venerdì 5 agosto 2016

Dieta mediterranea: celebriamo la chimera svanita



di Antonio Saltini


Riflessioni su un’audizione a Palazzo Madama

 



Storia di un’illusione geniale

Realizzata l’Unità piemontese l’agricoltura italiana costituiva, e appariva clamorosamente, la Cenerentola delle agricolture europee: un ceto di possidenti (patrizi e borghesi) di ineguagliabile ignoranza e avidità, rappresentato idealmente dal senatore Stefano Jacini, coordinatore della vanamente lodata Inchiesta parlamentare sulle classi agricole, manteneva le campagne nella più totale arretratezza e nella più indegna miseria per non reinvestire una sola lira di quanto strappava alla terra imponendo all’immensa popolazione contadina fatiche bestiali e condizioni di vita disumane. Eppure anche tra proprietari e fattori più retrivi ardeva la certezza del futuro opulento delle campagne italiane, che avrebbero, domani o dopodomani, sommerso il Pianeta delle proprie straordinarie specialità: vini, conserve, frutta e ortaggi di qualità irrealizzabili in ogni diverso paese del planisfero.
Avesse avuto il convincimento le fondamenta più solide, era palesemente inverosimile che potesse essere realizzato da chi non avrebbe mai dotato il mezzadro di una falciatrice a traino equino siccome la spesa avrebbe impedito l’acquisto di un doppiopetto o l’abbonamento a un palco a teatro.
Singolarmente, il convincimento della classe agraria più sordida d’Europa aveva, obiettivamente un fondamento, di cui si impegnò alla realizzazione il manipolo di politici ed economisti che fondò, nel 1892, la Federazione Italiana dei Consorzi Agrari, creatura di una cultura radicalmente diversa da quella di possidenti borghesi e latifondisti patrizi, la cultura di un’élite di uomini politici ed economisti di matrice verosimilmente massonica (un’élite massonica che nulla aveva in comune con la massoneria del grande maestro Frapolli, la massoneria fortunata che poté perpetrare il saccheggio edilizio di non una ma di ben due nuove capitali).
Fu nel 1905, quindi tredici anni dalla fondazione, che i responsabili delle branche provinciali del sodalizio si riunirono nella sede piacentina dell’organismo in un consesso presieduto dall’autentico ispiratore del manipolo, il senatore padovano Luigi Luzzatti, per discutere il progetto di un piano per l’esportazione coordinata delle specialità alimentari italiche, per realizzare il quale Luzzatti, in quanto uomo di governo non ignaro di computi di bilancio, proclamò essere necessario uno stanziamento di 50 milioni di lire, cifra allora astronomica. Ma Luzzatti sapeva che sulla competenza e la dedizione dei direttori dei consorzi agrari si poteva contare, e che gli esiti positivi avrebbero iniziato a incrinare la cieca fede di proprietari patrizi e borghesi nel prodigioso effetto della fame contadina per ingrassare il padrone.

Un grande piano, cento conati falliti 
Tragicamente il quadro internazionale sarebbe rapidamente, e radicalmente, mutato: due guerre catastrofiche si sarebbero succedute in tempi lampo: dopo la prima della Federazione si sarebbero impadronii i gerarchi fascisti, disinteressati delle specialità agricole, interessati alla produzione del frumento necessario alla riconquista dell’impero di Roma, dopo la seconda ne sarebbero divenuti padroni i proconsoli della Coldiretti, che avrebbero convertito l’organismo in gigantesca macchina per finanziare la grande corruzione politica secondo un piano che qualche studioso del periodo reputa nessun politico italiano fosse tanto intelligente da concepire senza qualche prezioso suggerimento dell’onorevole Giulio Andreotti. Unica condizione, secondo più di un critico, che i satrapi della Coldiretti, la cui legione sarebbe stata affidata a Paolo Bonomi, fossero adeguatamente avidi, disonesti e ciecamente obbedienti: un modello di uomo tanto abbietto da renderne il reperimento oltremodo arduo, che cronisti numerosi sostengono essere stati reperiti, con facilità, a tutte le latitudini della Penisola: un’asserzione tanto inverosimile da dover essere cestinata tra le cento prove di saccenza degli storici.
A dubbiosa prova dell’asserzione, restando sul terreno delle glorie future dell’export di specialità italiane, la creazione di centrali agrumarie e di cantine sociali in Sicilia, finanziate, prima di ogni appello alle urne, con decine di miliardi statali. Siccome, peraltro, nessun agricolture avrebbe mai consegnato ai medesimi sodalizi un carretto di limoni, un anno dopo la fondazione i libri sociali del consorzio agrumario venivano consegnati in Tribunale. Le glorie dell’esportazione italiana potevano attendere, secondo gli strateghi di Palazzo Rospigliosi, la prossima tornata elettorale.

La dieta “mediterranea” 
Medici ed antropologi non avevano mancato di rilevare, fino dall’alba del Novecento, la particolarissima combinazione degli alimenti costituenti la dieta dei popoli delle coste del Mediterraneo, che divenne, per le scienze mediche, oggetto precipuo di studio in corrispondenza alla drastica contrazione calorica registratasi, tra popolazioni generalmente povere, come conseguenza della guerra. Il tema divenne oggetto di autentiche ricerche nutrizionistiche negli anni Cinquanta, a opera di un fisiologo e epidemiologo statunitense, Ancel Kys, che rilevò che un’alimentazione fondata sui cereali, col complemento di olio d’oliva, vino e verdure, determinasse, in Grecia, nell’Italia Meridionale e sulle coste meridionali del Mediterraneo, un tenore medio di colesterolo tanto esiguo da imporre la dieta dell’area mediterranea quale autentico modello antitetico alla dieta americana, fondata sulla carne ed i grassi animali, che l’esplosione del benessere stava diffondendo in tutti i paesi dove, dopo le sciagure belliche, l’economia si ristabiliva e la disponibilità di beni di consumo, lentamente ma inarrestabilmente, si dilatava e si consolidava. Fu l’esplosione di una moda, studi, volumi e prontuari, cuochi che acquisivano la sognata fama propinando ceci e fagioli al prezzo di una steack del Minnesota.
Era, per l’Italia, l’occasione di imporsi quale centro di propagazione dello stile alimentare del futuro, la realizzazione del sogno coltivato, seppure, allora impossibile, dagli agricoltori italici dotati di fantasia (o lungimiranza). L’apice del successo della dieta calabro-campana sarebbe stato toccato dall’inserimento del suo codice culinario, da parte dell’Unesco, nei beni immateriali inclusi nel patrimonio della cultura umana. Alla solenne dichiarazione, a chi rilevasse che la dieta prodigiosa (bene immateriale) non mancava di ingenti valenze materiali, che avrebbero potuto innescare un business fantasmagorico, qualsiasi osservatore sensato poteva rilevare che l’Italia aveva perduto, irreparabilmente, la partita prima ancora di entrare in campo.
E’ a questo punto della storia che può menzionarsi un evento che non ha suscitato l’interesse della grande stampa nazionale (peraltro correa del fallimento): l’audizione che, il recente 21 giugno, la Commissione agricoltura del Senato ha voluto realizzare invitando, in occasione del dibattito su un provvedimento che dispone la divulgazione dei cardini della “dieta mediterranea”, tre docenti di materie agrarie notoriamente critici impietosi di ministri e sottosegretari all’Agricoltura degli ultimi venticinque anni: Francesco Salamini, genetista, Tommaso Maggiore, agronomo, Antonio Saltini, storico delle conoscenze scientifiche che sono confluite nell’agronomia moderna.

Dai nani ai ciclopi 
Assente Salamini, indisposto, Maggiore e Saltini hanno narrato una storia di semplicità (e drammaticità) sconcertanti. La “dieta mediterranea” è stata l’occasione, unica e irripetibile, di realizzare i sogni antichi (e nebulosi) di primato agricolo nazionale. La sola condizione: fare dell’Italia l’autentico polo del progresso ortofrutticolo mondiale. Esisteva in Italia, hanno ricordato, una molteplicità sconfinata di generi, specie e cultivar orticole e frutticole. Mille piccoli vivaisti tutelavano, alle diverse latitudini e ambienti della Penisola, un carciofo, un’albicocca, un pomodoro. Diligenti, operosi, tutti in competizioni con tutti i colleghi. Sviluppandosi gli scambi entro la Comunità Europea, dagli anni Settanta il loro piccolo patrimonio suscitava l’appetito dei piccoli sementieri olandesi, titolari di aziende di dimensioni non enormemente superiori, ma eredi di una tradizione radicalmente diversa di collaborazione con la scienza, di marketing razionale, di cooperazione di settore. Uno ad uno i mille piccoli sementieri italiani, incapaci di concorrenza, vendevano a un operatore non molto maggiore di loro le proprie varietà, consentendogli di costituire un patrimonio che qualche anno più tardi avrebbe interessato qualcuna delle prime società sementiere internazionali, che per ampliare la propria gamma acquistavano da un piccolo operatore olandese un pomodoro campano, un susino lucano, un radicchio emiliano. Vent’anni più tardi la concorrenza tra le prime entità internazionali si sarebbe convertita nello scontro tra i titani multinazionali, nessuno dei quali avrebbe mai pensato di riunire, sotto le proprie ali, in un confuso pollaio, gli uomini del pomodoro, quelli delle pere, quelli delle carote, ma avrebbe riunito in una perfetta piramide la piccola o media azienda specializzata nei pomodori campani, quella specializzata nei carciofi toscani, quella nelle carote del Fucino.
A rendere visivamente drammatico il quadro delle connessioni, Saltini e Maggiore proiettavano i diagrammi predisposti, con competenza inarrivabile, dal comune amico Alberto Guidorzi. Frutto di trent’anni, ormai, di politica delle acquisizioni, i giganti, Monsanto, Bayer, Syngenta, non possiedono una società specializzata in piselli e una in cipolle, ma dieci nella prima specie, che nei continenti diversi richiede peculiarità diverse, e dieci, per la medesima ragione, nella seconda. 

Diagrammi gentilmente forniti da Alberto Guidorzi:

Quote di mercato     DuPont      Bayer      Syngenta     Monsanto     Dow  

L’ortolano italiano che custodiva gelosamente i segreti del proprio San Marzano, ma che, di fronte all’avvento di un virus, era assolutamente impotente, ha venduto, per una manciata di lire, a una cooperativa olandese, che ha saputo risolvere qualche problema ma non tutti, e ha realizzato un affare vendendo a chi era in grado di affrontare, organicamente, tutti i problemi di quella pianta. Il cultore di storia della “civiltà contadina” può lacrimare rimpiangendo i tempi in cui quel sedano era italiano, ma siccome la “civiltà contadina” non ha mai saputo estirpare un virus da un peperone, o rimediare alla radicata incapacità di un asparago a una siccità prolungata, il nostalgico può ancora produrre e portare al mercatino “contadino” peperone e asparago e vuotare il cassoncino dell’Ape (Vespa con rimorchio) mentre i supermercati cittadini fagocitano autotreni interi dei due ortaggi, di cui il maquillage in laboratorio ha raddoppiato la produttività e triplicato la resistenza, con l’aspetto del fiore appena reciso, su un banco di vendita.
E si deve sottolineare che i mille Che Guevara da giostra infantile che proclamano che siamo stati derubati trasudano ignoranza e malafede, siccome all’Europa sarebbe stata sufficiente una riunione ministeriale a Bruxelles, e lo stanziamento di cifre adeguate, per creare una consociazione di organismi specializzati (indivie, zucchine, fagioli, ciliege ecc., ecc., ecc.) perfettamente in grado di competere con Monsanto & c., ma sono stati loro, gli elettori inossidabili di premier che garantissero ministri dell’agricoltura avversi, per opportunismo, alla scienza e alla tecnologia, a impedire che quella riunione si tenesse, e che nella Cee potesse svilupparsi un “mostro” di modello americano.
Per la cronaca l’audizione alla Commissione del Senato si è conclusa, tra relatori e auditorio, con mute, non per questo meno calorose, strette di mano. I diagrammi del dott. Guidorzi avevano dimostrato, in modo assolutamente incontrovertibile, che la battaglia era, per sempre, perduta. Accendendo il dubbio, nell’osservatore che conosce il mondo, che i direttori di giornale che hanno strillato più vigorosamente, in trent’anni, contro il trionfo delle multinazionali, ricevessero da Chicago, ogni Natale, una carotina d’oro o un cavolfiore d’argento.





Antonio Saltini 
Docente di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento agricolo, Terra e Vita. E' autore della Storia delle Scienze Agrarie opera in 7 volumi.  www.itempidellaterra.com (qui).

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