton, ciascuna adorna delle insegne dell’impero di Vittoria, cui l’immensità della produzione indiana assicura i titoli della maggiore narcotrafficante della storia umana.
L’imponente business del narcotraffico si ribellava e pretendeva che l’Impero punisse la presunzione cinese con un’esemplare azione miliare. La finanza londinese chiedeva “giustizia” a lord Palmerston, tutore, in quanto responsabile del Foreign Office, della preminenza britannica sull’intero Pianeta. Nel dibattito che si accendeva nel Regno la Chiesa anglicana riusciva a diffondere nell’opinione pubblica il convincimento che fosse illecito obbligare con le armi una nazione intera alla prostituzione dell’oppio: un’opzione esemplare per tutte le confessioni cristiane.
Sentendo mancargli la maggioranza parlamentare il visconte di Palmerston suggeriva ai due armatori che dominavano il Mare della Cina, Mr. William Jardine e Mr. James Matheson, di fare visita a tutti i giornali della capitale con una valigetta di banconote (la Banca d’Inghilterra stampava già fogli da 10.000 $, e ciò consentì di rinchiudere 500.000 $ in una borsa priva di ogni appariscenza). Terminato il periplo William Jardine chiedeva udienza a Milord, che si compiaceva calorosamente e proclamava che la guerra dell’oppio era vinta. Convinto che l’udienza gli avrebbe imposto un secondo tour, il grande narcotrafficante avrebbe pronunciato la storica dichiarazione: “Non supponevo, Milord, che l’intera stampa inglese costasse tanto poco!
Per rafforzare sul Mar della Cina la percezione della potenza britannica l’Ammiragliato decise che la flotta comprendesse le prime cannoniere a vapore, che, al comando James Bruce, 8th Earl of Elgin and 12th Earl of Kincardine, risalivano i canali che connettevano alla costa Pechino, dove l’erede dei titoli nobiliari del ladro dei marmi del Partenone ordinava, per piegare l’irragionevole renitenza cinese, un bombardamento dei quartieri popolari tale da imporre la percezione che la Gran Bretagna, faro della civiltà terrestre, era in grado, ove ne fossero offese le prerogative, di stragi degli innocenti comparabili a quelle celeberrime di Attila e Gengiz Khan.
Ma se la strage dell’ammiraglio poté eguagliare, non superare quelle dei tiranni antichi, assai più significativi, per la storia umana, deve riconoscersi la dichiarazione che una borsa di banconote era stata sufficiente a unire la stampa del paese che vantava i traguardi più ambiziosi che società civile avesse mai conseguito alla correità al più orrendo dei delitti perpetrato nell’intero corso della storia infame della dominazione del Pianeta da parte delle “potenze” europee.
La seconda vicenda che può ricordarsi a prova della ferrea fedeltà alla verità della stampa anglosassone è l’assoluta omertà che i media americani rispettarono, con rigore indefettibile, dopo l’assassinio di John Kennedy. Chi scrive, allora studente liceale, ricorda l’incredulità di fronte al frastuono di notizie contraddittorie che i media americani propalarono al mondo dimostrando un’incoerenza che non poteva non suggerire i dubbi più inovviabili. Poi tutto si confuse in inchieste che continuarono a contraddirsi fino a quando il più drammatico assassinio politico del secolo si dissolse nella leggenda.
Di sicuro, per chi tentò ancora di capire, si impose la certezza che quanto era accaduto non avrebbe mai potuto avvenire senza un’intesa di ferro tra i due grandi rivali, Lindon Johnson e Richard Nixon, divisi da una personale, viscerale avversione, perfettamente unanimi nell’accettare il verdetto di una Corte suprema scritto, ignorando cento prove di solidità indubitabile, per sigillare una bara che ai vertici della nazione avrebbe potuto arrecare fastidi per decenni interi.
Scritto con dieci anni di anticipo, il toast di John Swinton si rivelò autentica profezia della scelta capitale dei media americani sull’assassinio: confermandosi i whores (bordelli) definiti dal decano della stampa US, in una riunione “riservata” di cui trapelò, peraltro, più di un indizio, i signori dell’informazione concordarono che i propri fogli avrebbe riferito, con ferrea unanimità, solo le notizie suggellate da un timbro statale, ignorando anche i risultati, di segno opposto, di indagini, quali quelle del procuratore di New Orleans, Garrison, che portavano i timbri della giustizia nazionale.
E chiudo la triade esemplare con un ricordo assolutamente indelebile, seppure scrivendo, allora, di temi radicalmente diversi, non conservassi una riga di appunti. Tra il crepuscolo degli anni Settanta e l’alba degli Ottanta si accese, nel Regno Unito, il più caloroso, e colorito, confronto sulle asserzioni del manipolo di autorità culturali che avevano definito la stampa popolare del paese volgare, banale, sostanzialmente stupida. A Londra, si può sottolineare, il funzionario pubblico o l’operatore della City leggevano l’ineguagliabile Times, la folla dei commoners, quindi l’uomo della strada, leggeva tabloid che propinavano scandali, pettegolezzi, banalità.
L’elevato confronto fu brillantemente chiuso dal direttore di uno dei quotidiani popolari dalla tiratura più astronomica (non ricordo il nome e me ne scuso) con la storica sentenza: “Riconosciamolo: la stampa britannica è merde, ma la nostra testata può vantare di essere la crème de la merde
Una dichiarazione che al lettore (non più assiduo) della stampa italiana impone il quesito se sia possibile individuare, nel mare di merde, un foglio che possa vantare i titoli di crème
                                                                   


 Antonio Saltini, 23 dicembre 2016



Antonio Saltini 
 
Docente di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento agricolo, Terra e Vita. E' autore della Storia delle Scienze Agrarie opera in 7 volumi.  www.itempidellaterra.com (qui).


1 commento:

  1. Certo, Antonio, la tua analisi non lascia certo spazio all'ottimismo. Rincuoriamoci allora con Leopardi:
    Passeggere. Credete che sarà felice quest'anno nuovo?
    Venditore. Oh illustrissimo si, certo.
    Luigi

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