di PRIMO LEVI
CERIO
Che io chimico, intento a scrivere qui le mie cose di chimico, abbia vissuto una stagione diversa, è stato raccontato altrove. A distanza di trent’anni, mi riesce difficile ricostruire quale sorta di esemplare umano corrispondesse, nel novembre 1944, al mio nome, o meglio al mio numero 174517. Dovevo aver superato la crisi più dura, quella dell’inserimento nell’ordine del Lager, e dovevo aver sviluppato una strana callosità, se allora riuscivo non solo a sopravvivere, ma anche a pensare, a registrare il mondo intorno a me, e perfino a svolgere un lavoro abbastanza delicato, in un ambiente infettato dalla presenza quotidiana della morte, ed insieme reso frenetico dall’avvicinarsi dei russi liberatori, giunti ormai ad ottanta chilometri da noi. La disperazione e la speranza si alternavano con un ritmo che avrebbe stroncato in un’ora qualsiasi individuo normale. Noi non eravamo normali perché avevamo fame.La nostra fame di allora non aveva nulla in comune con la ben nota (e non del tutto sgradevole) sensazione di chi ha saltato un pasto ed è sicuro che non gli mancherà il pasto successivo: era un bisogno, una mancanza, uno yearning, che ci accompagnava ormai da un anno, aveva messo in noi radici profonde e permanenti, abitava in tutte le nostre cellule e condizionava il nostro comportamento. Mangiare, procurarci da mangiare, era lo stimolo numero uno, dietro a cui, a molta distanza, seguivano tutti gli altri problemi di sopravvivenza, ed ancora più lontani i ricordi della casa e la stessa paura della morte. Ero chimico in uno stabilimento chimico, in un laboratorio chimico (anche questo è già stato raccontato), e rubavo per mangiare. Se non si comincia da bambini, imparare a rubare non è facile; mi erano occorsi diversi mesi per reprimere i comandamenti morali e per acquisire le tecniche necessarie, e ad un certo punto mi ero accorto (con un balenio di riso, e un pizzico di ambizione soddisfatta) di stare rivivendo, io dottorino per bene, l’involuzione-evoluzione di un famoso cane per bene, un cane vittoriano e darwiniano che viene deportato, e diventa ladro per vivere nel suo “Lager” del Klondike, il grande Buck del Richiamo della Foresta. Rubavo come lui e come le volpi: ad ogni occasione favorevole, ma con astuzia sorniona e senza espormi. Rubavo tutto, salvo il pane dei miei compagni.
Sotto l’aspetto, appunto, delle sostanze che si potessero rubare con profitto, quel laboratorio era terreno vergine, tutto da esplorare. C’erano benzina ed alcool, prede banali e scomode: molti li rubavano, in vari punti del cantiere, l’offerta era alta ed alto anche il rischio, perché per i liquidi ci vogliono recipienti. È il grande problema dell’imballaggio, che ogni chimico esperto conosce: e lo conosceva bene il Padre Eterno, che lo ha risolto brillantemente, da par suo, con le membrane cellulari, il guscio delle uova, la buccia multipla degli aranci, e la nostra pelle, perché liquidi infine siamo anche noi. Ora, a quel tempo non esisteva il polietilene, che mi avrebbe fatto comodo perché è flessibile, leggero e splendidamente impermeabile: ma è anche un po’ troppo incorruttibile, e non per niente il Padre Eterno medesimo, che pure è maestro in polimerizzazioni, si è astenuto dal brevettarlo: a Lui le cose incorruttibili non piacciono.
In mancanza di adatti imballaggi e confezioni, la refurtiva ideale avrebbe quindi dovuto essere solida, non deperibile, non ingombrante, e soprattutto nuova. Doveva essere di alto valore unitario, cioè non voluminosa, perché spesso eravamo perquisiti all’ingresso nel campo dopo il lavoro; e doveva infine essere utile o desiderata da almeno una delle categorie sociali che componevano il complicato universo del Lager. Avevo fatto in laboratorio vari tentativi. Avevo rubato qualche centinaio di grammi di acidi grassi, faticosamente ottenuti per ossidazione della paraffina da qualche mio collega dall’altra parte della barricata: ne avevo mangiato una metà, e saziavano veramente la fame, ma avevano un sapore così sgradevole che rinunciai a vendere il resto.
Avevo provato a fare delle frittelle con cotone idrofilo, che tenevo premuto contro la piastra di un fornello elettrico; avevano un vago sapore di zucchero bruciato, ma si presentavano così male che non le giudicai commerciabili: quanto a vendere direttamente il cotone all’infermeria del Lager, provai una volta, ma era troppo ingombrante e poco quotato. Mi sforzai anche di ingerire e digerire la glicerina, fondandomi sul semplicistico ragionamento che, essendo questa un prodotto della scissione dei grassi, deve pure in qualche modo essere metabolizzata e fornire calorie: e forse ne forniva, ma a spese di sgradevoli effetti secondari. C’era un barattolo misterioso su di uno scaffale. Conteneva una ventina di cilindretti grigi, duri, incolori, insapori, e non aveva etichetta. Questo era molto strano, perché quello era un laboratorio tedesco. Sì, certo, i russi erano a pochi chilometri, la catastrofe era nell’aria, quasi visibile; c’erano bombardamenti tutti i giorni; tutti sapevano che la guerra stava per finire: ma infine alcune costanti devono pure sussistere, e fra queste c’era la nostra fame, e che quel laboratorio era tedesco, e che i tedeschi non dimenticano mai le etichette. Infatti, tutti gli altri barattoli e bottiglie del laboratorio avevano etichette nitide, scritte a macchina, o a mano in bei caratteri gotici: solo quello non ne aveva. In quella situazione, non disponevo certamente dell’attrezzatura e della tranquillità necessarie per identificare la natura dei cilindretti.
A buon conto, ne nascosi tre in tasca e me li portai la sera in campo. Erano lunghi forse venticinque millimetri, e con un diametro di quattro o cinque. Li mostrai al mio amico Alberto. Alberto cavò di tasca un coltellino e provò ad inciderne uno: era duro, resisteva alla lama. Provò a raschiarlo: si udì un piccolo crepitio e scaturì un fascio di scintille gialle. A questo punto la diagnosi era facile: si trattava di ferro-cerio, la lega di cui sono fatte le comuni pietrine per accendisigaro. Perché erano così grandi? Alberto, che per qualche settimana aveva lavorato da manovale insieme con una squadra di saldatori, mi spiegò che vengono montati sulla punta dei cannelli ossiacetilenici, per accendere la fiamma. A questo punto mi sentivo scettico sulle possibilità commerciali della mia refurtiva: poteva magari servire ad accendere il fuoco, ma in Lager i fiammiferi (illegali) non scarseggiavano certo. Alberto mi redarguì. Per lui la rinuncia, il pessimismo, lo sconforto, erano abominevoli e colpevoli: non accettava l’universo concentrazionario, lo rifiutava con l’istinto e con la ragione, non se ne lasciava inquinare. Era un uomo di volontà buona e forte, ed era miracolosamente rimasto libero, e libere erano le sue parole ed i suoi atti: non aveva abbassato il capo, non aveva piegato la schiena. Un suo gesto, una sua parola, un suo riso, avevano virtù liberatoria, erano un buco nel tessuto rigido del Lager, e tutti quelli che lo avvicinavano se ne accorgevano, anche coloro che non capivano la sua lingua. Credo che nessuno, in quel luogo, sia stato amato quanto lui. Mi redarguì: non bisogna scoraggiarsi mai, perché è dannoso, e quindi immorale, quasi indecente. Avevo rubato il cerio: bene, ora si trattava di piazzarlo, di lanciarlo.
Ci avrebbe pensato lui, lo avrebbe fatto diventare una novità, un articolo di alto valore commerciale. Prometeo era stato sciocco a donare il fuoco agli uomini invece di venderlo: avrebbe fatto quattrini, placato Giove, ed evitato il guaio dell’avvoltoio. Noi dovevamo essere più astuti. Questo discorso, della necessità di essere astuti, non era nuovo fra noi: Alberto me lo aveva svolto sovente, e prima di lui altri nel mondo libero, e moltissimi altri ancora me lo ripeterono poi, infinite volte fino ad oggi, con modesto risultato; anzi, col risultato paradosso di sviluppare in me una pericolosa tendenza alla simbiosi con un autentico astuto, il quale ricavasse (o ritenesse di ricavare) dalla convivenza con me vantaggi temporali o spirituali. Alberto era un simbionte ideale, perché si asteneva dall’esercitare la sua astuzia ai miei danni. Io non sapevo, ma lui sì (sapeva sempre tutto di tutti, eppure non conosceva il tedesco né il polacco, e poco il francese), che nel cantiere esisteva un’industria clandestina di accendini: ignoti artefici, nei ritagli di tempo, li fabbricavano per le persone importanti e per gli operai civili. Ora, per gli accendini occorrono le pietrine, ed occorrono di una certa misura: bisognava dunque assottigliare quelle che io avevo sotto mano. Assottigliarle quanto, e come? “Non fare difficoltà, mi disse: ci penso io. Tu pensa a rubare il resto”. Il giorno dopo non ebbi difficoltà a seguire il consiglio di Alberto. Verso le dieci di mattina proruppero le sirene del Fliegeralarm, dell’allarme aereo. Non era una novità, oramai, ma ogni volta che questo avveniva ci sentivamo, noi e tutti, percossi di angoscia fino in fondo alle midolla.
Non sembrava un suono terreno, non era una sirena come quelle delle fabbriche, era un suono di enorme volume che, simultaneamente in tutta la zona e ritmicamente, saliva fino ad un acuto spasmodico e ridiscendeva ad un brontolio di tuono. Non doveva essere stato un ritrovato casuale, perché nulla in Germania era casuale, e del resto era troppo conforme allo scopo ed allo sfondo: ho spesso pensato che fosse stato elaborato da un musico malefico, che vi aveva racchiuso furore e pianto, l’urlo del lupo alla luna e il respiro del tifone: così doveva suonare il corno di Astolfo. Provocava il panico, non solo perché preannunciava le bombe, ma anche per il suo intrinseco orrore, quasi il lamento di una bestia ferita grande fino all’orizzonte. I tedeschi avevano più paura di noi davanti agli attacchi aerei: noi, irrazionalmente, non li temevamo, perché li sapevamo diretti non contro noi, ma contro i nostri nemici. Nel giro di secondi mi trovai solo nel laboratorio, intascai tutto il cerio ed uscii all’aperto per ricongiungermi col mio Kommando: il cielo era già pieno del ronzio dei bombardieri, e ne scendevano, ondeggiando mollemente, volantini gialli che recavano atroci parole di irrisione: Im Bauch kein Fett, Acht Uhr ins Bett; Der Arsch kaum warm, Fliegeralarm! (Niente lardo nella pancia, Alle otto vai a letto; Appena il culo è caldo, Allarme aereo!) A noi non era consentito l’accesso ai rifugi antiaerei: ci raccoglievamo nelle vaste aree non ancora fabbricate, nei dintorni del cantiere.
Mentre le bombe cominciavano a cadere, sdraiato sul fango congelato e sull’erba grama tastavo i cilindretti nella tasca, e meditavo sulla stranezza del mio destino, dei nostri destini di foglie sul ramo, e dei destini umani in generale. Secondo Alberto, una pietrina da accendino era quotata una razione di pane, cioè un giorno di vita; io avevo rubato almeno quaranta cilindretti, da ognuno dei quali si potevano ricavare tre pietrine finite. In totale, centoventi pietrine, due mesi di vita per me e due per Alberto, e in due mesi i russi sarebbero arrivati e ci avrebbero liberati; e ci avrebbe infine liberati il cerio, elemento di cui non sapevo nulla, salvo quella sua unica applicazione pratica, e che esso appartiene alla equivoca ed eretica famiglia delle Terre Rare, e che il suo nome non ha nulla a che vedere con la cera, e neppure ricorda lo scopritore; ricorda invece (grande modestia dei chimici d’altri tempi!) il pianetino Cerere, essendo stati il metallo e l’astro scoperti nello stesso anno 1801; e forse era questo un affettuoso-ironico omaggio agli accoppiamenti alchimistici: come il Sole era l’oro e Marte il ferro, così Cerere doveva essere il cerio. A sera io portai in campo i cilindretti, ed Alberto un pezzo di lamiera con un foro rotondo: era il calibro prescritto a cui avremmo dovuto assottigliare i cilindri per trasformarli in pietrine e quindi in pane.
Quanto seguì è da giudicarsi con cautela. Alberto disse che i cilindri si dovevano ridurre raschiandoli con un coltello, di nascosto, perché nessun concorrente ci rubasse il segreto. Quando? Di notte. Dove? Nella baracca di legno, sotto le coperte e sopra il saccone pieno di trucioli, e cioè rischiando di provocare un incendio, e più realisticamente rischiando l’impiccagione: poiché a questa pena erano condannati, fra l’altro, tutti coloro che accendevano un fiammifero in baracca. Si esita sempre nel giudicare le azioni temerarie, proprie od altrui, dopo che queste sono andate a buon fine: forse non erano dunque abbastanza temerarie? O forse è vero che esiste un Dio che protegge i bambini, gli stolti e gli ebbri? O forse ancora, queste hanno più peso e più calore delle altre innumerevoli andate a fine cattivo, e perciò si raccontano più volentieri? Ma noi non ci ponemmo allora queste domande: il Lager ci aveva donato una folle famigliarità col pericolo e con la morte, e rischiare il capestro per mangiare di più ci sembrava una scelta logica, anzi ovvia. Mentre i compagni dormivano, lavorammo di coltello, notte dopo notte. Lo scenario era tetro da piangere: una sola lampadina elettrica illuminava fiocamente il grande capannone di legno, e si distinguevano nella penombra, come in una vasta caverna, i visi dei compagni stravolti dal sonno e dai sogni: tinti di morte, dimenavano le mascelle, sognando di mangiare. A molti pendevano fuori dalla sponda del giaciglio un braccio o una gamba nudi e scheletrici: altri gemevano o parlavano nel sonno. Ma noi due eravamo vivi e non cedevamo al sonno. Tenevamo sollevata la coperta con le ginocchia, e sotto quella tenda improvvisata raschiavamo i cilindri, alla cieca e a tasto: ad ogni colpo si udiva un sottile crepitio, e si vedeva nascere un fascio di stelline gialle.
A intervalli, provavamo se il cilindretto passava nel foro-campione: se no, continuavamo a raschiare; se sì, rompevamo il troncone assottigliato e lo mettevamo accuratamente da parte. Lavorammo tre notti: non accadde nulla, nessuno si accorse del nostro tramestio, né le coperte né il saccone presero fuoco, e in questo modo ci conquistammo il pane che ci resse in vita fino all’arrivo dei russi e ci confortammo nella fiducia e nell’amicizia che ci univa. Quanto avvenne di me è scritto altrove. Alberto se ne partì a piedi coi più quando il fronte fu prossimo: i tedeschi li fecero camminare per giorni e notti nella neve e nel gelo, abbattendo tutti quelli che non potevano proseguire; poi li caricarono su vagoni scoperti, che portarono i pochi superstiti verso un nuovo capitolo di schiavitù, a Buchenwald ed a Mauthausen. Non più di un quarto dei partenti sopravvisse alla marcia. Alberto non è ritornato, e di lui non resta traccia: un suo compaesano, mezzo visionario e mezzo imbroglione, visse per qualche anno, dopo la fine della guerra, spacciando a sua madre, a pagamento, false notizie consolatorie.