di Alberto Guidorzi
Foto 1- zuccherificio Rignano |
e la creazione del
Mercato Comune Europeo
Prima puntata:
Le piante saccarifere industriali e la loro storia
Seconda puntata:
La produzione dello zucchero nel mondo fino al consolidamento
Seconda puntata:
La produzione dello zucchero nel mondo fino al consolidamento
Quarta puntata
Quinta puntata
Sesta puntata
Da questa puntata inizia l’analisi dei motivi e degli errori fatti dall’interprofessione bieticolo-saccarifera italiana, supportata anche da scelte politiche cieche, che col tempo han portato allo smantellamento del settore zucchero nel nostro Paese. Si dimostrerà inoltre che chi dice che l’UE ci ha imposto la chiusura degli zuccherifici dice il falso e spesso vuole solo coprire responsabilità enormi sul “redde rationem” avvenuto nel 2006.
Organizzazione del mercato ed evoluzione
Nel 1968, anno in cui entrò in vigore il Mercato Comune Agricolo Europeo, fu emanata la prima Organizzazione Comune del Mercato dello zucchero, conosciuta in sintesi come OCM-zucchero e che fu l’unica OCM che interessò solo 5 paesi fondatori: due eccedentari (Francia e Belgio), due in pareggio (Germania e Olanda) ed uno deficitario (Italia). Il clima di partenza della CEE fece sì che si trovasse un compromesso per salvaguardare la produzione bieticola delle zone meno vocate senza penalizzare troppo le zone produttive più avanzate. Ne uscì un sistema di prezzi garantiti nell’ambito di un contingentamento di quote di produzione nazionali dei zucchero. Le quote di produzione erano di due tipi: quota “A” detta anche “quota base” (zucchero pagato a prezzo pieno e che intendeva pressapoco assicurare i consumi calcolati di ogni Paese Membro) e quota “B” (zucchero pagato a prezzo diminuito da un prelievo comunitario usato per il funzionamento del MEC-zucchero). La quota B fu immaginata come valvola di sicurezza per i paesi con le bieticolture più performanti ed era fissata in percentuale rispetto alla quota A. Della produzione di tipo B era comunque assicurato lo smaltimento o lo stoccaggio sovvenzionato. Tutto il restante zucchero che veniva prodotto da uno Stato membro, ma eccedente queste due quote, ed impropriamente definito di quota “C”, doveva essere esportato sul mercato mondiale a prezzi molto bassi. Ad un 20% di zucchero eccedentario (calcolato sull’ammontare della quota A+B) veniva concesso di essere immagazzinato con costi sovvenzionati, al fine di riportarlo a defalco della produzione dell’anno successivo (zucchero “C1”).
Con il sistema qui solo delineato per sommi capi e per i plafond produttivi imposti si crearono comunque degli scompensi rispetto alla produzione bieticolo saccarifera pregressa: i Paesi superproduttori dovevano sacrificare una parte della loro produzione storica e diminuire la superficie coltivata, mentre ai paesi con un deficit produttivo (caso dell’Italia) era data possibilità di:
- intensificare la produzione nazionale con incentivi, concedendo aiuti nazionali sia al settore agricolo che a quello industriale,
- applicare parametri di pagamento della materia prima diversi.
In base a quanto sopra l’Italia riceveva aiuti comunitari e al contempo poteva sovvenzionare la sua bieticoltura con aiuti nazionali. Malgrado queste sovvenzioni l’Italia non riuscirà però ad aumentare la sua produzione di zucchero e dimostrerà, a fine validità del primo regolamento dell’OCM-zucchero del 1975, di non saper produrre nemmeno la quota A assegnata. Infatti il nostro Paese non si scostò dai 9/10 milioni di t quando ne poteva produrre 12,3 e le superfici nel 1974 si attestarono su 180.000 ha solamente. Le ragioni erano da ricercare nei prezzi della bietola poco remunerativi se rapportati alla quantità e qualità della produzione unitaria media italiana. In altri termini i prezzi comprensivi degli aiuti non erano sufficienti a compensare la nostra scarsa produttività in peso delle radici e in titolo zuccherino. Ad onor del vero scontavamo una obiettiva penalizzazione climatica, resa più acuta dalla nostra arretratezza genetica e agronomica.
L’OCM, che stabiliva il prezzo della bietola come percentuale (60%) del prezzo de prodotto finito zucchero, fu concepita per non costare nulla al bilancio comunitario in quanto si previde un’autotassazione del settore per sostenere i costi del sistema. Tuttavia il meccanismo produttivo si reggeva sul mantenimento dei prezzi al consumo elevati al fine di poter proteggere la filiera dalla concorrenza della canna da zucchero. Quindi il meccanismo era autofinanziato, ma solo perché si mantenevano prezzi elevati al consumo. Sono quindi ancora una volta i consumatori a pagare per poter avere la sicurezza del rifornimento di zucchero nell’ambito comunitario. In altri termini, la produzione totale di zucchero fissata in sede comunitaria e volta a soddisfare i consumi venne suddivisa tra i Paesi Membri e questi ultimi la concedevano ai gruppi saccariferi nazionali a soddisfacimento del loro potenziale produttivo. Le quote di produzione zucchero ricevute in concessione (si badi bene: gratuitamente!) diverranno praticamente patrimonio di uno zuccherificio o gruppo finché questo le avesse prodotte. La gestione delle quote nazionali era lasciata alle decisioni interne di ogni singolo paese. Tuttavia, dato che per fare zucchero occorreva “macinare” le radici delle bietole, anche le aziende agricole produttrici avrebbero avuto il diritto di pretendere che la loro produzione bieticola andasse a costituire in modo stabile un patrimonio aziendale tramite appunto delle corrispondenti “quote bietole producibili di tipo A e B”. In certi Paesi (Francia) ciò avvenne ma in Italia no; ciò, come vedremo in seguito, non invogliò mai gli agricoltori a migliorare la loro capacità produttiva, i quali producevano bietole se il prezzo era tale da compensare la loro scarsa produttività e smettevano di coltivarle se il reddito veniva giudicato non allettante. In Francia invece, oltre a patrimonializzare le aziende agricole, le quote di produzione bietole (che, si badi bene, erano collegate in modo duraturo al terreno e non al bieticoltore come persona fisica) costituirono il maggior incentivo a migliorare sempre più la produzione unitaria aziendale e ad indurre i bieticoltori a comprare in cooperativa gli zuccherifici che man mano negli anni i privati vendevano. Non solo, ma dato che parimenti allo zucchero si potevano produrre bietole di quota A, B e C, il coltivatore francese voleva sfruttare tutta la quota A e B producibile e rischiava anche la quota C (insufficientemente pagata) in quanto esso poteva riportarla all’anno dopo e farsela pagare a prezzo elevato diminuendo di un corrispondente quid le sue semine. In Italia invece non furono assegnate quote bietole agli agricoltori, ma si optò per una contrattazione annuale di quantitativi fissati in funzione dei bisogni industriali. Inoltre il prezzo era unico (detto mutualizzato) e le produzioni oltre la quantità contrattata erano accettate solo se lo zuccherificio ne aveva bisogno per produrre le sue quote di zucchero, differentemente, erano sottopagate e con il rischio di vedersi le bietole rimanere in campo.
Un siffatto meccanismo determinò pertanto nell’agricoltore italiano l’effetto contrario rispetto ai coltivatori francesi: in Italia il bieticoltore era terrorizzato dal vedersi rifiutare la consegna delle bietole e piuttosto che rischiare preferiva seminare meno bietole preventivamente, il che si traduceva nel fatto che, qualora la produzione fosse sta scarsa - come spesso accadeva - lo zuccherificio non avrebbe sfruttato appieno le potenzialità trasformative.
Il prezzo unico, stabilito anche per permettere agli agricoltori di pagare direttamente e non indirettamente gli oneri legati al sistema, impose la creazione di un soggetto giuridico (ABSI) per versare l’importo complessivo dei prelievi di parte agricola (il 60%) ed un Fondo Bieticolo Nazionale che raccoglieva gli stanziamenti di tutti i bieticoltori italiani e che andava a comporre quel 60% di cui sopra. Questi fondi, detti “accantonamenti” perché andavano a decurtare il prezzo nazionale delle bietole, erano di importo unitario unico a livello nazionale, indipendentemente da dove si consegnavano le bietole e dal fatto che queste generassero o meno eccedenze di zucchero nello zuccherificio che le trasformava.
L’Italia, come detto sopra, ottenne fin dall’inizio di corrispondere un sovrapprezzo alle bietole sotto forma di “aiuti d’adattamento” che furono nel tempo adeguati in valore ed in quantità. Inoltre il parametro di pagamento della materia prima in funzione della ricchezza zuccherina fu adattato all’Italia dove le bietole avevano contenuti zuccherini medi già inferiori in assoluto a quelli del nord Europa e che per di più andavano purtroppo calando nella seconda parte della raccolta. In Italia infatti il prezzo delle radici aumentava proporzionalmente man mano che crescevano i contenuti percentuali di zucchero e questo iniziava già con percentuali molto basse. Negli altri Stati invece la crescita proporzionale di prezzo partiva da una certa percentuale di zucchero, al disotto della quale invece il prezzo diminuiva; in altri termini i bassi contenuti di zucchero erano penalizzati. La conseguenza fu che in Italia la produzione di radici con scarso zucchero non fu penalizzata, anzi si guadagnava di più producendo per ettaro grandi quantità di radici povere di zucchero piuttosto che meno radici ma più ricche. Al riguardo si rammenti che il peso della radice è determinato soprattutto dall’acqua contenuta, la quale diluisce i contenuti percentuali di zucchero e lo rende meno facilmente estraibile.
Abbiamo già visto che i due tipi di scelte strategiche hanno influenzato l’organizzazione di filiera: in Francia la produzione bieticola divenne più attiva, mentre in Italia la mantenne passiva. Tuttavia le conseguenze non si esaurirono qui ma influenzarono negativamente anche le scelte varietali e di tecnica agronomica. Il diverso parametro di pagamento sopra accennato portò infatti a preferire varietà che producevano grosse radici e ci si preoccupò insufficientemente del contenuto in zucchero; inoltre per aumentare la produzione ponderale si ricorse alla concimazione azotata, che però penalizzava ulteriormente il contenuto in zucchero. In altri termini tali scelte innescarono un’ulteriore perdita di competitività della nostra industria (costi di estrazione maggiore) e di tecniche di coltivazione tendenti a sfruttare la contingenza delle varie annate. Inoltre l’Italia era minata da due malattie gravemente incidenti sulla produzione, vale a dire la cercospora (foto 2, malattia tipica dei climi mediterranei e causa principale dei cali percentuali di zucchero nelle radici perché spesso mal combattuta) e la rizomania (foto 3, scoperta per la prima volta proprio in Italia e poi nel tempo diffusasi ovunque si coltivasse bietola da zucchero). Vorrei qui segnalare che la resistenza alla malattia fu scoperta da un italiano e proprio nel materiale di un nostro genetista, Ottavio Munerati, ma essa fu purtroppo sfruttata da una ditta sementiera estera.
Foto 2- Sviluppo di Cercospora nell'apparato fogliare. |
Foto 2 – aspetto delle
radici di bietola colpite dalla rizomania. Malattia che ha devastato le regioni
bieticole italiane a partire dagli anni ‘50e ‘60 e senza nessun rimedio per
molto tempo.
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Procedendo con ordine si può dire che il primo regolamento (1968/1975) che fissò la formazione dei prezzi a livello europeo e non più in ambito nazionale, comportò per l’Italia una diminuzione dei prezzi delle bietole tale, come già detto, da disincentivare la coltivazione. All’Italia venne assegnata una quota di base superiore ai livelli produttivi raggiungibili alla fine del decennio preparatorio; la quota B venne assegnata con l’applicazione di una percentuale uguale per tutti i paesi e fluttuante di anno in anno.
Il secondo regolamento del 1976/81 concesse a tutti i Paesi Membri dei sostanziali aumenti di quota, salvo che all’Italia perché appunto durante il periodo precedente pur potendo produrre 12,3 milioni di quintali di zucchero a malapena ne produceva 10 mentre i consumi andavano aumentando anche in Italia. La parte del leone la fece la Francia che si vide aumentata molto quota A e la quota B e di pari passo andarono anche gli altri paesi. All’Italia venne però concesso un congruo aumento degli aiuti nazionali di adattamento (cioè soldi pubblici presi ai consumatori italiani) che si potevano erogare e di conseguenza si originò un periodo di prezzi elevati con conseguente aumento delle superfici.
Il regolamento 1982/86 lasciò immutate le quote A per tutti i paesi salvo che per l’Italia, la nostra fu aumentata da 1.230.000 t a 1.320.000 t. La quota B invece non fu più assegnata come una percentuale fissa della quota A, ma con una quota variabile: per molti fu del 10%, per l’Italia del 19%, mentre per i paesi con più potenzialità produttive fu del 30%. Il contributo alla produzione introdotto per pagare le spese d’esportazione delle eccedenze e che era pagato in solido da saccariferi e bieticoltori, venne applicato per una piccola percentuale anche sulla quota A mentre prima gravava solo sulla quota B. La modifica comportò l’introduzione del principio della “corresponsabilità finanziaria totale”, il che fece sì che tutti i produttori comunitari e non solo quelli che producevano eccedenze avrebbero pagato il contributo. Le superfici tornarono così a flettere per i prezzi calanti in conseguenza dei maggiori oneri.
Successivamente furono emanati ulteriori regolamenti che fino al 2001 lasciarono grosso modo le cose immutate rispetto a quanto descritto. Nell’ultimo regolamento, prima della riforma del 2006, iniziarono delle penalizzazioni per il settore: decurtazioni di quote, mancato rimborso delle spese di stoccaggio e, per l’Italia, fine degli aiuti di adattamento per i comprensori bieticoli del Nord e del Centro.
I prezzi e gli incentivi che regolavano il settore erano di tre tipi:
- per lo zucchero vi erano il “prezzo indicativo” che era un prezzo ottimale teorico sulla base della domanda/offerta del mercato. Il “prezzo d’intervento” che era il prezzo minimo garantito a cui gli organismi d’intervento nazionali dovevano acquistare lo zucchero e che poteva essere “regionalizzato”, nel senso che i paesi riconosciuti deficitari potevano aumentare il prezzo (il sovrapprezzo era interamente incassato dai bieticoltori) di una somma pari al costo teorico di trasporto dello zucchero tra la zona più eccedentaria a quella più deficitaria della Comunità e il “prezzo soglia” che regolava gli scambi con i paesi terzi ed assicurava la preferenza comunitaria;
- per le bietole i prezzi erano pure tre e cioè il “prezzo Base” che era una componente del prezzo d’intervento dello zucchero in un rapporto percentuale del 60% ed era fissato per 100 kg di radici a 16° di polarizzazione (per titoli zuccherini diversi si applicava un parametro di conversione che per l’Italia inizialmente era specifico, data appunto la diversa qualità della materia prima italiana ed il cui meccanismo abbiamo spiegato sopra), il “prezzo minimo A” e il “prezzo minimo B” che erano rispettivamente i prezzi per le bietole A e per le bietole B dedotti delle rispettive tasse di corresponsabilità. Si è già visto che questi ultimi l’Italia li medierà in un prezzo “mutualizzato”, appunto perché agli agricoltori non vennero assegnate delle quote di produzione distinte pluriennali, ma di anno in anno in funzione di una contrattazione.
Gli aiuti d’adattamento, riconosciuti all’Italia e via via adeguati in aumento per effetto delle svalutazioni della lira e, come indica la denominazione stessa, avevano insito in sé il requisito di “temporaneità”; erano infatti finalizzati al superamento del nostro gap produttivo entro un certo periodo di tempo e pertanto dovevano ritenersi provvisori, mentre in Italia, consci del fatto che la bieticoltura italiana sarebbe sempre stata handicappata dal clima, si cercò di rivendicarli come duraturi.
Si vedrà che in sede comunitaria si concessero finchè fu tempo di vacche grasse, ma se ne rivendicò la temporaneità quando le cose cominciarono a cambiare. A questo proposito vi è un’altra constatazione da fare e che non fu esente da conseguenze negative sulla filiera italiana: al fine di tentare di ottenere la perennità nell’elargire gli aiuti d’adattamento si “escogitò” di dichiarare superfici seminate superiori al reale al fine di dimostrare, con dei dati statistici di produttività inferiori alla realtà, il nostro bisogno perenne di sostenere economicamente la nostra bieticoltura. Tuttavia non si rifletté fino in fondo sulle conseguenze di una strategia del genere avrebbe ingenerato nell’immaginario della burocrazia di Bruxelles e cioè il rafforzamento della convinzione che la marginalità della filiera italiana fosse irrimediabile, il che costituirà il tema conduttore, come vedremo, per la definizione della riforma dell’OCM zucchero del 2006.
Con l’OCM-zucchero 1983 i prezzi garantiti comunitari vennero però congelati in quanto le eccedenze produttive generate dai paesi eccedentari, ma non dall’Italia, cominciarono ad essere eccessive. Fu a partire e quindi da tale data che la redditività agricola e industriale restò legata al solo progresso produttivo e tecnologico. Per l’Italia giocò invece un fattore specifico particolare, che forse fu il solo a salvaguardare la permanenza della coltura e della trasformazione da noi nei periodi successivi e che era insito nei meccanismi agri-monetari: i prezzi erano fissati ogni anno nella moneta di conto europea che si rivalutava o si svalutava in funzione delle mutate parità delle varie monete nazionali. In altri termini se la moneta italiana svalutava, com’è sempre stato il caso, la “lira verde” (così si chiamò la moneta di conto europea in Italia) si rivalutava. Si voleva con ciò impedire di rendere più concorrenziali i prezzi delle produzioni agricole dello Stato che svalutava, ma ciò causava un aumento dei prezzi interni delle produzioni agricole dello Stato che svalutava. Con questo meccanismo i prezzi delle bietole italiane crescevano ad ogni svalutazione competitiva che si decideva. Si sono avuti casi in cui i prezzi salirono al punto tale da far ritenere conveniente operare degli accantonamenti supplementari gestiti dal Fondo Bieticolo Nazionale. Qui, anni dopo, si assisterà alla “privatizzazione” dei soldi pubblici accantonati di cui beneficiarono solo alcuni fortunati o con le mani in pasta.
Possiamo dunque ancora una volta affermare che il gioco degli aumenti di prezzo periodici delle derrate agricole in Italia funse più da “droga” che da incentivo finalizzato al miglioramento della produttività in bieticoltura. Gli Stati invece che non svalutavano la loro moneta, mantenendo lo stesso livello di prezzo, dovevano impegnarsi ad aumentare le unità prodotte per unità superficie al fine di mantenere adeguati i ricavi. Pertanto le variazioni in aumento delle superfici italiane a partire dal 1974 e pure i ciclici declini, sono da interpretare più un effetto del variare dei prezzi che non di acquisite performances produttive della coltura.
Conseguenze sulla filiera
Cosa ne è stato dell’Industria saccarifera in questo periodo? Innanzitutto dagli 82 stabilimenti del 1957 si era scesi a 74 alla data di entrata in vigore delle normative comunitarie. Da tale data il numero degli stabilimenti andò sempre calando mentre contemporaneamente aumentava la potenzialità dei rimanenti, il che invertì la tendenza dei 70 anni precedenti. All’entrata in vigore delle normative comunitarie gli stabilimenti in funzione avevano una produttività media unitaria di sole 16.000 t di zucchero per stabilimento, mentre le medie europee erano di 28.000. Tra il 1968 ed il 1980 vennero chiusi 25 zuccherifici e la produzione unitaria salì a 36.000 t. Tuttavia in Italia vi era un elemento oggettivo che limitava le potenzialità trasformative delle fabbriche e che era dato dalla caratteristiche dei terreni in cui si coltivava la bietola i quali, essendo in prevalenza argillosi, mal sopportavano escavi e conseguenti lavorazioni in periodi piovosi; in altri termini fabbriche con limitati potenziali avrebbero dovuto allungare troppo le campagne di lavorazione e quindi anche i tempi degli escavi, mentre fabbriche a troppo alti potenziali di lavorazione avrebbero ridotto troppo i periodo di lavorazione ed avrebbero reso insopportabili i costi fissi. All’estero invece si chiusero meno fabbriche, si aumentò a 57.000 t di zucchero la media produttiva per stabilimento e si allungarono i periodi di trasformazione (i terreni più sciolti sopportano meglio gli escavi autunnali) e dunque lo strumento industriale divenne più competitivo. Peraltro il periodo in esame vide anche l’introduzione di sistemi più aggiornati per la depurazione dei sughi con conseguente incremento delle rese di estrazione.
In base ai confronti che si sono delineati furono in molti a chiedersi se gli aiuti di adattamento elargiti agli agricoltori con denaro pubblico fossero serviti più a mantenere in vita impianti fuori mercato che a premiare le scelte industriali più coraggiose. Questa considerazione era supportata anche dal comportamento di molte società saccarifere che cercavano di accaparrarsi il prodotto a tutti i costi pur di sopravvivere; si assistette a sovrapprezzi pagati sottobanco, alla perdita di validità del contratto bietole (le bietole si seminavano sotto contratto, ma poi si davano al miglior offerente quando iniziava la campagna ed alcuni zuccherifici erano a corto di materia prima) e anche il mercato del seme si liberalizzò sottraendosi al controllo degli zuccherifici.
Fino agli anni 70 furono costruite le seguenti nuove fabbriche (mentre in seguito non ne sarebbero più state costruite): Minerbio, Ostellato, Contarina, Russi, Forlimpopoli, S. Quirico, S.Pietro in Casale-Eridania, Argelato, Castiglion F., Celano, Fano, Fermo, Termoli, Rignano G., Rendina, Incoronata e Strongoli. La costruzione di nuovi stabilimenti al sud si legò in particolare all’affermarsi della bieticoltura nelle Puglie per effetto dell’organizzazione dell’irrigazione del Tavoliere e più in generale alla possibilità di effettuare la semina autunnale delle bietole grazie alla creazione di varietà molto meno sensibili alla salita a seme al secondo anno per effetto delle basse temperature. Tuttavia questa nuova bieticoltura fu da subito molto meno competitiva rispetto a quella del Nord Italia e sono quindi immaginari le condizioni di inferiorità in cui si venne a trovare rispetto alle filiere del Nord dell’Europa.
Alberto Guidorzi
Agronomo. Diplomato all' Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureto in Scienze Agrarie presso UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni presso la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia ; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.
Agronomo. Diplomato all' Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureto in Scienze Agrarie presso UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni presso la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia ; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.
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