Un libro del professor Cinnella per non dimenticare
di Luigi Mariani
Scriveva Adamo Smith che le cattive stagioni provocano la penuria ma che è la violenza di governi benintenzionati a trasformare la penuria in carestia. Da questo punto di vista occorre rilevare che grazie a Dio l’Europa non vive carestie da diversi decenni e che una delle ultime grandi carestie registrate fu quella che colpì svariati territori dell’Unione Sovietica nel 1932-33(*). Tale carestia fu conseguenza di alcune annate di cattivi raccolti cui si aggiunse tuttavia l’inflessibile volontà di Stalin di spazzar via la proprietà privata nelle campagne introducendo l’organizzazione collettiva in colcos.
Ciò ebbe luogo nel più vasto ambito della “grande svolta” imposta dal dittatore al sistema economico - sociale dell’URSS e che trasformò decine di milioni di persone in materiale umano per una colossale opera d’ingegneria sociale diretta dall’altro e che non ha forse uguali nella storia umana. In virtù di tale esperimento non solo milioni di contadini furono ridotti a servi della gleba ma si creò anche il grande arcipelago concentrazionario basato sui lavori forzati, l’arcipelago gulag narrato da Alexander Solgenitsin.
La collettivizzazione forzata significò che i proprietari dovettero conferire ai colcos il capitale fondiario (terra) e quello agrario (bestiame, macchinari, attrezzi e prodotti di scorta) ricevendo in cambio un posto di lavoro, cibo e salario. La collettivizzazione forzata suscitò aspre reazioni da parte della piccola e media proprietà terriera che in quel momento, anche grazie un’organizzazione in cooperative legata alla NEP, stava garantendo in modo efficace l’approvvigionamento dell’intera nazione.
Con la nascita dei colcos fu attivato un piano di ammasso dei cereali da indirizzare non solo al rifornimento delle città ma anche alle esportazioni verso l’estero con l’intento di ottenere valuta pregiata atta ad acquistare in macchinari che occorrevano per il decollo dell’industria pesante, uno dei capisaldi dell’azione di Stalin. Il rispetto degli obbiettivi di piano portò a destinare agli agricoltori molto meno dei 300 kg di cereali che sono il quantitativo necessario per sostentare per un anno un individuo adulto. Inoltre vennero meno i concentrati con cui alimentare il bestiame da latte e quello necessario per le lavorazioni (cavalli in particolare) il che spiega le ingenti macellazioni attuate e che ridussero ai minimi termini il patrimonio zootecnico sovietico.
Ciò ebbe luogo nel più vasto ambito della “grande svolta” imposta dal dittatore al sistema economico - sociale dell’URSS e che trasformò decine di milioni di persone in materiale umano per una colossale opera d’ingegneria sociale diretta dall’altro e che non ha forse uguali nella storia umana. In virtù di tale esperimento non solo milioni di contadini furono ridotti a servi della gleba ma si creò anche il grande arcipelago concentrazionario basato sui lavori forzati, l’arcipelago gulag narrato da Alexander Solgenitsin.
La collettivizzazione forzata significò che i proprietari dovettero conferire ai colcos il capitale fondiario (terra) e quello agrario (bestiame, macchinari, attrezzi e prodotti di scorta) ricevendo in cambio un posto di lavoro, cibo e salario. La collettivizzazione forzata suscitò aspre reazioni da parte della piccola e media proprietà terriera che in quel momento, anche grazie un’organizzazione in cooperative legata alla NEP, stava garantendo in modo efficace l’approvvigionamento dell’intera nazione.
Funzionari sequestrano cibo nascosto sotto terra. |
In Ucraina la collettivizzazione forzata fu particolarmente cruenta perché si impose in contrasto con il sentimento nazionale che era rinfocolato sia dall’autonomia temporaneamente conquistata a seguito delle rivoluzione d’ottobre sia dalla diaspora ucraina presente nella vicina Polonia di Pilsudski.
Il contrasto fra lo stato sovietico e gli agricoltori fu risolto dapprima ricorrendo alle deportazioni in Siberia delle famiglie degli agricoltori agiati (i kulaki, distinti da quelli medi, i serednjaki e quelli poveri, i bednjaki) e in un secondo tempo utilizzando la fame come strumento di coercizione. I piccoli e medi proprietari più recalcitranti alla collettivizzazione furono infatti privati delle derrate alimentari e andarono spesso incontro a una morte terribile dopo essersi ridotti a cibarsi di cortecce, erba, letame, carogne e financo di carne umana (molti furono i casi di cannibalismo registrati).
Le stime più accreditate indicano le deportazioni dei kulaki fra il 1931 e il 1933 interessarono 1,8 milioni di persone di cui diverse centinaia di migliaia perirono di stenti e di freddo. Inoltre nel suo complesso la collettivizzazione forzata fece un totale di 6 milioni di morti di cui fra 3,5 e 4,5 in Ucraina, ove non per nulla oggi si parla di genocidio nazionale (holodomor). Il resto dei morti si registrò in Kazakistan, ove le popolazioni nomadi furono costrette a divenire sedentarie, fra i cosacchi del Caucaso settentrionale (molti dei quali erano ucraini) e fra gli agricoltori della regione del Volga (abitata da comunità tedesche).
Da non trascurare il fatto che le attività repressive furono accompagnate dal costante ricorso alla retorica della lotta ai nemici di classe (kulaki o borghesi cittadini che fossero), dell’alleanza del proletariato urbano con gli strati medio-poveri delle campagne e dell’educazione delle masse al socialismo. In particolare la parola d’ordine della “liquidazione dei kulaki come classe” fu lanciata da Stalin il 27 dicembre 1929 al congresso dei marxisti esperti in questioni agrarie e le disposizioni del capo furono poste in atto dalla polizia politica (OGPU).
Di queste vicende in occidente si seppe poco o nulla ed ebbe buon gioco la propaganda comunista che indicò le notizie come frutto di propaganda antisovietica organizzando una vera e propria campagna di disinformazione come nel caso della visita del politico francese Herriot, più volte ministro e presidente del consiglio, il quale dopo aver visitato l’URSS fra agosto e settembre 1933 tornò in patria riferendo che quanto aveva visto in URSS era magnifico. Un ruolo di primo piano nel nascondere la reale portata dei fatti l’ebbero giornalisti compiacenti quali il corrispondente da Mosca del New York Times William Duranty, storici che videro nelle morti per fame un “male necessario” connesso all’edificazione del “socialismo” o gli stessi partiti comunisti dell’occidente, quello italiano in primis, che contribuirono a diffondere un’immagine oleografica e del tutto irreale del regime stalinista. In realtà la documentazione su tali vicende era già disponibile negli anni 30 sia grazie i fuoriusciti che attraversavano il confine polacco o romeno sia grazie alle relazioni inviate all’estero dalle autorità consolari presenti in Ucraina (fra cui quella italiana: l’Italia fascista era stato il primo paese a riconoscere l’URSS) e da addetti agricoli quali l’agronomo tedesco Otto Schiller o l’agronomo canadese Andrew Cairns sia infine grazie all’attività pubblicistica dei fuoriusciti russi. Importante fu anche la testimonianza lasciata dallo scrittore Vasilij Grossman, che nel suo romanzo Tutto scorre (Mondadori, 1971) al capitolo 14 presenta un resoconto assai realistico della collettivizzazione forzata del 1929-33 e della carestia che ne conseguì. La documentazione esistente si è poi considerevolmente ampliata dopo il crollo dell’impero sovietico ed in particolare sono stati messi a disposizione degli storici i carteggi fra Stalin, i suoi più stretti collaboratori (Kaganovic, Molotov) e le autorità comuniste locali.
Dall’analisi di tale vastissima documentazione oggi disponibile nasce l’interessantissimo e appassionato libro 1932-33: Ucraina, il genocidio dimenticato dello storico Ettore Cinnella, Della porta editori (302 pagine, 18 euro) che è a mio avviso utile leggere sia perché fatti del genere non abbiano più a ripetersi in futuro sia per comprendere le ragioni storiche dell’attuale contesa fra Ucraina e Russia. Per usare le parole del professor Cinnella, dall’holodomor il popolo ucraino uscì debellato e offeso, straziato nel corpo e nell’anima; scomparve il fior fiore dell’intellighenzia, custode della memoria storica della nazione, fu distrutta la chiesa ortodossa autocefala ucraina e furono lasciati morire tra indicibili tormenti milioni di laboriosi agricoltori, che provvedevano a tener colmo il “granaio d’Europa”.
Concludo rimarcando che nella carestia in questione l’elemento chiave è come in altri casi analoghi quello della proprietà fondiaria. L’aver scardinato la piccola e media proprietà in nome dell’utopia collettivistica fu un errore enorme e di cui si stanno ancor oggi pagando le conseguenze. Il sistema agricolo collettivistico infatti, con la sua palese incapacità di far fronte alle esigenze di cibo e beni di consumo della collettività, fu fra le cause del crollo dell’impero sovietico, dalle cui ceneri si è dovuti ripartire costruendo nella gran parte dei casi da zero.
(*) L'Unione Sovietica fu colpita da una carestia importante anche nel 1946-47 e ad essa fa giustamente cenno il professor Cinnella nel suo testo, peraltro dedicato alla carestia degli anni '30.
Luigi Mariani
Docente di Storia dell' Agricoltura Università degli Studi di Milano-Disaa, condirettore del Museo Lombardo di Storia dell'Agricoltura di Sant'Angelo Lodigiano. E' stato anche Docente di Agrometeorologia e Agronomia nello stesso Ateneo e Presidente dell’Associazione Italiana di Agrometeorologia.
Il contrasto fra lo stato sovietico e gli agricoltori fu risolto dapprima ricorrendo alle deportazioni in Siberia delle famiglie degli agricoltori agiati (i kulaki, distinti da quelli medi, i serednjaki e quelli poveri, i bednjaki) e in un secondo tempo utilizzando la fame come strumento di coercizione. I piccoli e medi proprietari più recalcitranti alla collettivizzazione furono infatti privati delle derrate alimentari e andarono spesso incontro a una morte terribile dopo essersi ridotti a cibarsi di cortecce, erba, letame, carogne e financo di carne umana (molti furono i casi di cannibalismo registrati).
Bambini istruiti a raccogliere patate per essere portate via dai funzionari. Fonte: Holomodor Research & Education Consortium |
Da non trascurare il fatto che le attività repressive furono accompagnate dal costante ricorso alla retorica della lotta ai nemici di classe (kulaki o borghesi cittadini che fossero), dell’alleanza del proletariato urbano con gli strati medio-poveri delle campagne e dell’educazione delle masse al socialismo. In particolare la parola d’ordine della “liquidazione dei kulaki come classe” fu lanciata da Stalin il 27 dicembre 1929 al congresso dei marxisti esperti in questioni agrarie e le disposizioni del capo furono poste in atto dalla polizia politica (OGPU).
Di queste vicende in occidente si seppe poco o nulla ed ebbe buon gioco la propaganda comunista che indicò le notizie come frutto di propaganda antisovietica organizzando una vera e propria campagna di disinformazione come nel caso della visita del politico francese Herriot, più volte ministro e presidente del consiglio, il quale dopo aver visitato l’URSS fra agosto e settembre 1933 tornò in patria riferendo che quanto aveva visto in URSS era magnifico. Un ruolo di primo piano nel nascondere la reale portata dei fatti l’ebbero giornalisti compiacenti quali il corrispondente da Mosca del New York Times William Duranty, storici che videro nelle morti per fame un “male necessario” connesso all’edificazione del “socialismo” o gli stessi partiti comunisti dell’occidente, quello italiano in primis, che contribuirono a diffondere un’immagine oleografica e del tutto irreale del regime stalinista. In realtà la documentazione su tali vicende era già disponibile negli anni 30 sia grazie i fuoriusciti che attraversavano il confine polacco o romeno sia grazie alle relazioni inviate all’estero dalle autorità consolari presenti in Ucraina (fra cui quella italiana: l’Italia fascista era stato il primo paese a riconoscere l’URSS) e da addetti agricoli quali l’agronomo tedesco Otto Schiller o l’agronomo canadese Andrew Cairns sia infine grazie all’attività pubblicistica dei fuoriusciti russi. Importante fu anche la testimonianza lasciata dallo scrittore Vasilij Grossman, che nel suo romanzo Tutto scorre (Mondadori, 1971) al capitolo 14 presenta un resoconto assai realistico della collettivizzazione forzata del 1929-33 e della carestia che ne conseguì. La documentazione esistente si è poi considerevolmente ampliata dopo il crollo dell’impero sovietico ed in particolare sono stati messi a disposizione degli storici i carteggi fra Stalin, i suoi più stretti collaboratori (Kaganovic, Molotov) e le autorità comuniste locali.
Dall’analisi di tale vastissima documentazione oggi disponibile nasce l’interessantissimo e appassionato libro 1932-33: Ucraina, il genocidio dimenticato dello storico Ettore Cinnella, Della porta editori (302 pagine, 18 euro) che è a mio avviso utile leggere sia perché fatti del genere non abbiano più a ripetersi in futuro sia per comprendere le ragioni storiche dell’attuale contesa fra Ucraina e Russia. Per usare le parole del professor Cinnella, dall’holodomor il popolo ucraino uscì debellato e offeso, straziato nel corpo e nell’anima; scomparve il fior fiore dell’intellighenzia, custode della memoria storica della nazione, fu distrutta la chiesa ortodossa autocefala ucraina e furono lasciati morire tra indicibili tormenti milioni di laboriosi agricoltori, che provvedevano a tener colmo il “granaio d’Europa”.
Concludo rimarcando che nella carestia in questione l’elemento chiave è come in altri casi analoghi quello della proprietà fondiaria. L’aver scardinato la piccola e media proprietà in nome dell’utopia collettivistica fu un errore enorme e di cui si stanno ancor oggi pagando le conseguenze. Il sistema agricolo collettivistico infatti, con la sua palese incapacità di far fronte alle esigenze di cibo e beni di consumo della collettività, fu fra le cause del crollo dell’impero sovietico, dalle cui ceneri si è dovuti ripartire costruendo nella gran parte dei casi da zero.
(*) L'Unione Sovietica fu colpita da una carestia importante anche nel 1946-47 e ad essa fa giustamente cenno il professor Cinnella nel suo testo, peraltro dedicato alla carestia degli anni '30.
Luigi Mariani
Docente di Storia dell' Agricoltura Università degli Studi di Milano-Disaa, condirettore del Museo Lombardo di Storia dell'Agricoltura di Sant'Angelo Lodigiano. E' stato anche Docente di Agrometeorologia e Agronomia nello stesso Ateneo e Presidente dell’Associazione Italiana di Agrometeorologia.
Quando negli anni 1950 raccontavi questa storia ti rispondevano che era solo propaganda antisovietica, mentre se glielo ricordi ora la stessa gente ti risponde che è "impossibile giudicare un altro contesto storico".....
RispondiEliminaCi hanno abbindolato per bene e per decenni con ben altre storie...
RispondiEliminaLa ringrazio per una pubblicazione del genere, unica cosa che nella pubblicazione si parte dai presupposti sbagliati fin dall'inizio, magari non è stato fatto apposta ma per l'uso dei materiali redatti in Russia che sono maestri di manipolazioni.
RispondiEliminaPer esempio è SBAGLIATO
"che l’ultima grande carestia fu quella che colpì svariati territori dell’Unione Sovietica nel 1932-33. Tale carestia fu conseguenza di alcune annate di cattivi raccolti cui si aggiunse tuttavia l’inflessibile volontà di Stalin di spazzar via la proprietà privata nelle campagne introducendo l’organizzazione collettiva in colcos."
perché L'ULTIMA CARESTIA ha avuto luogo nel 1945-47.
1932-33 erano gli anni in cui LA RACCOLTA ERA SOVRABBONDANTE
che la carestia era un GENOCIDIO DEGLI UCRAINI e non che scrivono da mosca...
Gentile lettore,
RispondiEliminaha perfettamente ragione nel dire che c'è stata anche la grande carestia del 1945-46 e ammetto la mia responsabilità per averla trascurata nel mio commento. Pertanto ho chiesto a responsabile del sito di modificare l'incipit in modo da risolvere il problema da lei sollevato, segnalando anche in una nota a piè pagina che il professor Cinnella nel suo libro, che pure è dedicato agli eventi degli anni 30, fa giustamente cenno anche alla carestia del 1946-1947 e lo fa nel capitolo dedicato alle testimonianze (pag. 257) ove scrive fra l'altro che: "L'indagine, … non fu facile sia per l'età avanzata dei testimoni interrogati (i quali a volte, avendole vissute entrambe, confondevano la carestia del 1932-1933 con quella del 1946-1947) sia per il greve retaggio del periodo sovietico, che pesava ancora tanto da indurre alcuni intervistati a chiedere che non fosse palesata la loro identità...".
Cordiali saluti.
Luigi Mariani
Gentile signor Mariani,
EliminaLe sono molto riconoscente per la risposta e per lavoro che Lei sta portando avanti.
ci sono molti testimoni, ovvio che adesso molti ne sono nel mondo dell'al di là, però ci sono anche numerose testimonianze che sono state già registrate sia sulle cassette sia trascritte e sono già all'estero per proteggerle per futuro, evitantone la distruzione dagli agenti.
Comunque, lasciando stare le testimonianze, per fare l'articolo più chiaro, bisogna aggiungere le informazioni cosa ha fatto dopo l'Unione Sovietica con i terrreni spopolati!
La gente che ora strilla "Putin pamagi" è stata tutta movimentata nei convogli nel 33 nei villaggi spopolati dalla carestia.
Ecco le statistiche 1933:
Nella regione di Odessa sono stati portati:
dalla regione di Gorki - 141 convoglio.
Dalla Bielorussia - 68 convoli.
Nella regione di Dnipropetrovsk.
dalle regioni dell'ovest della russia - 125 convoli.
Nella regione di Kharhiv, dalle regioni centrali di russia - 188 convoli.
Nella regione di Donetsk dalla regione di Ivanovo - 147 convoli
ormai ora non se ne parla....
Si pensa che siano morti quasi 800.000 contadini obbligati alla castrazione del frumento per permettere a Lyssenko di portare avanti le sue teorie sulla ereditarietà dei caratteri acquisiti. Infatti voleva far acquisire al frumento una resistenza al freddo fino a quasi renderlo una pianta perenne e poter andare a produrre nelle estensioni a latitudine più settentrionale.
RispondiElimina