di Antonio Saltini
Per una storia dell’economia agraria (e non solo) nazionale. Seconda parte
L'agricoltura più arretrata, patrizi e borghesi avversi a ogni progresso. Prima parte
Spiriti generosi ci hanno ricordato, recentemente, con calore commovente, che l’Italia vanta una delle costituzioni più avanzate del mondo.
Purtroppo questi spiriti luminosi ignorano uno dei caposaldi della scuola costituzionalista francese (il paese di Montesquieu e Tocqueville) dell’Ottocento, che sancisce che ogni nazione ha una costituzione formale, quella scritta sulla carta, e una costituzione “materiale”, quella che determina i rapporti reali tra il cittadino e chi esercita il potere. La divaricazione, a casa nostra, è, ormai, incolmabile: basterebbe citare la recente opposizione della Corte Costituzionale a mutare lo statuto dell’alta burocrazia. Un organo nominalmente demandato della tutela della Costituzione si è eretto, a tutela del privilegio, contro il Parlamento che i privilegi ha il pieno diritto di controllare e contenere. Il tutore nominale della Costituzione contro il cardine essenziale della Costituzione: il potere sovrano attribuito al popolo di modellare le proprie legge attraverso il Parlamento da esso medesimo eletto.
Seppure omogeneità di diritti e doveri non fosse mai sussistita. in un paese diviso, da millenni, in una dozzina di principati, nel segno di quell’omogeneità avrebbe dovuto nascere la Costituzione repubblicana. Che, prima ancora di essere sottoscritta, sarebbe stata, secondo i maestri francesi, costituzione formale, non avrebbe mai assunto lo stato di costituzione materiale.
L’imperativo a una costituzione di carta fu sancito, infatti, prima degli sbarchi americani, in Svizzera, dove un gruppo di lavoro presieduto da Allen Dulles, eminenza dei servizi segreti U.S., fu incaricato di decidere di come prendere possesso di un paese che aveva suonato pifferi e tamburi sul proprio futuro imperiale, aveva perso tutte le guerre, dopo anni di assemblee oceaniche inneggianti al proprio nuovo Cesare aveva concluso l’avventura come buffone alla corte del Führer della Germania che, alla fine, per coerenza al ruolo, aveva tradito.
Non è arduo immaginare lo spirito con cui Dulles e collaboratori avrebbero affrontato l’incarico: un disprezzo sconfinato per gli Italiani, con cui il team reputava inverosimile qualunque collaborazione, la determinazione a predisporre una spedizione in cui espletare ogni impiego a tutela della vita di ogni g-man: gli Stati Uniti stavano combattendo due guerre contro due temibili potenze militari. Molti uomini avevano perduto, molti altri, sapevano, ne avrebbero dovuti sacrificare. L’operazione italiana doveva essere affare di polizia, sfruttando l’opportunismo italico perché la missione costasse il prezzo minore possibile. Agli occhi americani tutti gli italiani non valevano un solo marine.
Ideato con innegabile realismo, il piano del team Dulles si articolò in quattro capitoli: l’impiego di quanto restava degli apparati fascisti per il controllo popolare, l’uso, dove conveniente, delle famose delinquenze organizzate italiane, prima tra le altre la Mafia, un apparato che assicurasse il pane quotidiano al paese la cui morale si è sempre enucleata nell’imortale “Francia o Spagna, pur che se magna”, la creazione di una formazione politica che conquistasse il maggiore consenso popolare, da finanziare con tutti i mezzi, qualsiasi ne fosse la liceità nei termini dell’inesistente legge italica.
Iniziati gli sbarchi di g-men e occupate le prime regioni italiane l’obiettivo essenziale era ancora, palesemente, vincere la guerra contro un nemico ancora temibile. La completa attuazione del piano avrebbe atteso l’occupazione totale del Paese, operata la quale la prima condizione sarebbe stata l’investitura della controparte con cui procedere alla realizzazione. L’interlocutore naturale sarebbe stato, palesemente, il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi. Presidente di un paese disfatto, di fronte agli immani problemi del trattato di pace, impegnato nel pressoché impossibile compito di conservare una maggioranza in un parlamento i cui membri, in pare ingente correi della sconfitta, iniziarono, dalla prima convocazione, le risse dei famosi “polli di Renzo”, è impensabile che lo statista trentino potesse trascorrere le giornate a colloquio con generali a tre, quattro, cinque stelle. E’ inevitabile che scegliesse un collaboratore, possibilmente il più astuto, simulatore e dissimulatore di tutti i i collaboratori. Non esistendo verbali ufficiali degli incontri, obbligati alla supposizione, si è costretti a riconoscere che tutti gli indizi (sottolineo il termine indizi) conducono a Giulio Andreotti.
Elenco quelli palesi: è noto quanto precocemente Andreotti rivelasse l’ineffabile genio machiavellico, è altrettanto noto quanto De Gasperi ne apprezzasse l’intelligenza. Avesse formalmente delegato un ministro, il Comando U. S. avrebbe potuto lamentarne il grado: Andreotti vantava il titolo di “segretario del Consiglio dei ministri”: l’U. S. Command Staff attraverso Andreotti interloquiva, quindi con l’intero Governo, del quale rappresentava, quindi, direttamente il Presidente.
Agli indizi palesi aggiungo la testimonianza diretta di persona conosciuta all’alba del mio lavoro giornalistico, che era stata presente, a Palazzo Chigi, agli accordi tra il Segretario del Consiglio e uno stuolo di ufficiali U:S. che pretendevano una grande battuta nella tenuta presidenziale di Castel Porziano, dopo la guerra straripante di cervi, cinghiali e caprioli. Il clima della conversazione sarebbe stato di gaia cordialità, se non di consolidata amicizia.
Mafia e antichi servizi segreti: sono stati costanti sistematiche della travagliata vita della “prima” Repubblica, Giulio Andreotti sempre prossimo a personaggi dello stampo di Michele Sindona, Licio Gelli, del generale Micheli, dei giudici di cassazione che assolvevano i membri della “cupola”palermitana, vicino a Vito Ciancimino e Salvo Lima. Il processo a suo carico, a Palermo, avrebbe provato la sua connivenza con gli astri del firmamento palermitano, riconoscendo, peraltro, che i reati relativi erano prescritti, ciò che sul piano storico non significa assolutamente nulla. E ogni rumoreggiare di amicizie e correità avrebbe accresciuto considerazione e venerazione dell’italica plebe per il “divo Giulio” confermando che la stima di Mr. Dulles per gli abitanti della Penisola non mancasse di qualche fondamento.
Gli obiettivi più impegnativi del piano concepito dal team svizzero erano, peraltro, gli ultimi della quaderna,; il problema annonario, quello della creazione di una forza politica da finanziare illimitatamente nella certezza che quel denaro costituisse investimento fruttuoso. Esisteva in Italia un organismo agro-commerciale creato, nel 1892, da pionieri liberali della rinascita dell’arretrata agricoltura italiana, la Federazione nazionale dei consorzi agrari. Il Fascismo se ne era appropriato, affidandolo alle mani di gerarchi di assoluta fedeltà, per farne l’equivalente dell’Annona di Augusto, un ente essenziale per un autentico impero. I pochi spiriti autenticamente democratici presenti alla Costituente ne pretendevano l’immediata abolizione: sarebbe stata convertita, invece, nello strumento per sfamare gli italiani assicurando, insieme, fiumi di denaro alle casse dell’organismo, prodigiosamente conquistato, a norma di statuto fascista, dalla nuova falange dei contadini di orientamento cattolico, la Confederazione nazionale dei coltivatori diretti, inquadrata con rapidità prodigiosa per due scelte capitali del vertice democristiano: un direttore generale in possesso di autentico genio organizzativo, Luigi Anchisi, già alto dirigente dei sindacati fascisti, Paolo Bonomi, autentico tribuno, famoso per l’antica abitudine di partecipare alle riunioni dell’Azione Cattolica in camicia nera.
Come può, è legittimo chiedersi, una confederazione contadina convertirsi nel meccanismo per l’impiego politico di cifre astronomiche? Gli elementi essenziali di una risposta sono tre. Con la Federconsorzi la Coldiretti si era appropriata dell’intero sistema di banchine, silos, scali ferroviari necessari ad alimentare il paese. Dallo zio Sam l’apparato aveva avuto l’esclusiva delle importazioni di cereali dagli Usa, con la produttività delle campagne disarticolata dalla guerra entità imponente. Il secondo: ricostruire il prezzo di acquisto di una nave di grano (allora 10-15.000 tonnellate) che sbarcasse a Ravenna era del tutto impossibile: l’acquisto era stato operato, tra le pits del Board di Chicago, a prezzi che cambiavano ogni minuto, la merce era stata trasferita, su chiatte, a New Orleans, un percorso di tre settimane, che quattro giorni di piena del Mississippi potevano ampliare moltiplicando i noli (delle chiatte e della nave che attendeva). Quando la nave attraccava uno sciopero di portuali poteva ritardare lo sbarco di giorni e giorni, accrescendo ulteriormente i noli. Se il prezzo di arrivo era incerto, il direttore generale della Federconsorzi, il benemerito ragionier Mizzi, aveva imposto (uso il termine più proprio) al Ministro del Tesoro una convenzione con Banca d’Italia e Associazione bancaria che al debitore consentiva praticamente tutto, evitandogli ogni controllo della merce da parte di ispettori estranei, tanto che quantità immani di grano erano dichiarate sistematicamente avariate, e ripagate dal Tesoro, e la consegna dei rendiconti al Ministero dell’agricoltura poteva essere rinviata sine die (alcuni sarebbero stati consegnati con ritardi quarantennali, col lucro, da parte della Federconsorzi, degli interessi accortamente previsti dal Ragioniere).
Saggiamente ripartito tra amici e nemici dal Direttore dell’ente, a chi si sarebbero diretti i cento rivoli del fiume di denaro che dai conti delle importazioni si trasferiva ai cento beneficiari? Nella sua integralità la domanda non può, palesemente avere risposta. Chi scrive ha operato, apprendista cronista, per quattro anni, per il settimanale che la Federconsorzi gestiva attraverso il Reda, Ramo editoriale degli agricoltori): scriveva di tecniche agronomiche, ma, per ogni dubbio, godeva della facoltà di interpellare i dirigenti Federconsorzi del livello più elevato, sul piano tecnico interlocutori ineguagliabili. Contando sulla riservatezza, più di uno, chiusa la tematica tecnica, si concedeva qualche rilievo sui misteri della politica aziendale. Le confidenze più singolari erano, senza dubbio, quelle dell’avvocato Antonio Pepe, napoletano, due lauree, dalla guerra di Spagna l’intatta fede del legionario fascista (nel corpo dei bersaglieri), incaricato dal Direttore dei doni natalizi (tradizionalmente grandi cesti di agrumi al di sotto dei quali si celavano argenti e cristalli dalle provenienze più auguste. Aggiungo, come nota di cronaca, che durante una vivacissima, e cordiale, conversazione mi confidò che tra centinaia di deputati, direttori di giornali e capogabinetto di tutti i ministeri un solo italiano aveva rispedito gli argenti al mittente, Donato Menichella, governatore della Banca d’Italia. Un italiano solo. E che l’avvocato Pepe conosceva ogni dettaglio del rituale che precedeva gli incontri del Direttore con Aldo Moro per fissare il contributo della Federconsorzi al costo delle campagne elettorali democristiane. Tra la dirigenza era comune la leggenda che lo stesso Moro avesse ricevuto in dono trattori e apparecchiature irrigue per l’azienda agricola più vasta e feconda di Buonconvento, acquisita (posate d’oro comprese) dalla famiglia Lante della Rovere e intestata al segretario, Sereno Freato e a alcune dattilografe di Palazzo Chigi. Un settimanale satirico avrebbe verificato l’entità delle proprietà intestate a Freato & c.sul registro delle società del tribunale di Siena.
Distributore munifico, Leonida Mizzi non dimenticava nessuno: la Ferderconsorzi era titolare di una società assicurativa, il cui bilancio sarebbe stato del tutto impresentabile per l’entità delle tangenti assicurate, nell’acquisto del patrimonio immobiliare, a un’autorevole personalità democristiana.
Duce onnipotente, dalla fondazione, impugnava ancora lo scettro della Confederazione dei coltivatori diretti, nel 1977, Paolo Bonomi, una figura (o, a preferenza, un figuro) emblematico della scena politica italiana. Patetica caricatura di Mussolini, pretendeva che per per i milioni di associati non dovessero esistere né Repubblica né Parlamento, siccome sarebbe stato lui stesso l’elargitore di tutti i benefici assicurati dai voti raccolti dai suoi gregari. “Coltivatori , chi vi ha dato la mutua?” chiedeva, ultimativo, alle migliaia di adepti riuniti tra le rovine dell’Aventino. La risposta, che tutti dovevano urlare col rischio di lacerare le corde vocali, doveva essere:”Bonomi!”
Tormentato per lunghi anni da una malattia debilitante, alle grandi assemblee della Confederazione l’onore dell’intervento capitale sarebbe divenuta prerogativa di Giulio Andreotti, che con il tribuno vacillante mostrava di essere legato da un patto indissolubile. Quando la malattia lo avrebbe costretto, ormai incapace di formulare parola, a dimettersi, gli sarebbe succeduto un solerte coadiutore barese, titolare di una poltrona parlamentare abilmente conservata nell’infido terreno politico di Caserta, Arcangelo Lobianco, che in due successive assemblee democristiane avrebbe osato avanzare critiche alla coerenza ideologica del sommo patron dell’antico sistema, Giulio Andreotti. Se l’ambizioso barese aveva osato per dimostrare che ormai era lui il solo, unico, incondizionabile patron della Federconsorzi, il gregario barese aveva peccato di presunzione: con un solo consiglio dei collaboratori più fidati (Cirino Pomicino, Forlani, Goria, Cristofori), a Piazza del Gesù, alle 11 del 17 maggio 1991 (il decreto di Goria sarebbe stato divulgato alle 17) l’eterno Presidente avrebbe elargito al concorrente una doviziosa, quanto si voglia umiliante, sinecura, destinando, con un’operazione processuale del tutto inusuale, i 16.000 miliardi che economisti illustri reputavano il valore degli immobili Federconsorzi alle banche ruotanti nel planetario del “divo Giulio”, tra 10 e 20 alle professioni forensi che, autentici stuoli di squali, si gettarono nell’avventura, e, a quanto è dato sapere, non vi si gettarono invano.
Antonio Saltini
Docente di
Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico
delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura
Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di
argomento agricolo, Terra e Vita. E' autore della Storia delle Scienze
Agrarie opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com (qui).
Caro Antonio,
RispondiEliminaoccupandomi di climatologia conosco il peso che hanno le discontinuità nell’interpretare le caratteristiche di un sistema. Nella vicenda che narri vi è un discontinuità interessantissima sul piano storico che è costituita da "mani pulite" e dal passaggio alla seconda repubblica, che secondo articoli recentemente apparsi sul Corriere e che attingevano ad archivi statunitensi, avrebbe avuto la benedizione degli USA e che con il senno del poi si può a mio avviso leggere come una vicenda gattopardesca del tipo «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».
In quell'occasione Coldiretti è passata dal sostegno ad un solo partito (la DC) al sostegno a chiunque detenesse il potere assumendo un incontrastato predominio su tutti i media ed imponendo all'agricoltura italiana una camicia di forza fatta di oscurantismo (rifiuto di qualunque innovazione) e assistenzialismo (l’inefficienza del settore dovuto alla mancata innovazione la deve pagare sempre e comunque la collettività), camicia di forza che nei suoi singoli aspetti è spesso oggetto dei nostri strali su Agrarian Sciences. Tale rapidissimo cambiamento di strategia da parte di Coldiretti presuppone un machiavellismo che mal si addice alla notoria rozzezza dell'organizzazione. Tu come lo spieghi?
Adesso ci si è messa anche la CIA sulla scia della Coldiretti. Comunque tra prima e seconda repubblica (scritta appositamente con lettera minuscola) probabilmente si sono tutti messi i "guanti" e così non si sono dovuti pulire le mani...... si sono solo ri-cavati i guanti!!!!!
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