di Luigi Mariani
Ricostruzione
della tomba Neanderthal di La Chapelle-des-Saints.
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Riassunto
I
resti archeologici ci mostrano che il culto dei morti è stato uno dei primi
segni della cultura umana, risalendo almeno al Paleolitico superiore, ed è
stato mantenuto durante tutta la nostra storia fino al presente e costituisce
tutt’oggi una delle basi della nostra civiltà. Di qui l'affermazione che la festività
dei defunti del 2 novembre, che in Italia è stata abolita diversi anni fa per
ragioni di produttività dell’economia, meriterebbe di essere recuperata.
Le
origini remote del culto dei defunti
La festività dei defunti affonda le proprie
radici nel passato più remoto della nostra specie, come dimostrano le molte
tracce archeologiche di culto dei defunti relative ai nostri parenti più
prossimi e cioè i Neanderthal. Ad esempio sotto il deposito musteriano di La
Chapelle-aux-Saints è stata rinvenuta una tomba tagliata nel pavimento roccioso
e contenente lo scheletro rannicchiato di un uomo di Neanderthal e tombe simili
sono state scoperte a La Ferrassie (Dordogna), a Kiik-Koba (Crimea) e a
Teshik-Tash (Uzbekistan) mentre a Mugharet es-Skuul (Monte Carmelo) è stato rinvenuto
un cimitero di 10 tombe con resti che andavano da bambini di 3 e 4 anni a un
uomo di oltre 50 anni (Clark, 1986).
Lo stesso Clark (1986) narra che in Homo sapiens sapiens il culto dei morti
assume forme più complesse. Nel paleolitico superiore (da 40mila a 10mila anni
fa) i morti sono seppelliti vestiti e adorni degli ornamenti personali come ad
esempio nella tomba di Sungir (presso Vladimir, a Nordest di Mosca) ove sono
stati ritrovati, distesi supini e cosparsi di polvere d’ocra, un uomo di circa
60 anni e due ragazzi, sepolti testa a testa e che pare portassero mantelli,
calzoni, copricapo e scarpe. Nella tomba sono state ritrovate 300 perle
fabbricate con avorio di mammut, forse in origine cucite agli abiti, e altri ornamenti
(sassolini e denti d’animale perforati).
Dal
neolitico all’epoca romana
La rivoluzione neolitica e la conseguente
nascita di forme di civiltà più evolute porta ad una varietà notevolissima di
forme di onoranza dei defunti su cui non mi soffermerò per ovvi motivi di
spazio. Mi preme solo segnalare le forme complesse e articolate che il culto
per i defunti assumeva presso i romani, anche perché presentano vari punti di
contatto con i riti attualmente in uso qui in Italia.
Nell’antica Roma era usanza che il
maschio più anziano della casa, il pater
familias, venisse chiamato al capezzale del moribondo per chiudere gli
occhi al morente e raccoglierne l’ultimo alito vitale. Una moneta veniva quindi
posta sotto la lingua del defunto come obolo per Caronte, traghettatore verso
il mondo degli inferi. Aveva poi inizio la conclamatio,
il lamento funebre intonato dai parenti che, a gran voce, invocavano il nome
del defunto per dargli l’estremo saluto. L’appartenenza al ceto differenziava
le modalità di sepoltura. Se l’estinto era di condizione povera, lo stesso
giorno del decesso il cadavere veniva portato alla sepoltura dai vespillones (trasportatori) e cremato o
inumato fuori della Porta Esquilina a spese di associazioni costituite a tale
scopo, che provvedevano anche alla costruzione di cimiteri comuni. Se invece l’estinto
era di origine nobile o patrizia, il rito funebre era affidato dai libitinarii (impresari di pompe funebri)
(Gelati, 2016).
Il corteo funebre si articolava in
maniera differente a seconda delle condizioni sociali delle famiglie: quello
per persone umili o per bambini si svolgeva di notte, mentre quello per gente
aristocratica, del quale un araldo comunicava al pubblico il giorno e l’ora, si
svolgeva alla luce del giorno e con particolare solennità. Al termine della
processione, quando il corteo giungeva al Foro, veniva pronunciata la laudatio funebris del defunto. Il
feretro, in cui il defunto era adagiato scoperto, veniva trasportato a spalla
dai congiunti o dai liberti e in casi particolari da senatori o cavalieri.
Mimi, danzatori e suonatori di corno o di tibia aprivano il corteo seguiti dai
portatori di fiaccole e dalle préfiche, donne che cantavano lamenti funebri e
lodi all’estinto. Parenti e amici seguivano la bara. Il cadavere veniva inumato
o cremato (Gelati, 2016).
Nove giorni dopo la collocazione definitiva
della salma aveva luogo una festa (coena
novendialis) in occasione della quale sulla tomba venivano versati vino o
altre bevande di pregio. Poiché la cremazione era la scelta prevalente, le
ceneri, dopo essere state cosparse di vino e di latte e poste nell’unguento e
nel miele, erano raccolte in un’urna funeraria circolare con l’iscrizione del
nome del defunto, deposta in una nicchia ricavata in un sepolcro collettivo
chiamato columbarium (colombaia).
Durante questi nove giorni la casa era considerata contaminata (funesta) e veniva ornata di rami di
cipresso o tasso perché ne fossero avvertiti i passanti. Alla fine di questo
periodo, veniva spazzata e lavata per purificarla dal fantasma del defunto
(Gelati, 2016).
Ricordiamo infine che presso i romani la
commemorazione dei defunti avveniva in occasione dei Parentàlia (dal 13 al 21 febbraio), durante i quali ogni famiglia
onorava genitori e altri congiunti. L'ultimo giorno dei Parentàlia era quello dei Feràlia,
destinato a cerimonie pubbliche. La legge romana prescriveva che i cimiteri
sorgessero all'esterno delle mura, dove le tombe si sviluppavano ai lati delle
strade che uscivano dalle porte urbiche (Gelati, 2016).
Cosa
ci dice oggi tutto ciò
Questa lunghissima storia, seppur trattata
per sommi capi, giustifica in modo più che mai eloquente il fatto che la
festività dei defunti è ancor oggi per molti di noi un momento centrale
dell’anno e lo è in virtù di quanto ci lega ai nostri antenati. Per questo
trovo un segno di barbarie e non certo di progresso l’avere da anni abolito questa
festività, costringendo coloro che vogliono partecipare alle cerimonie che si
tengono in tutti i cimiteri d’Italia a funamboliche ricerche di compatibilità
con i tempi del lavoro. Peraltro il problema è aggravato dal fatto che le tombe
di famiglia sono spesso lontane in virtù dell’inurbamento di molte famiglie che
ha avuto luogo a partire dagli anni 50 del XX secolo.
Sottolineo peraltro che la festività
dei defunti riveste al contempo carattere religioso e laico, il che avvalora a
maggior ragione l’importanza di un suo re-inserimento in un calendario che in
Italia prevede come festività anche extra-domenicali 4 festività civili (1
gennaio, 25 aprile, 1 maggio, 2 giugno), 2 feste religiose e civili (Assunzione
di Maria Vergine coincidente con Ferragosto, Santa Madre di Dio coincidente con
Capodanno) e 7 feste religiose (Lunedì dell'Angelo, Santo Stefano, festa del
Santo Patrono nelle singole località, Epifania, Tutti i Santi, Immacolata
Concezione, Natale).
Il dibattito sul restituire dignità festiva
alla celebrazione dei defunti va a mio avviso riaperto e centrale in tal senso resta
ancor oggi il contributo storico-culturale del nostro grande poeta Ugo Foscolo,
che ai defunti teneva in modo molto particolare come dimostrò nel sonetto “In morte del fratello Giovanni”.
La riflessione di Foscolo raggiunge il
proprio apice nel carme “Dei sepolcri”,
che Giosuè Carducci a ragione definì “la
sola poesia lirica, nel grande significato pindarico, che abbia l’Italia”.
Il carme fu scritto nel 1807 per contestare il napoleonico editto di Saint
Cloud che, per motivi igienici e ripristinando l’usanza romana, aboliva le
sepolture urbane, fatto questo che Foscolo riteneva in grado di rompere il
legame fra passato e presente, fra vivi e morti su cui si regge, oggi come nel remoto
paleolitico, la nostra civiltà (A egregie
cose il forte animo accendono / L’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella / E
santa fanno al peregrin la terra / Che le ricetta..).
Bibliografia
Clark G., 1986. La preistoria del
mondo, una nuova prospettiva, Garzanti.
Foscolo U., 1807. Dei sepolcri (qui) (sito visitato il 2 novembre 2016).
Gelati M.A., 2016. Il culto dei defunti
nell'antica Roma (qui) (sito visitato il 2 novembre 2016).
Luigi Mariani
Docente di Storia dell' Agricoltura Università degli Studi di Milano-Disaa, condirettore del Museo Lombardo di Storia dell'Agricoltura di Sant'Angelo Lodigiano. E' stato anche Docente di Agrometeorologia e Agronomia nello stesso Ateneo e Presidente dell’Associazione Italiana di Agrometeorologia.
Docente di Storia dell' Agricoltura Università degli Studi di Milano-Disaa, condirettore del Museo Lombardo di Storia dell'Agricoltura di Sant'Angelo Lodigiano. E' stato anche Docente di Agrometeorologia e Agronomia nello stesso Ateneo e Presidente dell’Associazione Italiana di Agrometeorologia.
RispondiEliminaGentile prof, oltre al 2 novembre lo stato italiano dovrebbe ripristinare anche la vecchia festa del 20 settembre...
Egregio Professore,
RispondiEliminaper quanto abbia cercato in rete, non sono riuscito a determinare con esattezza in quale anno e con quale legge (e governo) sia stata abolità la festività civile del 2 novembre. Può dirmelo Lei?
Grazie,
attendo in posta privata.
Con stima,
Avv. Pietro Cuniberti
pietro.cuniberti@danesideluca.it