giovedì 21 luglio 2016

Pagare le tasse è (ancora) dovere morale?

 di Antonio Saltini


" La notte della Repubblica"
Pagare le tasse ha costituito dovere morale in tutte le società civili. Imporne il pagamento è stato, invece, mera sopraffazione nelle società rette da despoti che governavano nell’assoluto disprezzo di qualunque consenso dei sudditi.
La norma è sancita dal Vengelo medesimo: “Date a Cesare quello che è di Cesare, date a Dio quello che è di Dio”. Il potere romano sulla Palestina non era potere di emanazione popolare, ma si può sottolineare che la straordinaria capacità di governo dell’Impero assicurava l’ordine, promuoveva gli scambi, un beneficio di cui il popolo ebreo si avvaleva, date le ataviche propensioni mercantili, più di altre nazioni assoggettate. La devozione israelita ai legami familiari consentiva l’apertura di filiali di commercio di ogni genere, in particolare quello del denaro (col cambio delle valute) di cui gli eredi di Abramo si avvalevano proficuamente. Si può ricordare la straordinaria prosperità della comunità di Alessandria, centro dell’economia dell’intero Oriente.
La democrazia nasce, in Inghilterra, quando i baroni impongono che ogni nuovo prelievo statuito dal monarca sia sancito dal loro voto assembleare. L’aristocrazia francese si suicida, invece, protraendo un livello di consumi sproporzionato alla produzione di ricchezza in una società dotata di risorse ingenti, presente, per di più, nei grandi scambi internazionali. Economisti illustri (Turgot) tentano il riassetto del bilancio statale, il ceto patrizio-cortigiano rifiuta ogni contenimento delle spese a proprio favore, il monarca convoca gli Stati Generali senza rendersi conto di quanto l’opera dei philosophes (i nipotini di Rousseau)abbia influito sui convincimente del crescenti ceto borghese: gli Stati Generali saranno la tomba del glorioso assolutismo francese (e di chi ne godeva i benefici).
E’ con questi dati storici, e con  quesiti etici, che chi scrive si confronta ogni volta che, ciò che avviene con frequenza crescente, incontra l’artigiano incerto se chiudere bottega siccome le tasse non gli lasciano più alcun margine per rinnovare le attrezzature più modeste, per cambiare l’utilitaria, per risparmiare, passione antica del ceto medio nazionale, e comprare un buono postale.
Settima potenza industriale del Globo, come vantava, ad ogni telegiornale, Giuseppe Saragat, l’Italia si è eclissata dal novero dei paesi industriali, dal tempo dei governi di sua eccellenza Bettino Craxi ha continuato a vedere la propria economia contrarsi, le aziende espatriare in un diluvio sempre più incontenibile, i giganti stranieri comprare tutto quello che poteva essere smontato e portato in lidi lontani (un commercio che ha avuto la propria anima nelle prodigiose doti di promotore di vendite del professor Prodi), mentre gli Italiani hanno accettato felici i programmi di governo del cavalier Berlusconi, che assicurava quanto per la nazione era veramente essenziale: la televisione delle “belle e sceme” e stadi affollati.
Televisione e glorie calcistiche sono, in realtà, le illusioni ammannite agli eredi degli antichi cives romani (quelli del panem et circenses) per evitare loro l’incomodo di pensare. A pensare “pensava” il Grande Fratello, al quale di bilanci interessava solo quello del proprio impero: pereat mundus purché trionfi Mediaset.
Dopo Berlusconi, inevitabilmente, il nulla. Non è certamente verità arcana che, dall’alba della Repubblica, il potere di alcuni giganti della politica nazionale consistesse nella mediazione tra mafie, cosche e camorre (o partiti convertiti in camorre), ma fino ad una certa data (supponiamo gli anni Settanta) in Parlamento sedevano ancora persone capaci, più di una (nei limiti del possibile), persino onesta. Ma dopo una successione pressochè ininterotta di premier assolutamente convinti che l’autentico potere consistesse nella mediazione tra cosche concorrenti, la selezione del ceto politico è avvenuta per le provate attitudini del candidato a inquadrarsi nella logica di sette e consociazioni mafiose. 
Siamo governati, ormai, da un ceto politico di squisita cultura ottomana: giuro fedeltà a un emiro che, se lo meriterò, mi farà ricco. Il segno più evidente della cultura ottomana di chi ci governa è la completa dissoluzione di qualunque distinzione tra patrimonio pubblico e patrimonio privato. L’emiro tutto può e tutto può donare. Pascià e califfi arricchiscono, col denaro pubblico, in relazione diretta ai servigi che rendono al padrone, che di tutto può appropriarsi a vantaggio dei propri servitori (la prova più eloquente della filosofia degli sceicchi nazionali è stata offerta dalla recente Expo: tutti i costi erano pubblici, tutti i guadagni privati). 
E, per una logica assolutamente inequivocabile, questo ceto insaziabile continua, per rendere il proprio potere ineradicabile, a consociare nuovi adepti alle proprie pretese di ricchezza: primi tra tutti i giornalisti, i più preziosi lacché di ogni tirannide (lo hanno magistralmente insegnato Goebbels, Suslov e Mussolini), i commessi, dattilografe, telefoniste e barbieri delle Camere, che intascano stipendi tre-quattro volte superiori a chiunque svolga un’attivià similare.
Possiamo convertire, quindi, la domanda iniziale in altra drammaticamente cogente: è legittimata, una classe politica cosiffatta, a imporre tasse ai sudditi? O siamo, ormai, alla palese estorsione?
Il barista che riesce, evitando di rilasciare scontrini fiscali, a mantenere aperto un locale, ad acqistare merci, a pagare il furgone che gli consegna bibite e cornetti alla nutella, a pagare un salario (metà delle tariffe di legge) a una filippina o a un’ukraina, deve essere considerato un delinquente, o un eroe che mantiene, in un paese che industriale non è più, un minimo di attività economica tra i mille esercizi che chiudono la saracinesca per sempre? Chi scrive ebbe l’onore, alla romana Sapienza, di conoscere un grande maestro di filosofia politica: purtroppo scomparso da decenni. Rimpiange di non poter rivolgere la domanda al grande studioso. Personalmente, dopo le cento conversazioni con gli artigiani che solo evadendo qualche balzello riencono ad alzare la saracinesca tutte le mattine è propenso a reputare che la classe politica che si affolla (tre giorni alla settimana) Montecitorio e Palazzo Madama, poi tutti a Cortina o Pantelleria, non abbia più alcuna legittimazione a varare tasse, che si preoccupa di accrescere solo per dilatare la taglia imposta alla nazione dal proprio ceto.

La prima inchiesta repubblicana sulla mafia fu solennemente archiviata dopo che un illustre deputato palermitano, alle obiezioni che lo dichiaravano indegno di partecipare alla Commissione di inchiesta: proclamò: “Suggnu accà pe’ diffendere i diritti mja e delli amici mja.” Che è quanto può, legittimamente, proclamare qualunque deputato o senatore dopo il voto per accrescere un balzello o un’accisa.



Antonio Saltini
Già docente di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento agricolo, Terra e Vita.
E' autore della Storia delle Scienze Agrarie, l’ultima edizione dell’opera, in sette volumi pubblicati tra il 2010 e il 2013, è ora proposta in lingua inglese "Agrarian Sciences in the West". Tale opera, per la ricchezza dei contenuti e dell'iconografia, costituisce un autentico unicum nel panorama editoriale mondiale, prestandosi in modo egregio a divulgare in tutto il mondo la storia del pensiero agronomico occidentale.

1 commento:

  1. Ma come Antonio ti rifiuti di pagare le tasse, ma non ti vergogni c'è da finanziare questo ambizioso piano cerealicolo:
    - Fondo da 10 milioni di euro inserito nel decreto legge enti locali. Si tratta di un primo stanziamento per dare avvio a un organico piano nazionale cerealicolo e sostenere investimenti anche infrastrutturali per valorizzare il grano di qualità 100% italiano.
    - Creazione di una Commissione unica nazionale per il grano duro. L'obiettivo è favorire il dialogo interprofessionale e rendere più trasparente la formazione del prezzo.
    - Conferma degli aiuti accoppiati europei Pac per il frumento che equivalgono a circa 70 milioni di euro all'anno fino al 2020 per quasi 500 milioni investiti nei sette anni di programmazione.
    - Rafforzamento dei contratti di filiera, per proseguire negli investimenti che hanno visto 50 milioni di euro impiegati dalla filiera cerealicola. I nuovi bandi in autunno prevedono un budget totale di 400 milioni di euro (metà in conto capitale e metà in conto interessi) ai quali potranno attingere anche i progetti legati al grano.
    - Marchio unico volontario per grano e prodotti trasformati, per dare maggiore valore al grano di qualità certificata, che rispetti il disciplinare del sistema di qualità della produzione integrata e risponda a determinati requisiti organolettici.
    - Sperimentazione dalla prossima campagna di un nuovo strumento assicurativo per garantire i ricavi dei produttori proteggendoli dalle eccessive fluttuazioni di mercato. Un modello innovativo che è allo studio e che verrà presentato alla Commissione Ue per il via libera.

    Torniamo a parlare sul serio!

    Ma come si può pensare di risollevare una filiera, anche ammettendo ma non consentendo di aumentare i prezzi, quando si producono in media solo 32 q/ha di frumento duro e di tenero ne produciamo 53 di q/ha. Purtroppo però sul mercato siamo accomunati ai francesi che ne producono rispettivamente 53 di duro e 75 di tenero.

    Quindi sui prezzi vi è ben poco da fare (tenuto conto che al limite i francesi sono i concorrenti meno pericolosi in fatto di prezzo)e quindi il nostro NONMINISTRO (ma chi glielo ha dato il diploma di Perito Agrario, ma forse è solo "perito") non ha ancora capito che è solo l'aumento della produttività unitaria si può fare qualcosa affinchè gli agricoltori non lascino le terre incolte. Non sono tanto ingenuo da non sapere che le produzioni francesi non possiamo raggiungerle, ma diminuire della metà il divario è certamente possibile.

    Ma se non abbiamo che una parvenza di industria sementiera in Italia e nel piano non si parla di miglioramento genetico del frumento come si può avere fiducia delle istituzioni e pagare le tasse per farle spendere in così malo modo?

    Ricordo per i non addetti che la produzione granaria, dove effettivamente si fa miglioramento vegetale, è cresciuta in media di 1,2 q/ha/anno negli ultimi 50 anni e che un 40% di questo aumento è ascrivibile alla sola genetica.

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